Il nichilismo del divano

Nietzsche insegnò che il nichilismo è lo svuotamento di significato di tutti i valori. Ma quello che osserviamo oggi è qualcosa di profondamente diverso dal nichilismo storico: è un vuoto che non cerca di riempirsi, una negazione che non aspira a diventare affermazione.

I movimenti nichilisti del passato bruciavano di passione negativa, di una volontà di annullamento che, paradossalmente, era essa stessa una forma di vitalità. Era un nichilismo che gridava "no" per far emergere un "sì" nascosto, che distruggeva per ricostruire. Era, in fondo, un nichilismo romantico.

Oggi ci troviamo di fronte ad un nichilismo che non ha nemmeno l'energia di negare attivamente. È un vuoto che si è fatto comfort, un'assenza che non cerca presenza.

È un nichilismo che non cerca redenzione perché non crede di averne bisogno. Non cerca riscatto perché non percepisce di essere caduto. È uno stato di quiete artificiale, un limbo digitale dove il significato non viene violentemente negato, ma dolcemente dimenticato.

Quando il vuoto diventa così comodo, quando l'assenza di significato diventa essa stessa insostenibile nella sua banalità, ecco che potrebbe nascere un nuovo desiderio di autenticità.

Non ci sarà una rivoluzione rumorosa, non ci saranno manifesti o barricate. Ma chissà, forse, nel silenzio di una stanza illuminata solo dalla luce blu di uno schermo, qualcuno alzerà lo sguardo e si chiederà se c'è qualcosa oltre il comfort del nulla. E in quella domanda, per quanto flebile, potrebbe nascere una nuova forma di resistenza.




Il controllo dei giovani

 “In alcuni luoghi i bambini erano praticamente rapiti per essere condotti a forza nelle scuole federali, i loro capelli venivano tagliati, i loro vestiti gettati via ed era loro proibito parlare nella propria lingua. I bambini erano tenuti a scuola in continuazione, anno dopo anno, al fine di neutralizzare l’influenza delle loro famiglie.”


Questo è quanto si legge nell’opera “Infanzia e società” di Erik Erikson, pubblicata nel 1950. Il celebre psicoanalista si riferisce ai bambini Dakota, sottotribù dei Sioux, ai quali fino agli anni ’20 venne imposta un’educazione bianca per sradicarli dalle proprie famiglie e così, dalla propria cultura. Queste parole oggi suonano molto sinistre, soprattutto a coloro abituati a ravvisare analogie tra il passato ed il presente.
Dal 2001 esiste l’associazione TreeLLLe, con sede a Genova, che ha come obiettivo realizzare una “società dell’apprendimento permanente”. Le strategie per farlo, come dichiarava il presidente dell’ente nel 2019 sulle pagine del Corriere della Sera, occorre “affidare i bambini alla scuola il più precocemente possibile, nell’età in cui si forma il linguaggio e si strutturano i comportamenti sociali, almeno fin dai tre anni (…) così da ridurre al minimo i condizionamenti socio-culturali negativi.”

