Ci si sveglia al suono di una notifica. Il mondo digitale non attende, non rispetta i tempi umani. Si è già in ritardo prima ancora di aprire gli occhi. Si esce di casa armati di smartphone, agende digitali e tazze di caffè per affrontare la giornata. La competizione è l'aria che si respira. A scuola, all'università, nei colloqui di lavoro, nelle riunioni. Si è costantemente valutati attraverso "feedback" e "performance review". Numeri che determinano il valore di mercato, la rilevanza sociale. Non basta lavorare bene, bisogna "sapersi vendere". Non basta essere se stessi. E tutto questo ha un prezzo. Mutui trentennali, prestiti per la "formazione", leasing, rate e carte di credito. Debiti perenni per esistere, per partecipare a questo grande gioco. Le trincee della modernità sono invisibili ma non meno reali. Si combattono battaglie silenziose contro l'ansia, l'insonnia, la sensazione costante di inadeguatezza. Alcuni restano feriti, altri disertano, molti continuano a marciare perché non conoscono alternative. Si parla di guerre e riarmo, ma la vita moderna è già una trincea, bisogna solo prendere consapevolezza e decidere per quali battaglie vale la pena combattere.
"Requiem for a Dream" di Darren Aronofsky
"Requiem for a Dream" di Darren Aronofsky
è un monito universale sulle dipendenze che vanno molto oltre la
tossicodipendenza tradizionale. In un'era di dipendenze digitali, ossessioni da
social media, consumismo compulsivo e perdita di connessione umana, l’opera di
Aronofsky del 2000 è attualissima.
Il film demolisce l'illusione che le dipendenze
siano solo legate alle sostanze stupefacenti. Mostra con spietata chiarezza
come l'ossessione possa assumere forme diverse: la dipendenza da droghe dei
giovani protagonisti, l'ossessione televisiva e dal sogno del successo della
madre, la ricerca compulsiva di validazione sociale, il bisogno alienante di
soddisfare desideri imposti dall'esterno
"Requiem for a Dream" rivela come i sogni
possano trasformarsi in incubi quando diventano ossessioni. Storie incrociate
in cui tutti cercano una via di fuga dalla propria mediocrità, ma i loro sogni
si rivelano trappole mortali, specchi infranti di un'esistenza svuotata di
significato
Questo non è un film che si guarda, ma un'esperienza che si attraversa. Un lungo respiro in cui appaiono la mercificazione dei desideri, l'illusione del successo facile, la solitudine nelle grandi metropoli e la frammentazione delle relazioni umane. Una frammentazione che Aronofsky costruisce con una narrazione visiva composta da tagli rapidi, prospettive distorte, sequenze ipnotiche ed una colonna sonora martellante (Clint Mansell).
Un viaggio nel buio più profondo dell'animo umano:
dietro ogni dipendenza c'è sempre un sogno infranto, una speranza tradita,
un'umanità che cerca disperatamente di fuggire da se stessa. Un'opera che continua a urlare la sua verità,
ancora oggi più che mai.
Paesaggi interiori
La vera comprensione non è un atto intellettuale, ma un atto di ospitalità. Accogliere un pensiero significa permettergli di abitare i nostri spazi più profondi, di dialogare con le nostre ferite, le nostre speranze, i nostri silenzi. Significa convertire la conoscenza da esperienza esteriore a paesaggio interiore.
Chi conosce in questo modo non accumula nozioni, ma genera vita. Non cataloga, ma germoglia. Non separa, ma connette. Ogni idea diventa un ponte tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare.
Esistono due modi di incontrare la verità: come un ospite fuggevole che si affaccia alla finestra della mente, o come un compagno di viaggio che si insedia nel territorio più intimo del nostro essere.
L'intelligenza può rivelarsi uno spazio neutro, asettico, dove le idee scivolano come ombre momentanee e inconsistenti. Qui, il pensiero diventa un teatro di immagini transitori, dove i concetti si susseguono senza mai radicarsi, senza mai trasformarsi in linfa vitale. Le intuizioni passano, sfiorano la superficie della coscienza, e poi svaniscono, lasciando dietro di sé solo il vuoto di un'esperienza incompiuta.
