Ogni volta che una donna viene uccisa da un uomo, la
cronaca si trasforma in rito. Non si racconta un fatto, ma si celebra un
archetipo: la donna vittima per il solo fatto di essere donna, l’uomo carnefice
per il solo fatto di essere uomo. Si parla di “femminicidio” non come categoria
descrittiva, ma come verdetto culturale. Non importa il contesto, la storia
personale, le motivazioni individuali. Importa il simbolo. Importa rafforzare
una narrazione: quella della mascolinità tossica, dell’uomo intrinsecamente
pericoloso, e di una società ancora patriarcale da decostruire. In questo
schema, chi non si cosparge il capo di cenere viene subito etichettato. Il
dubbio, la domanda, l’analisi razionale sono vietate. È sufficiente dire:
“forse non tutti i casi sono uguali”, “forse le dinamiche relazionali sono più
complesse”, “forse il concetto stesso di femminicidio andrebbe ridiscusso” — e
si è subito messi da parte. Colpevoli di lesa ideologia. Ma la realtà è più
ostinata delle narrazioni. I dati, ad esempio, mostrano che i cosiddetti
“femminicidi” sono più frequenti nei paesi ritenuti culturalmente avanzati.
Francia, Germania, paesi nordici — luoghi di emancipazione, benessere, e ampia
libertà sessuale. Questo non dimostra nulla in modo assoluto, ma pone una
domanda scomoda: e se le relazioni contemporanee, segnate dalla rapidità, dalla
fragilità, dalla mercificazione affettiva, stessero generando nuove insicurezze
e nuove forme di squilibrio emotivo? È vietato anche solo chiederselo? Quando
una psicologa afferma che “un rifiuto oggi è inconcepibile, in un mondo dove si
vuole tutto con un click”, viene presa sul serio solo se il discorso rientra
nel frame accusatorio contro l’uomo. Ma il cuore della sua riflessione è un
altro: viviamo in un’epoca in cui la struttura psichica dell’individuo è più
fragile, e i legami sono più instabili. L’uomo che uccide non è sempre il
patriarca dominante. Spesso è un relitto umano, solo, disperato,
infantilizzato, emotivamente disarmato. Questo non giustifica nulla. Ma spiega.
E spiegare non è difendere, è tentare di capire. Ma sembra che oggi capire sia
diventato il vero reato. Nel frattempo, milioni di uomini e donne vivono
relazioni serene, paritarie, profonde. Ma nessuno li ascolta. Non fanno
notizia. Non sono utili alla battaglia. Non rientrano nel modello. Ecco allora
l'effetto più pericoloso: la narrazione perenne del conflitto tra i sessi
finisce per logorare anche ciò che funziona. Distrugge la fiducia, semina
sospetto, isola gli individui. In nome di una giustizia ideologica, rischiamo
di perdere il terreno comune su cui costruire qualsiasi affetto umano. E questo
non è progresso. È solitudine mascherata da lotta.
AP