L’educazione infantile ha effetti determinanti e durevoli sulla concezione del mondo e sullo sviluppo del senso di identità del bambino, pertanto dovrebbe essere in primis compito della famiglia. Il ruolo della scuola arriva in un momento successivo, e di certo non con il fine di controllare l’apprendimento del linguaggio e la strutturazione dei comportamenti sociali. Un bambino sottratto troppo precocemente alle cure parentali ed affidato a un istituto, non potrà che ricevere un’educazione standardizzata che lo renderà un individuo conformista. Ed è proprio questo lo scopo della scuola di oggi, un’istituzione che è il prolungamento di un impianto politico sorvegliante e subdolo, che attraverso spinte gentili (sfrutta infatti il nudging, una tecnica pensata nell’ambito dell’economia comportamentale) induce cambiamenti sociali.  Associazioni no-profit (finanziate da banche, ovvio) che collaborano con lo Stato per offrire un’istruzione di qualità e sollevare le famiglie dal pesante fardello della cura dei figli: ci pensano loro a “ridurre al minimo i condizionamenti socio-culturali negativi”. Quali essi siano, naturalmente, è deciso da loro. Possiamo però immaginare quali condizionamenti da eliminare compaiono nelle loro griglie di osservazione dell’infante: autonomia di pensiero, spirito di iniziativa e di ribellione, pensiero divergente, senso di appartenenza. Per plasmare la società è fondamentale intervenire nella scuola e non basta più, come un tempo, dare un certo taglio ai libri di testo, formare insegnanti mediocri e proni al sistema o peggio, chiedere loro atti di fede (come iniettarsi il siero per continuare a lavorare), l’obiettivo è che non appena un bambino pronuncia la prima parola, sia affidato all’istituto che provvederà a insegnargli quella neolingua che atrofizzerà il pensiero e lo piegherà alle esigenze della società.


                                                  AM

Intuizioni filosofiche

Incontriamo talvolta individui che sembrano possedere una forma di saggezza che sfugge ai tradizionali parametri dell'analisi filosofica. Questi individui, pur non avendo una formazione filosofica formale o non mostrando particolare inclinazione verso il ragionamento analitico strutturato, riescono comunque a giungere a profonde intuizioni sulla natura della realtà e dell'esistenza umana.

Queste persone rappresentano un affascinante paradosso: mentre il loro cervello sembra "rifiutare" attivamente le complesse strutture del pensiero filosofico formale, possiedono una sorta di "bussola interiore" che li guida verso le stesse verità che i filosofi raggiungono attraverso elaborate catene di ragionamento. È come se avessero accesso a un tipo diverso di conoscenza, una forma di comprensione che bypassa completamente i meccanismi del pensiero analitico.

Molte di queste persone possiedono un'elevata intelligenza emotiva che permette loro di cogliere verità profonde attraverso l'empatia e la connessione con gli altri, piuttosto che attraverso il ragionamento astratto. Essi potrebbero attingere, consciamente o inconsciamente, da una forma di saggezza collettiva tramandata attraverso generazioni, incorporata nella cultura e nelle tradizioni.

Questa forma di comprensione intuitiva non è meno valida del ragionamento filosofico formale. Essa rappresenta un modo complementare e ugualmente importante di accedere alla verità. In alcuni casi, potrebbe essere addirittura più efficace, in quanto non è limitata dai vincoli del linguaggio formale, opera a un livello più profondo e immediato, è meno soggetta ai pregiudizi intellettuali e può cogliere verità che sfuggono all'analisi razionale.

Osservando questo fenomeno bisogna riconsiderare il rapporto tra razionalità e intuizione nella ricerca della verità. Non si tratta di privilegiare un approccio sull'altro, ma di riconoscere che esistono multiple vie per giungere alla comprensione filosofica. La coesistenza di questi due approcci suggerisce che la verità filosofica possa essere accessibile sia attraverso un percorso razionale-analitico della filosofia tradizionale, sia da un percorso intuitivo naturale.

La capacità di comprendere le verità profonde dell'esistenza non è monopolio del pensiero razionale strutturato. La presenza di individui che "trascendono" la filosofia formale pur giungendo alle sue stesse conclusioni lo dimostra.