Ma esiste un altro modo di abitare il pensiero. Un modo in cui le idee non sono più oggetti esterni, ma semi che germogliano nella profondità dell'anima. Qui, conoscere significa trasformare, incorporare, metabolizzare. Un concetto diventa allora simile al pane: nutrimento che non solo sfama, ma ricostruisce, cellula dopo cellula, l'architettura interiore di chi lo accoglie.
In questa geografia interiore, una singola idea può accompagnarci per l'intera esistenza. Non come un ricordo statico, ma come un compagno dinamico che cresce con noi, che si trasforma mentre noi ci trasformiamo, che ci abita mentre noi lo abitiamo.
Euro digitale
L’ Europa si prepara al varo dell’euro digitale,
altro sistema di controllo sociale che permetterà di esercitare una
sorveglianza capillare sul movimento dei pagamenti.
Sul sito della Banca d’Italia si legge che una moneta, per essere
programmabile, deve essere digitale, ma che l’euro digitale, certamente non
sarà programmabile. ‘Programmabile’ significa poter prefissare il tempo, il
luogo ed il destinatario del pagamento. Considerata l’abitudine del potere alla
menzogna, all’inganno e alla circuizione, e vista la diffusione di discorsi
antitetici che vengono accolti dalla massa con sempre minore capacità di
coglierne l’illogicità, è evidente che, se si legge che l’euro digitale non
sarà programmabile, di fatto, lo sarà.
Stiamo assistendo ad un cambiamento ontologico della struttura del potere, che
si sta facendo più sotterraneo e subdolo, un biopotere che prima riduce
l’individuo a mero elemento da controllare, assoggettandone i vari aspetti
della vita, poi se ne serve per i propri scopi: lo educa e lo plasma perché si
faccia portavoce di una propaganda che, seppur esiziale per la propria
integrità, non lo dissuade dal difendere i dettami del potere. In cambio
dell’obbedienza, si ricevono premi. Basti pensare al green pass, coccardina da
appuntare sul petto a dimostrazione del proprio senso civico. Certo, perché il
potere insegna ad agire non solo nel rispetto della legge, bensì per
contribuire al benessere della società intera. Gli obbedienti, così premiati,
si sentono investiti di una vera missione e non si preoccupano che il potere
decida della loro esistenza e, impregnati di superiorità morale, convinti di
essere dalla parte del giusto e di dover insegnare al prossimo, si ergono sul
piedistallo del pedagogo, lo schiavo che nell’antica Grecia guidava i fanciulli
verso la conoscenza, insegnando loro un insieme di saperi approvato e imposto
dall’alto, da una civiltà che piegava i prigionieri ai propri fini.
Il pedagogo di oggi diffonde una becera propaganda basata su fondamenta
marcescenti e si comporta da lobotomizzato: a bordo della sua macchina
elettrica, abituato a non fare a meno di Amazon, passa il tempo attaccato al
telefonino sul quale ha trasfuso l’intera sua esistenza.
Non stupisce infatti vedere effettuare pagamenti anche di pochi centesimi, ad
esempio dal panettiere o al bar, con il telefonino, vero e proprio raccoglitore
di documenti, conti in banca, vita sociale, ricordi e account di ogni genere.
Senza quel prolungamento di sé, si diventa prigionieri di se stessi e della
propria poca lungimiranza. Il pedagogo accoglierà con sollievo il passaggio
dall’uso del telefonino al microchip, quando quest’ultimo potrà essere
impiantato in pochi minuti in un hub preposto, e sarà ben contento
dell’introduzione del denaro digitale, in questo modo si estirperà finalmente
l’evasione fiscale e tutti, ma proprio tutti, diventeranno onesti cittadini
esattamente come lui.
