Resilienza: la parola feticcio dei nostri tempi, il mantra delle conferenze manageriali, il termine magico che trasforma l'oppressione in opportunità. Ci hanno convinto che essere "resilienti" sia la virtù suprema. La resilienza è diventata la foglia di fico perfetta per un sistema economico e sociale che scarica sugli individui responsabilità collettive.
La resilienza nasce come concetto scientifico che descrive la capacità di un materiale di assorbire urti senza spezzarsi. In psicologia, indica la capacità di affrontare e superare eventi traumatici. Un concetto utile, legittimo. Ma cosa in cosa è stata trasformata oggi? In un imperativo morale, uno strumento retorico che colpevolizza chi non "rimbalza" abbastanza velocemente dalle difficoltà. "Sii resiliente!" è diventato il modo elegante per dire "arrangiati" e "non lamentarti". È il complemento perfetto a un'epoca di precarietà e incertezza Lavoro instabile? Sii resiliente. Stipendio inadeguato? Opportunità per dimostrare resilienza. Stress? Ti manca la resilienza. Questo abuso ha trasformato un concetto potenzialmente utile in uno strumento di controllo sociale. Non è più una qualità personale, ma un obbligo, un nuovo standard di produttività emotiva. La retorica della resilienza opera un ribaltamento perverso: trasforma problemi strutturali in deficit individuali. Se non riesci a sopravvivere in un sistema economico predatorio, il problema sei tu, la tua insufficiente resilienza. Anziché interrogarsi su come cambiare sistemi malati, ci si concentra su come adattarsi meglio ad essi. La resilienza diventa complice del mantenimento dello status quo. Si glorifica dunque la capacità di sopportare condizioni insostenibili, ma noi non siamo materiali da testare fino al punto di rottura.
Diffidate di chi usa questo termine, la vera
forza non sta nel piegarsi senza spezzarsi, ma nel dire "basta"
quando è necessario. Non sta nell'adattarsi a sistemi ingiusti, ma nel
cambiarli. WI