Vocazione

C'è una voce che ci segue fin dall'infanzia. All'inizio è impercettibile, la sentiamo nei momenti più inaspettati: mentre osserviamo il tramonto, durante l' ascolto di un brano musicale, quando ci perdiamo tra le pagine di un libro o nell'istante in cui le mani creano qualcosa che non sapevamo di poter realizzare. Crescendo, proviamo a soffocarla sotto strati di pragmatismo e aspettative altrui. La copriamo con scuse ragionevoli, la nascondiamo dietro scelte più sicure. A volte la perdiamo di vista per anni, convincendoci che era solo un'illusione giovanile. Ma lei resta lì, come un fiume che scorre silenzioso sotto la superficie della nostra esistenza. Può sembrare scomparsa, ma continua il suo corso, fino a quando non trova una via per tornare alla luce. Non importa quante volte cambiamo strada o quanto lontano cerchiamo di fuggire: prima o poi tornerà. Il giorno che la smettiamo di resistere, scopriamo che era lì ad aspettarci da sempre. Non aveva mai smesso di credere in noi, anche quando noi stessi avevamo smesso di farlo. Perché quella voce - chiamiamola vocazione o semplicemente verità - è la bussola che indica la strada verso casa. Non verso un luogo fisico, ma verso noi stessi. Verso ciò che, nel profondo, sappiamo di essere sempre stati.




La generazione del dovere

I genitori nati tra il ’40 e il ’60 sono stati figli della necessità, cresciuti nell'ombra delle privazioni del dopoguerra o nelle ristrettezze economiche degli anni successivi. La loro formazione emotiva era stata forgiata da un imperativo categorico: sopravvivere, mantenere, provvedere. Il concetto di realizzazione personale era un lusso che non potevano permettersi di contemplare, figuriamoci di insegnare. Questi genitori hanno costruito le loro vite intorno a un'architettura rigida di doveri sociali. Il lavoro era la colonna portante, la famiglia l'edificio da preservare a ogni costo. Ma spesso questa solidità strutturale nascondeva una fragilità emotiva mai affrontata, un analfabetismo sentimentale tramandato di generazione in generazione. Non era malevolenza, la loro. Era piuttosto una forma di miopia emotiva, un'incapacità di vedere oltre il paradigma della sussistenza materiale. Mentre si preoccupavano di riempire i piatti e pagare le bollette, non avevano gli strumenti per nutrire i sogni dei loro figli, per riconoscere e coltivare i loro talenti nascenti. Le conversazioni a tavola ruotavano intorno alle preoccupazioni quotidiane, ai conti da far quadrare, alle necessità pratiche. Le aspirazioni creative, le inclinazioni artistiche, le vocazioni non convenzionali venivano spesso liquidate come fantasie improduttive, capricci da accantonare in nome del "posto fisso" e della stabilità economica. Quanti potenziali artisti sono stati dirottati verso impieghi "sicuri"? Quanti scrittori hanno riposto la penna nel cassetto? Quanti musicisti hanno smesso di suonare? Quanti sportivi hanno tralasciato la loro vocazione? Non per cattiveria dei genitori, ma per la loro incapacità di concepire un mondo diverso da quello che conoscevano, un mondo dove la realizzazione personale potesse coesistere con la sicurezza economica.

Questa generazione di genitori ha lasciato un'eredità complessa: da un lato, ha fornito delle basi materiali per poter realizzare qualcosa di più rispetto a quanto loro abbiano potuto fare; dall'altro, ha trasmesso ferite invisibili, silenzi emotivi che ancora oggi molti stanno imparando a colmare. La loro era una forma di amore pratico, tangibile, misurabile in sacrifici e rinunce. Un amore che sapeva come mettere il pane in tavola ma non come nutrire l'anima. Un amore che costruiva tetti sotto cui ripararsi ma non sapeva come proteggere i sogni.

Oggi, molti di quei figli incompresi sono diventati genitori a loro volta, portando con sé la consapevolezza di queste mancanze. La sfida per loro è duplice: guarire le proprie ferite mentre cercano di non ripetere gli stessi schemi con i propri figli, imparando ad ascoltare non solo i bisogni materiali ma anche quelli emotivi e spirituali delle nuove generazioni. È un processo di evoluzione generazionale, dove il riconoscimento di ciò che è mancato diventa il primo passo per costruire qualcosa di nuovo. Non si tratta di giudicare quella generazione di genitori, ma di comprendere il contesto storico e sociale che li ha plasmati, per poter trascendere quei limiti e creare nuovi modelli di genitorialità più consapevoli e completi.