AM
Reazioni collettive nell'epoca dei social
C'è stato un tempo in cui le decisioni sul riarmo e
sulla guerra generavano immediate reazioni popolari: manifestazioni di piazza,
mobilitazioni studentesche, scioperi e forme visibili di opposizione. Oggi,
annunci simili vengono accolti con una sorprendente normalizzazione, quasi come
fossero inevitabili. Questa metamorfosi della reazione sociale non è avvenuta
per caso. Si è sviluppata parallelamente alla rivoluzione digitale e
comunicativa che ha frammentato l'attenzione collettiva e individualizzato esperienze
che un tempo erano condivise.
Il flusso ininterrotto di informazioni ha creato un
paradosso: si è simultaneamente più informati, di un'informazione che non cessa
mai, rimbalza tra piattaforme diverse, si presenta in formati sempre più brevi
e stimolanti, progettati per catturare l'attenzione ma non favorisce la
riflessione. L’esperienza quotidiana è diventata un mosaico di interruzioni
continue: notifiche, aggiornamenti, contenuti personalizzati che seguono
ovunque. Questo bombardamento sensoriale lascia poco spazio alla contemplazione
necessaria per comprendere questioni complesse come la pace, la guerra e la
sicurezza internazionale.
Per recuperare quel minimo di capacità di reazione
collettiva di fronte a decisioni che riguardano il nostro futuro comune
bisognerebbe intanto cominciare a coltivare spazi di disconnessione e
riflessione profonda, liberi dall'urgenza della comunicazione continua.
Dopodiché ricostruire comunità di discussione reali, dove il dialogo possa
svilupparsi con tempi adeguati alla complessità dei temi esercitando un
approccio critico verso le fonti di informazione, privilegiando l'approfondimento
rispetto all'immediatezza.
La pace non è solo assenza di guerra, ma un processo
attivo che richiede impegno civile e partecipazione. Siamo ancora in grado di recuperare
una capacità minima di reazione collettiva che non sia pilotata dai soliti noti?
Ritrovare modalità di comunicazione e condivisione
che favoriscano il pensiero critico e l'azione comune è fondamentale.
Risparmi
" UE, ECCO IL PIANO PER RISVEGLIARE I RISPARMI
IN BANCA"
Parlano di "soldi parcheggiati in banca", di "liquidità dormiente". Sono furbi, molto furbi, ma chiamiamo le cose con il loro vero nome: RISPARMI. Sacrifici. Sicurezza per il futuro. Quando un giornalista o un economista usa l'espressione "soldi parcheggiati", sta implicitamente suggerendo che quei fondi siano improduttivi, inerti, quasi colpevoli di non essere in movimento. È una retorica che denigra la prudenza e la previdenza di milioni di famiglie.
I risparmi non sono un lusso. Non sono un capriccio. Sono la certezza di poter affrontare un'emergenza medica, l'opportunità di dare un futuro migliore ai propri figli, la tranquillità di poter riparare l'auto quando si rompe, la dignità di non dover chiedere aiuto in caso di imprevisti.
Chi sono questi "esperti" per dirci come dovremmo gestire i frutti del nostro lavoro? Quanti hanno vissuto con l'ansia di arrivare a fine mese? La verità è che questa retorica serve solo a un sistema che vuole i nostri soldi in circolazione per alimentare investimenti che non sono nel nostro interesse. Vogliono far sentire in colpa le persone per essere prudenti, per proteggere se stessi e le proprie famiglie.
Non si cada in questa trappola. I risparmi non sono mai "parcheggiati". Sono esattamente dove devono essere, pronti a sostenere quando se ne ha bisogno. È un diritto, conquistato con fatica e sacrifici. Quando si legge di "soldi parcheggiati", ricordiamoci che stanno parlando della nostra sicurezza, del nostro futuro, della nostra dignità. E nessuno ha il diritto di far sentire in colpa per questo. Il risparmio è un valore, non un errore.
Finestroni di Overton avanzano.
