C'è stato un tempo in cui le decisioni sul riarmo e
sulla guerra generavano immediate reazioni popolari: manifestazioni di piazza,
mobilitazioni studentesche, scioperi e forme visibili di opposizione. Oggi,
annunci simili vengono accolti con una sorprendente normalizzazione, quasi come
fossero inevitabili. Questa metamorfosi della reazione sociale non è avvenuta
per caso. Si è sviluppata parallelamente alla rivoluzione digitale e
comunicativa che ha frammentato l'attenzione collettiva e individualizzato esperienze
che un tempo erano condivise.
Il flusso ininterrotto di informazioni ha creato un
paradosso: si è simultaneamente più informati, di un'informazione che non cessa
mai, rimbalza tra piattaforme diverse, si presenta in formati sempre più brevi
e stimolanti, progettati per catturare l'attenzione ma non favorisce la
riflessione. L’esperienza quotidiana è diventata un mosaico di interruzioni
continue: notifiche, aggiornamenti, contenuti personalizzati che seguono
ovunque. Questo bombardamento sensoriale lascia poco spazio alla contemplazione
necessaria per comprendere questioni complesse come la pace, la guerra e la
sicurezza internazionale.
Per recuperare quel minimo di capacità di reazione
collettiva di fronte a decisioni che riguardano il nostro futuro comune
bisognerebbe intanto cominciare a coltivare spazi di disconnessione e
riflessione profonda, liberi dall'urgenza della comunicazione continua.
Dopodiché ricostruire comunità di discussione reali, dove il dialogo possa
svilupparsi con tempi adeguati alla complessità dei temi esercitando un
approccio critico verso le fonti di informazione, privilegiando l'approfondimento
rispetto all'immediatezza.
La pace non è solo assenza di guerra, ma un processo
attivo che richiede impegno civile e partecipazione. Siamo ancora in grado di recuperare
una capacità minima di reazione collettiva che non sia pilotata dai soliti noti?
Ritrovare modalità di comunicazione e condivisione
che favoriscano il pensiero critico e l'azione comune è fondamentale.