"Psicologia delle minoranze attive" di Serge Moscovici

In un'epoca in cui si parla spesso di possibili cambiamenti sociali, "Psicologia delle minoranze attive" di Serge Moscovici del1976 risulta una lettura straordinariamente attuala.

Quest'opera rovescia la tradizionale concezione dell'influenza sociale, offrendo una prospettiva rivoluzionaria sul ruolo delle minoranze nel processo di trasformazione della società.

Moscovici sfida la visione convenzionale secondo cui le minoranze sarebbero destinate a conformarsi passivamente alla maggioranza. Al contrario, dimostra come piccoli gruppi di individui, attraverso la loro coerenza comportamentale e la capacità di proporre alternative valide, possano diventare potenti agenti di cambiamento sociale.

L'autore sviluppa il concetto di "influenza minoritaria", evidenziando come le minoranze attive, attraverso stili comportamentali specifici come la consistenza e la perseveranza, possano influenzare la maggioranza e catalizzare significative trasformazioni sociali.

La lettura di quest'opera è importante per comprendere i meccanismi del cambiamento sociale, per acquisire strumenti teorici di analisi dei movimenti sociali contemporanei, per riflettere sul proprio ruolo come potenziale agente di cambiamento e sviluppare una comprensione più profonda delle dinamiche di influenza sociale.

"Psicologia delle minoranze attive" non è solo un classico della psicologia sociale, ma uno strumento incisivo per interpretare il presente. In un mondo caratterizzato da sfide globali sempre più complesse, la comprensione dei meccanismi attraverso cui le minoranze possono catalizzare il cambiamento sociale diventa cruciale per chiunque voglia contribuire attivamente alla trasformazione della società.

La lettura di quest'opera ci ricorda che il cambiamento sociale non è necessariamente il risultato di maggioranze numeriche, ma può nascere dall'azione coerente e determinata di piccoli gruppi di individui impegnati. Un messaggio che risuona con particolare forza nell'attuale panorama sociale e politico.



"Altissima povertà" di Giorgio Agamben

"Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita" è un'opera importante di Giorgio Agamben, pubblicata nel 2011.

Il testo esplora il monachesimo occidentale come laboratorio in cui si è sviluppata una peculiare concezione della vita in relazione alla regola e alla legge.

Nel monastero, ogni aspetto dell'esistenza - dal mangiare al pregare, dal lavorare al dormire - è parte di una liturgia totale. Questa concezione rappresenta un tentativo di superare la distinzione tra vita e norma, tra essere e dover-essere.

L'autore esplora il rapporto particolare che i monaci instaurano con la regola monastica. Non si tratta di una semplice normativa giuridica, ma di qualcosa che deve essere "vissuto" più che "applicato". La regola monastica non è una legge esterna che si impone alla vita, ma una forma che la vita stessa assume.

L'opera analizza la povertà non come semplice rinuncia ai beni materiali, ma come forma di vita che mette in questione il diritto stesso di proprietà e le strutture giuridiche occidentali. La "altissima povertà" dei francescani diventa così un paradigma di resistenza al potere costituito.

Il testo di Agamben risulta particolarmente attuale perché offre strumenti per ripensare il rapporto tra vita e norme in un'epoca di crescente giuridificazione dell'esistenza e perché suggerisce forme di resistenza al biopotere contemporaneo attraverso la creazione di forme-di-vita alternative.

L'opera si caratterizza per un'attenta analisi filologica dei testi monastici medievali, un dialogo costante tra filosofia, diritto e teologia. Trattasi di una scrittura densa ma precisa, che richiede una lettura molto attenta, utile per ripensare il rapporto tra vita e norme e per soffermarsi sui temi della resistenza al potere e delle forme di vita alternative.