Specchi e "casi umani"
"Eh io trovo sempre e solo casi umani!" - altra tipica frase molto in voga negli ultimi tempi, specialmente tra le donne. È diventata quasi un mantra, una spiegazione universale per le delusioni sentimentali. Quando si definiscono i propri ex come "casi umani", ci si pone automaticamente nella posizione di chi non ha responsabilità. Si è vittime innocenti del destino crudele che fa incontrare solo persone problematiche. Tipico ragionamento comodo per non guardare mai dentro se stessi. Le relazioni sono dinamiche a due. Se c'è uno schema che si ripete nelle storie d'amore, forse ci si dovrebbe chiedere quale sia il proprio ruolo in questo ciclo. O no? C'è un motivo se si tende a essere attratte sempre dallo stesso tipo di persona.
I modelli di attaccamento, formati nell'infanzia, influenzano profondamente le scelte sentimentali da adulti. Se si cresce in determinati ambienti, inconsciamente si finisce col cercare persone che replicano quelle dinamiche familiari. In realtà spesso si scelgono partner "complicati" perché, paradossalmente, sono più sicuri, perché con loro la relazione ha un limite incorporato. Mentre persone emotivamente stabili vengono allontanate in quanto "noiose". Ma cosa si cerca realmente in un partner?
C'è un aspetto particolarmente insidioso su cui soffermarsi: la dinamica della "crocerossina". Molte donne (ma anche uomini) che si lamentano dei "casi umani" cercano proprio persone con evidenti fragilità o "limitazioni" emotive, psicologiche o comportamentali. Questa attrazione verso partner "da sistemare" è un controllo mascherato da altruismo. Prendersi cura di qualcuno con problemi evidenti dà un senso di controllo sulla relazione. Si diviene indispensabili, e questo è gratificante per chi teme l'abbandono. La dipendenza dell'altro diventa una sicurezza. Essere "quella che lo cambierà" o "l'unica che lo capisce davvero" offre un'identità potente e un senso di scopo. Concentrarsi sui problemi dell'altro è un modo efficace per evitare di affrontare le proprie insicurezze e fragilità. Una relazione tra pari, dove entrambi sono emotivamente stabili, richiede vulnerabilità autentica e reciprocità. Per alcuni, questo è molto più spaventoso che gestire un partner "limitato". La cosa più pericolosa è che questo meccanismo si autoalimenta. Quando inevitabilmente la "missione di salvataggio" fallisce, ecco che ci si lamenta del "caso umano" incontrato, senza mai riconoscere che lo si è scelto proprio per quelle caratteristiche criticate. Il paradosso è che poi ci si definisce "troppo buoni" o "disposti a dare troppo", quando in realtà si stanno cercando relazioni dove poter mantenere uno squilibrio di potere a proprio favore.
Riconoscere questo schema richiede grande onestà con se stessi. Significa ammettere che forse non si è vittime passive di una cattiva sorte sentimentale, ma partecipanti attivi in dinamiche disfunzionali che, a un qualche livello, servono.
Etichettare gli ex come "casi umani" è dunque scorretto, in primis verso se stessi. Bisogna guardarsi limpidamente allo specchio, se si ha un ruolo attivo nella scelta dei partner, allora automaticamente si ha anche il potere di fare scelte diverse e cambiare modelli relazionali.
Invalsi o profilazione di stato?
Da diversi anni gli studenti sono sottoposti, al secondo ed al quinto anno
della scuola primaria, in terza media ed al secondo e quinto anno delle
superiori, a sostenere le prove INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione
del sistema dell’istruzione). Questo ente, che dal 2016 fa parte del Sistema
statistico nazionale, ha il compito di somministrare prove di Italiano,
Matematica e Inglese volte a rilevare il livello degli apprendimenti degli
studenti, per poi confrontarli su scala europea.
Il volto delle prove INVALSI è drasticamente mutato dal 2006, anno in cui
furono somministrate per la prima volta: da strumento anonimo di valutazione
delle scuole, a test psicometrico di profilazione degli studenti. Come spesso
accade, le novità sono introdotte mettendone in luce i vantaggi, le comodità, i
lodevoli scopi; poi, col tempo, emerge che esse nascondano altri obiettivi,
secondi fini, ma intanto il loro utilizzo è entrato, come si sperava, a regime.
