I genitori nati tra il ’40 e il ’60 sono stati figli
della necessità, cresciuti nell'ombra delle privazioni del dopoguerra o nelle
ristrettezze economiche degli anni successivi. La loro formazione emotiva era
stata forgiata da un imperativo categorico: sopravvivere, mantenere,
provvedere. Il concetto di realizzazione personale era un lusso che non
potevano permettersi di contemplare, figuriamoci di insegnare. Questi genitori
hanno costruito le loro vite intorno a un'architettura rigida di doveri
sociali. Il lavoro era la colonna portante, la famiglia l'edificio da
preservare a ogni costo. Ma spesso questa solidità strutturale nascondeva una
fragilità emotiva mai affrontata, un analfabetismo sentimentale tramandato di
generazione in generazione. Non era malevolenza, la loro. Era piuttosto una
forma di miopia emotiva, un'incapacità di vedere oltre il paradigma della
sussistenza materiale. Mentre si preoccupavano di riempire i piatti e pagare le
bollette, non avevano gli strumenti per nutrire i sogni dei loro figli, per
riconoscere e coltivare i loro talenti nascenti. Le conversazioni a tavola
ruotavano intorno alle preoccupazioni quotidiane, ai conti da far quadrare,
alle necessità pratiche. Le aspirazioni creative, le inclinazioni artistiche,
le vocazioni non convenzionali venivano spesso liquidate come fantasie
improduttive, capricci da accantonare in nome del "posto fisso" e
della stabilità economica. Quanti potenziali artisti sono stati dirottati verso
impieghi "sicuri"? Quanti scrittori hanno riposto la penna nel
cassetto? Quanti musicisti hanno smesso di suonare? Quanti sportivi hanno
tralasciato la loro vocazione? Non per cattiveria dei genitori, ma per la loro
incapacità di concepire un mondo diverso da quello che conoscevano, un mondo
dove la realizzazione personale potesse coesistere con la sicurezza economica.
Questa generazione di genitori ha lasciato
un'eredità complessa: da un lato, ha fornito delle basi materiali per poter realizzare
qualcosa di più rispetto a quanto loro abbiano potuto fare; dall'altro, ha
trasmesso ferite invisibili, silenzi emotivi che ancora oggi molti stanno imparando a colmare. La loro era una forma di amore pratico, tangibile,
misurabile in sacrifici e rinunce. Un amore che sapeva come mettere il pane in
tavola ma non come nutrire l'anima. Un amore che costruiva tetti sotto cui
ripararsi ma non sapeva come proteggere i sogni.
Oggi, molti di quei figli incompresi sono diventati
genitori a loro volta, portando con sé la consapevolezza di queste mancanze. La
sfida per loro è duplice: guarire le proprie ferite mentre cercano di non
ripetere gli stessi schemi con i propri figli, imparando ad ascoltare non solo
i bisogni materiali ma anche quelli emotivi e spirituali delle nuove
generazioni. È un processo di evoluzione generazionale, dove il riconoscimento
di ciò che è mancato diventa il primo passo per costruire qualcosa di nuovo.
Non si tratta di giudicare quella generazione di genitori, ma di comprendere il
contesto storico e sociale che li ha plasmati, per poter trascendere quei
limiti e creare nuovi modelli di genitorialità più consapevoli e completi.