In definitiva "Altissima povertà" non è una lettura semplice, ma offre strumenti preziosi per ripensare alcuni dei nodi fondamentali della nostra contemporaneità attraverso un'originale rilettura della tradizione monastica occidentale.




"Non guardo la tv!"

"Non guardo la TV!" - quante volte abbiamo sentito questa frase, magari pronunciata mentre si scorre compulsivamente il feed di Instagram o TikTok? È diventato quasi uno status symbol dichiarare di non possedere un televisore o di non guardare programmi TV, come se questo rendesse automaticamente più intelligenti o culturalmente superiori. Ma cosa si sta realmente facendo quando si passano ore a guardare reel e short video sui social media? La verità è che si è semplicemente sostituito uno schermo con un altro, e non per il meglio. I contenuti televisivi sono migrati sulle piattaforme social, frammentati in clip di pochi secondi, mescolati con altri contenuti in un flusso infinito e algoritmicamente ottimizzato per mantenere incollati allo smartphone.

Si racconta che i social media sono diversi dalla TV perché "scegliamo noi cosa guardare" e "possiamo smettere quando vogliamo". Ma è davvero così? Gli algoritmi dei social media sono progettati specificamente per creare dipendenza, sfruttando il meccanismo della ricompensa variabile, la personalizzazione estrema dei contenuti, il formato breve che ci fa pensare "solo un altro video" e l'autoplay che elimina la necessità di scelte attive.

La TV tradizionale, con la sua programmazione fissa e le sue pause pubblicitarie, dava paradossalmente più controllo: si sapeva quando un programma iniziava e finiva, e c'erano naturali momenti di stacco.

L'ironia è che mentre ci si bea di essersi "liberati" dalla TV, si è diventati più dipendenti che mai dai contenuti video. La differenza? La TV la si poteva guardare o non guardare consapevolmente, dedicandole un tempo specifico. I social media invece accompagnano ovunque, si infiltrano in ogni momento libero, tengono svegli la notte con la promessa di "solo un altro scroll".

Bisogna essere onesti, in primis con noi stessi e riconoscere che il consumo passivo di contenuti esiste sia sulla TV che sui social e che la dipendenza da social media è dieci volte più insidiosa di quella televisiva.

Forse è il momento di smettere di vantarsi di "non guardare la TV" e iniziare invece a riflettere criticamente su come vengono consumati i contenuti digitali, qualunque sia la piattaforma.




Manipolazioni e marketing

Psicologia e marketing

Siete interessati ad un corso di formazione? Probabilmente avrete a che fare con la psicologia del marketing, uno strumento predatorio, utilizzato per manipolare le persone.

Di base esiste il marketing aggressivo, esso è costruito su diverse tecniche manipolative che sfruttano le vulnerabilità psicologiche delle persone. Funziona a grandi linee così: in primis viene proclamata una falsa urgenza. I venditori creano artificialmente un senso di urgenza: "L'offerta scade oggi!", "Solo gli ultimi posti disponibili!", quando in realtà non c'è alcuna vera scadenza. Questo spinge le persone a decisioni impulsive basate sulla paura di perdere un'opportunità. Una tattica particolarmente subdola è poi quella di far sentire inadeguati o indecisi coloro che vogliono prendersi del tempo per riflettere. Frasi come "I vincenti decidono subito" o "Vedo che non hai abbastanza ambizione" sono progettate per manipolare. Inoltre troviamo l'utilizzo della PNL ( Programmazione Neuro-Linguistica) per condizionare le persone. Senza scrupoli, si utilizzano tecniche di linguaggio per creare una falsa sensazione di fiducia e poi sfruttarla a proprio vantaggio.

Alcuni tra i segnali più evidenti per riconoscere le manipolazioni base del marketing sono dunque la pressione eccessiva per decisioni immediate, l'uso di tattiche che fanno leva su paure e insicurezze, la riluttanza a fornire tempo per riflettere.