E lo stesso è accaduto con le prove INVALSI, cavallo di Troia per estorcere, si
capisce, dolcemente, le informazioni con la complicità di Dirigenti scolastici
e docenti creduloni, a studenti ignari. Così le prove che erano –
ovviamente! – anonime (peccato che ad ogni studente sia associato un
codice, pertanto basta risalire all’accoppiata per svelare l’identità
dell’alunno), repentinamente diventano strumento di valutazione dell’alunno i
cui risultati confluiranno sul portfolio personale della Piattaforma Unica.
Quest’ultima, altra trovata del Ministero, raccoglie il ‘’percorso di
crescita’’ degli alunni ‘’per aiutarli a fare scelte consapevoli e a coltivare
e far emergere i loro talenti’’. Viene già da ridere leggendo le prime righe di
presentazione sul sito. Quando si gioca sporco, si sa, col tempo si diventa più
protervi. Ed ecco che all’interno delle prove INVALSI, oltre ai quesiti delle
varie discipline, vengono inserite domande circa il numero approssimativo di
libri presenti in casa; il numero di automobili della famiglia; il titolo di
studio ed il tipo di impiego dei genitori. Ora, perché rinunciare ad una forma
di arricchimento come quella rappresentata dalla vendita dei dati, dal momento
che questi sono il ‘nuovo petrolio’? Facendo qualche ricerca, sembra
impossibile risalire al trattamento dei dati personali. Si tratta di un sistema
di scatole cinesi in cui ciascun ente rimanda al Regolamento europeo sulla
privacy, da cui non si riesce a capire che fine fanno i dati raccolti. Riesce
difficile immaginare che i dati servano solo a tracciare un quadro nazionale
del livello di istruzione. Questi dati sono preziosissimi. Non solo perché
rappresenteranno il percorso evolutivo dello studente (dalle scuole elementari
fino all’università) che sarà consultabile dalle stesse università o da futuri
datori di lavoro, ma perché si può desumere il quadro cognitivo del singolo
studente. Le prove INVALSI sono strutturate come un test psicometrico per la
misurazione del Q.I. perché i quesiti rispecchiano scale verbali e scale di
performance. I risultati potrebbero essere utilizzati a scopo predittivo,
quindi per supporre la collocazione sociale del soggetto, di fatto per
stabilire le sue opportunità di vita.
I risultati degli INVALSI infine, sono inappellabili, perciò gli studenti non
potranno né visionare gli errori fatti, né potranno ripetere le prove – della
durata di sole 2 ore e corrette da un algoritmo – se queste fossero
andate male (non è detto infatti che durante la prova l’alunno sia in buono
stato psico-fisico).
Lo scorso anno sono stati “coinvolti” 2,5 milioni di studenti, o bisognerebbe
dire “ricattati”? Gli alunni delle classi quinte sono obbligati a fare gli
INVALSI, pena la non ammissione all’Esame di Stato.
Stupisce che gli studenti accettino passivamente di svolgere queste prove,
forse ne ignorano il vero fine, per ingenuità o indolenza non si pongono il
dubbio, oppure dopo anni di scuola hanno interiorizzato il ruolo di sudditi.
AM
"Virale" e "Iconico"
Basta, non se ne può più. Ogni giorno si leggono i
termini "virale" e "iconico" associati a qualsiasi balletto
o idiozia che salta fuori. Due termini che hanno subito una progressiva
svalutazione semantica. Originariamente riservati a fenomeni di autentica
risonanza culturale, oggi vengono applicati con disinvoltura a qualsiasi
contenuto che ottenga una minima visibilità temporanea. Il termine
"virale" nasceva come metafora per descrivere contenuti capaci di
diffondersi autonomamente, quasi come un organismo biologico. Oggi basta che un
video raggiunga qualche migliaio di visualizzazioni perché i media lo
etichettino come "fenomeno virale", svuotando il termine del suo
significato originario. Definire "virale" un contenuto mediocre serve
a conferirgli un'importanza che intrinsecamente non possiede, creando
artificialmente notiziabilità dove non c'è sostanza. Ancora peggio fanno con
l'aggettivo "iconico". Storicamente riservato a opere, personaggi o
momenti capaci di trascendere il loro tempo per diventare simboli culturali
duraturi, oggi viene attribuito con leggerezza a qualsiasi fenomeno passeggero.
