"Virale" e "Iconico"

Basta, non se ne può più. Ogni giorno si leggono i termini "virale" e "iconico" associati a qualsiasi balletto o idiozia che salta fuori. Due termini che hanno subito una progressiva svalutazione semantica. Originariamente riservati a fenomeni di autentica risonanza culturale, oggi vengono applicati con disinvoltura a qualsiasi contenuto che ottenga una minima visibilità temporanea. Il termine "virale" nasceva come metafora per descrivere contenuti capaci di diffondersi autonomamente, quasi come un organismo biologico. Oggi basta che un video raggiunga qualche migliaio di visualizzazioni perché i media lo etichettino come "fenomeno virale", svuotando il termine del suo significato originario. Definire "virale" un contenuto mediocre serve a conferirgli un'importanza che intrinsecamente non possiede, creando artificialmente notiziabilità dove non c'è sostanza. Ancora peggio fanno con l'aggettivo "iconico". Storicamente riservato a opere, personaggi o momenti capaci di trascendere il loro tempo per diventare simboli culturali duraturi, oggi viene attribuito con leggerezza a qualsiasi fenomeno passeggero. Un grottesco vestito indossato da una celebrità, una battuta in un reality show, un balletto su TikTok: tutto diventa "iconico" nell'iperbole mediatica contemporanea. I media, nel loro disperato inseguimento di clic e visualizzazioni, esaltano acriticamente qualsiasi contenuto possa generare profitto immediato, a prescindere dal suo valore artistico o culturale. Questa inflazione terminologica non è solo una questione linguistica, ma riflette un più ampio impoverimento culturale. Quando tutto è "virale" e "iconico", nulla lo è veramente. Si perde la capacità di distinguere tra fenomeni significativi e semplici mode passeggere, tra cultura e intrattenimento di consumo.