La psicologia è sempre più strumento a servizio di manipolazione e profitto. I manipolatori sono ovunque: sui social media, nei corsi di formazione, nelle vendite dirette o tra i cosiddetti "guru" dello sviluppo personale. La pseudo-psicologia dei manipolatori non ha trasparenza, serve solo a svuotare le tasche. Chi usa parole come "empowerment", "crescita personale" o "successo garantito" mentre cerca di mettere fretta o far sentire inadeguati, è un truffatore. In un mondo dove la manipolazione psicologica diventa sempre più sofisticata, la migliore difesa è la consapevolezza e la conoscenza del "nemico". Chi ha davvero qualcosa di valore da offrire non ha bisogno di manipolare per convincere, essi sono solo predatori travestiti da mentori.


Nuove manipolazioni

Negli ultimi decenni il marketing moderno, a braccetto con la psicologia, si è ulteriormente evoluto ed ha raffinato la manipolazione. Dopo anni di ricerche comportamentali attraverso social e algoritmi, non si spinge più tutti verso lo stesso imbuto, ma si cercano di creare percorsi personalizzati. Per fare questo c'è una profilazione di tipi psicologici. Ad esempio per i razionali-analitici vi saranno modalità differenti rispetto agli emotivi-intuitivi o ai ponderati-conservativi. Ci sono studi su studi basati sui dati dalle navigazioni online, sulle interazioni sui social, su dati comportamentali e risposte agli stimoli. Questi dati vengono usati per personalizzare le manipolazioni. Le tecniche più avanzate sono quelle che non vengono neppure percepite come marketing, per questo è necessario conoscerle per rendersi immuni. Non basta più guardarsi solo dalle tecniche base di cui accennavamo prima. Il marketing moderno è come un gas invisibile che permea ogni spazio digitale e sociale, non cerca più necessariamente di "forzare" una decisione, ma di rendere inevitabile una scelta attraverso la manipolazione dell'intero ambiente informativo e sociale dell'individuo.




Snobismo intellettuale?

No, non è snobismo dire che gran parte della controinformazione è peggio dell’informazione ufficiale. Più volte abbiamo sostenuto di seguire solamente questi ultimi ed è la verità.

È paradossale ma semplice da comprendere come posizione: il giornalismo mainstream, pur con tutti i suoi limiti, offre un vantaggio non trascurabile - la chiarezza delle sue posizioni. Quando leggiamo un grande quotidiano o seguiamo un telegiornale nazionale, abbiamo ben chiaro il quadro: sappiamo che rappresentano determinate visioni economiche, politiche e sociali. Le loro narrazioni, per quanto orientate, seguono linee interpretative prevedibili e dichiarate. Come in una partita a carte, conosciamo le regole del gioco e possiamo valutare le mosse con consapevolezza. Diverso è il caso dei sedicenti "controinformatori", che proliferano soprattutto online. Dietro la facciata di paladini della verità nascosta, spesso costruiscono narrazioni fantasiose, mescolano verità parziali con visioni distorte depotenziando tutto, immaginano cospirazioni improbabili e collegamenti arditi.

Il mainstream ha almeno il merito della trasparenza: sappiamo che difende lo status quo e gli interessi consolidati. I controinformatori, invece, mentre si proclamano indipendenti, spesso celano ignoranza e secondi fini dietro una cortina di presunta obiettività.

Detto questo, è chiaro che ci sono anche controinformatori validi, onesti e rispettabili ma sono una esigua minoranza.

Non si tratta quindi di snobismo intellettuale, ma di preferire un interlocutore che, pur con tutte le sue distorsioni, mostra apertamente le sue carte rispetto a chi gioca una partita nascosta, spacciando come verità rivelate quello che spesso è solo sensazionalismo finalizzato a catturare click e seguito.

Bisogna saper leggere oltre le righe di entrambi, ma almeno con il mainstream si hanno coordinate chiare per comprendere il mondo che ci circonda. Il tempo è poco ed è prezioso, la vita scorre veloce, pertanto meglio selezionare efficacemente le fonti su cui orientarsi.