Un grottesco vestito indossato da una celebrità, una battuta in un reality
show, un balletto su TikTok: tutto diventa "iconico" nell'iperbole
mediatica contemporanea. I media, nel loro disperato inseguimento di clic e
visualizzazioni, esaltano acriticamente qualsiasi contenuto possa generare
profitto immediato, a prescindere dal suo valore artistico o culturale. Questa
inflazione terminologica non è solo una questione linguistica, ma riflette un
più ampio impoverimento culturale. Quando tutto è "virale" e
"iconico", nulla lo è veramente. Si perde la capacità di distinguere
tra fenomeni significativi e semplici mode passeggere, tra cultura e intrattenimento
di consumo.
Scelte professionali
Sarebbe importante ogni tanto fermarsi a riflettere
sul significato e l'impatto del nostro lavoro quotidiano. Le industrie ad alta
tecnologia offrono posizioni prestigiose e ben remunerate, ma quali
responsabilità comportano queste opportunità professionali?
Nel settore industriale avanzato, specialmente
quello legato a tecnologie strategiche, si tende spesso a valutare un'azienda o
un progetto esclusivamente in base alla sua capacità di creare occupazione.
"Dà lavoro" diventa il mantra che giustifica qualsiasi attività,
senza un'analisi più profonda sul valore e l'impatto di ciò che viene prodotto.
Questa visione riduttiva porta a una pericolosa
disconnessione tra l'attività professionale e le sue conseguenze nel mondo
reale.
Il potere oggi ci parla di necessaria riconversione
industriale, in realtà servirebbe una riconversione di mentalità. Un
professionista dovrebbe chiedersi: qual è l'impatto reale dei prodotti che
contribuisco a creare? Le risorse impiegate potrebbero essere destinate a
progetti più costruttivi per la società? Quale responsabilità ho nel
contribuire a determinati settori industriali?
L'orgoglio per le proprie competenze tecniche e per
l'appartenenza a settori all'avanguardia non può non includere anche la
consapevolezza delle implicazioni etiche del proprio lavoro.
Le scelte professionali individuali contribuiscono a
plasmare il futuro collettivo. Forse è tempo di ripensare cosa significhi
realmente "dare lavoro" e iniziare a considerare non solo quanti
posti di lavoro vengono creati, ma quale tipo di mondo stiamo costruendo
attraverso il nostro impegno quotidiano.
Controinformazione
Una controinformazione autentica non aggiunge
fantasie, ma rivela l'essenziale. Solo quando si abbandonano le interpretazioni
soggettive per abbracciare una lettura lucida della realtà si acquisisce
chiarezza.
Osservare senza distorsioni emotive o ideologiche,
non è passività – è il prerequisito dell'azione consapevole.
Invece gran parte delle voci nella cosiddetta
"controinformazione" offrono non fatti, ma narrazioni alternative
contaminate dalle stesse tattiche manipolative che pretendono di combattere.
Presentano ipotesi come certezze, collegano eventi casuali in trame
fantastiche, sostituiscono l'analisi rigorosa con l'indignazione
preconfezionata.
Il bello è che poi si accusano a vicenda di essere
falsi controinformatori. Ad ogni intervento iniziano con "i falsi
controinformatori vi dicono così, invece io..."
La vera resistenza all'informazione manipolata dei
media è innanzitutto una disciplina mentale: osservare senza recitare un
copione predeterminato, distinguere tra ciò che sappiamo e ciò che supponiamo,
mantenere quella calma interiore che non è indifferenza, ma è il fondamento
della lucidità. Solo allora si possono identificare degli spazi reali di
intervento, senza sprecare energie in battaglie immaginarie o reazioni
automatiche.