Equilibrismo post-moderno

Come si può conciliare una sensibilità tradizionale con la nostra esistenza in un'era dominata dall'intelligenza artificiale, dal metaverso e dalla realtà aumentata? Come possiamo mantenere un equilibrio tra la nostra dimensione spirituale e un presente sempre più digitalizzato? È un dilemma che rischia di frammentare la nostra identità. Come preservare la nostra umanità in un mondo governato dagli algoritmi? Come resistere al consumismo digitale senza diventarne schiavi? Come mantenersi autentici in un'epoca di relazioni virtuali? Questi interrogativi non sono completamente nuovi: ogni epoca ha dovuto affrontare le proprie sfide tecnologiche. Tuttavia, nel primo quarto del XXI secolo, la questione ha assunto una dimensione più pervasiva e sottile, proprio per l'onnipresenza della tecnologia digitale nelle nostre vite, fino agli aspetti più intimi della nostra esistenza. Chi oggi non possiede uno smartphone? Chi non ha accesso a Internet? Chi non è presente sui social media? Chi non utilizza servizi di streaming o piattaforme di acquisto online? Dal 2020 poi con l'accelerazione digitale imposta dalla pandemenza abbiamo assistito ad una accelerazione ancora più radicale. La tecnologia ha portato innegabili progressi pratici: dobbiamo quindi rifiutarla? No, sarebbe non solo impossibile ma anche controproducente. La tecnologia rappresenta il nostro inevitabile orizzonte, una "gabbia digitale" che ci avvolge: dobbiamo imparare a viverci dentro trovando un equilibrio psicologico e spirituale. È necessario distinguere due piani: quello esteriore e quello interiore. "È amante delle fiabe chi non si fa schiavo delle cose presenti", diceva Tolkien. Questa massima può applicarsi perfettamente al nostro rapporto con la tecnologia contemporanea: possiamo utilizzare l'AI come sorta di archivio di informazioni non come sostituto del pensiero umano, i social media come mezzi di connessione, non come surrogati delle relazioni autentiche; il metaverso come estensione artificiale della realtà, non come fuga da essa. Lo stesso vale per tutte le tecnologie che stanno ridefinendo la nostra società: strumenti che hanno profondamente modificato il nostro modo di vivere, lavorare e pensare, diventando quasi delle divinità moderne che richiedono la nostra costante attenzione e devozione. Non farsi schiavi del presente digitale: psicologicamente e spiritualmente. Non rifugiarsi in un irrealistico rifiuto della tecnologia, ma utilizzarla consapevolmente senza esserne dominati. Essere capaci, quando necessario, di disconnettersi. Ma senza cadere in un anacronistico luddismo digitale, perché chi ha una mentalità critica verso la modernità tecnologica lo è principalmente nella sua dimensione interiore, senza bisogno di manifestarlo in modo eclatante e paradossalmente "virale". Certi atteggiamenti anti-tecnologici oggi di moda - il minimalismo digitale come stile di vita - sono infatti spesso solo questo: una moda, una posa, un trend privo di profondità culturale e spirituale. Un nuovo conformismo che si maschera da ribellione, ma manca di una vera riflessione sulla relazione tra tradizione e innovazione, tra sviluppo tecnologico e crescita interiore.




Nuovi recinti

In uno dei suoi ultimi brani prima di morire, Giorgio Gaber cantava "l'importante è insegnare ai nostri figli quei valori che sembrano perduti, con il rischio di creare nuovi disperati". 

Questo punto è oggi più che mai da focalizzare perché capita che nel tentativo di trasmettere valori autentici, si rischia paradossalmente di generare nuove forme di disperazione. In una società liquida dove i valori tradizionali appaiono logorati, frammentati, chi cerca di educare con principi profondi e coerenti può finire per "estraniare" i giovani. 