La vera controinformazione non suggerisce cosa
pensare ed è libera dal bisogno di confermare le proprie convinzioni.
Il sacro
Lévy-Bruhl affermava che l’uomo primitivo avesse la capacità di ‘sentire’ la trascendenza poiché i suoi processi psichici si basavano su un pensiero pre-logico, privo cioè di una struttura logica, lo strumento per pensare che Aristotele analizzò nell’Organon.
La psiche primitiva viveva un’unione mistica con la natura dove l’Io si fondeva con essa, senza opporre a sé un non-Io, un oggetto percepito; dunque il soggetto non si percepiva scisso rispetto alla realtà esterna, bensì partecipava contemporaneamente al naturale e al sovrannaturale. In assenza di una visione manichea della vita, il pensiero si sviluppava libero dalle regole della logica, libero dal principio di non-contraddizione, perciò era in grado di collocarsi in un contesto cosmico, in un punto fisso, il Centro del Mondo. In tale contesto tutto è e non-è simultaneamente; passato, presente e futuro coincidono. In questo stato mentale primitivo il sacro si rivela e turba l’animo umano, attraendolo e respingendolo, affascinandolo e spaventandolo.
Mircea Eliade scriveva che “il sacro è saturo d’essere”. Solo l’essere è sacro, è cifra dell’esistenza.
Il profano non può far parte dell’essere. L’essere è ciò a cui l’individuo tende, ciò di cui si va alla ricerca, per tutta la vita.
La rivelazione del sacro, per coloro che oggi ancora lo cercano, può dare la nausea. Quando si avverte ad un livello pre-razionale il non-senso dell’esistenza e si ha la certezza dell’ineffabilità del sacro, sovviene un senso di spaesamento nauseante. Si barcolla come dopo un pugno in faccia.
La maggioranza delle persone oggi fa a meno del sacro: si fugge dalla sensazione di nausea che sballotta la mente e ci si nasconde al centro commerciale, il nuovo ‘centro del mondo’, il tempio del consumo.
Tuttavia capita ancora di incontrare persone nei boschi che osservano le cime degli alberi, ne toccano i tronchi e godono del silenzio, dell’immensità e della sacralità della natura.
Nuova Yalta
Nell'ombra delle grandi manovre geopolitiche contemporanee, si profila uno scenario che ricorda la storica Conferenza di Yalta del 1945, ma con coordinate radicalmente diverse. Questa volta, l'oggetto della spartizione non è più il destino dell'Europa uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, bensì l'Europa stessa come entità geopolitica e strategica.
L'asse USA-BRICS sembra essere sempre più un tavolo
di negoziazione dove vengono ridisegnati gli equilibri planetari. L'Europa,
lungi dall'essere un attore protagonista, si sta trasformando nel principale
terreno di confronto e compromesso tra le nuove potenze globali.
Da un lato abbiamo gli Stati Uniti che, consapevoli
del proprio declino egemonico, cercano di preservare influenza e alleanze
strategiche. L'Europa per loro rappresenta ancora un avamposto geopolitico
cruciale, un baluardo contro la Russia e la crescente influenza
cinese.
Dall’altro i Brics, un blocco sempre più coeso che
include Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. Questi paesi mirano a
scardinare l'ordine internazionale guidato dall'Occidente, costruendo alleanze
alternative e sfidando l'egemonia statunitense.
E poi c’è l’Europa, sempre più frammentata e priva di una vera sovranità strategica. Essa è il campo di battaglia diplomatico e economico tra questi nuovi equilibri globali.
L'ipotesi di una "Nuova Yalta" si
costruisce sui seguenti assi:
- Distacco Energetico: l'Europa viene
progressivamente sganciata dalle forniture energetiche tradizionali, con nuove
rotte che bypassano i suoi interessi.
- Marginalizzazione Strategica: perdita progressiva
di peso politico e capacità decisionale autonoma.
- Frammentazione Interna: divisioni che indeboliscono la capacità di risposta collettiva.
Quello che si profila non è tanto un accordo
formale, quanto un tacito rimodellamento degli spazi di influenza. L'Europa è
sempre più relegata a un ruolo di "cuscinetto" tra le grandi potenze,
con la sua sovranità progressivamente erosa. E con gli attuali vertici non può
che assumere il ruolo di oggetto, più che soggetto, delle dinamiche
geopolitiche globali.
La "Nuova Yalta" non è ancora scritta. Ma
i primi capitoli sembrano già tracciati, con il ruolo dell'Europa nel mondo in
via di ridefinizione.
Una situazione geopolitica complessa che solleva più
domande di quante non fornisca risposte definitive.
Polarizzazioni
Opinioni polarizzate, tifo per fazioni, bianco o
nero. Quando si cerca di analizzare questioni complesse con imparzialità
arrivano a flotte i "ma voi da che parte state?" Questo accade
soprattutto perché l'appartenenza a gruppi ideologici definiti viene premiata,
mentre il pensiero indipendente genera sospetto ("gatekeeper"!). È
comprensibile, la comodità di identificarsi con una fazione definita è fonte di
sicurezza emotiva e senso di identità condivisa, ma il potere prospera su
queste dinamiche di fazioni contrapposte. Chi sceglie l'autonomia
intellettuale, osservando criticamente la realtà senza aderire a posizioni
preconfezionate, non viene visto di buon occhio, egli minaccia l'ordine
stabilito del dibattito polarizzato. Chi cerca di comprendere a fondo le
questioni non urla slogan, non si schiera aprioristicamente, ma prima osserva,
studia, riflette e valuta. Questo è un modus operandi malvisto, che mal si
concilia con le logiche di appartenenza organizzata, ne abbiamo fatto
esperienza negli anni. Siamo convinti che la libertà del pensiero individuale e
non l'affiliazione a strutture che perseguono primariamente il potere sia un
segno di onestà verso se stessi. Meglio essere guardati con sospetto piuttosto
che bearsi della comoda appartenenza ad un collettivo. Si rimane ai margini, ma
i benefici sono impagabili.
Resilienza
Resilienza: la parola feticcio dei nostri tempi, il mantra delle conferenze manageriali, il termine magico che trasforma l'oppressione in opportunità. Ci hanno convinto che essere "resilienti" sia la virtù suprema. La resilienza è diventata la foglia di fico perfetta per un sistema economico e sociale che scarica sugli individui responsabilità collettive.
La resilienza nasce come concetto scientifico che descrive la capacità di un materiale di assorbire urti senza spezzarsi. In psicologia, indica la capacità di affrontare e superare eventi traumatici. Un concetto utile, legittimo. Ma cosa in cosa è stata trasformata oggi? In un imperativo morale, uno strumento retorico che colpevolizza chi non "rimbalza" abbastanza velocemente dalle difficoltà. "Sii resiliente!" è diventato il modo elegante per dire "arrangiati" e "non lamentarti". È il complemento perfetto a un'epoca di precarietà e incertezza Lavoro instabile? Sii resiliente. Stipendio inadeguato? Opportunità per dimostrare resilienza. Stress? Ti manca la resilienza. Questo abuso ha trasformato un concetto potenzialmente utile in uno strumento di controllo sociale. Non è più una qualità personale, ma un obbligo, un nuovo standard di produttività emotiva. La retorica della resilienza opera un ribaltamento perverso: trasforma problemi strutturali in deficit individuali. Se non riesci a sopravvivere in un sistema economico predatorio, il problema sei tu, la tua insufficiente resilienza. Anziché interrogarsi su come cambiare sistemi malati, ci si concentra su come adattarsi meglio ad essi. La resilienza diventa complice del mantenimento dello status quo. Si glorifica dunque la capacità di sopportare condizioni insostenibili, ma noi non siamo materiali da testare fino al punto di rottura.
Diffidate di chi usa questo termine, la vera forza non sta nel piegarsi senza spezzarsi, ma nel dire "basta" quando è necessario. Non sta nell'adattarsi a sistemi ingiusti, ma nel cambiarli.