La sfida non è di isolare, ma di trovare un equilibrio e costruirsi una buona corazza, i valori trasmessi possono avere efficacia solo se riescono a dialogare con il presente, non se diventano relitti nostalgici. Chi tramanda principi rischia di apparire "antiquato" e chi li riceve si sente inadeguato o fuori contesto. Se il tutto viene proposto come dogma immutabile e non come percorso di crescita in un mondo che viaggia velocissimo, il rischio è di generare proprio ciò che si vorrebbe combattere: nuove forme di solitudine, inadeguatezza, disperazione esistenziale. È una sfida educativa straordinariamente complessa: trasmettere valori senza costruire nuovi recinti che generino disagio.



L'importanza di Giovanni Reale

In mezzo a tanta editoria spazzatura, vi invitiamo a (ri)scoprire l'opera straordinaria di Giovanni Reale (1931-2014), uno dei più influenti storici della filosofia antica del XX secolo. Reale ha rivoluzionato l'interpretazione di Platone, proponendo una lettura innovativa delle "dottrine non scritte" e dimostrando come queste siano fondamentali per comprendere appieno il pensiero del filosofo ateniese. Ma l'importanza di Reale va ben oltre Platone. I suoi studi su Aristotele, i presocratici e la filosofia ellenistica hanno ridefinito la comprensione dell'intero pensiero antico. Le sue traduzioni e i suoi commenti, caratterizzati da rigore filologico e profondità interpretativa, hanno reso accessibili i testi antichi a generazioni di appassionati. Reale era capace di coniugare l'accuratezza scientifica con una straordinaria chiarezza espositiva. I suoi testi, pur essendo di alto livello accademico, risultano accessibili anche ai non specialisti, permettendo a chiunque di avvicinarsi alla complessità del pensiero antico. Il suo "Storia della filosofia antica" in cinque volumi è un'opera di riferimento imprescindibile, ma chi è a digiuno può iniziare con "Introduzione a Platone" o " Il pensiero antico", due testi accessibili e di grande chiarezza. Giovanni Reale è una guida preziosa per comprendere le radici del pensiero occidentale e la sua rilevanza per il mondo contemporaneo.




Vivere nel conatus

Esiste una qualità della mente che consiste nel sapersi collocare nel proprio periodo storico, dentro le coordinate spazio-temporali della propria epoca, nel riuscire a concentrarsi per respirare il proprio hic et nunc. Questa capacità viene chiamata ‘immaginazione sociologica’ da Charles Wright Mills, sociologo statunitense del secolo scorso. Saper osservare con occhio critico la realtà che ci circonda non è un’abilità che hanno tutti: coloro che lo fanno, spesso da sempre, la danno per scontata quando la verità è che solo pochissimi sono in grado di applicare uno sguardo che vada oltre il semplice fenomeno. Il fenomeno – phainómenon – ciò che appare, consiste in ciò che si coglie empiricamente attraverso i sensi. Eppure ciò che si esperisce non corrisponde alla realtà, se così fosse, sarebbe troppo semplice. Vivere accontentandosi di ciò che appare o non possedere le facoltà per andare oltre, sembra essere una dimensione esistenziale assai diffusa. ‘Andare oltre’, squarciare il velo di Maya, intravedere (benché dietro un vetro appannato) il noumeno –  noóumenon – ciò che è pensato, richiede sforzo. Richiede un conatus, che Spinoza indicò come lo slancio che possiede intrinsecamente ogni essere per preservare se stesso: l’istinto di autoconservazione, la voluntas per Schopenhauer, la pulsione di vita per Freud, l’élan vital per Bergson. Il desiderio cieco e talvolta ossessivo di cogliere il vero essere delle cose affatica, logora, può deprimere.

È più comodo vivere una vita pensando esclusivamente al lavoro, a fare la spesa, ad andare in palestra, a cosa mangiare per cena, a cosa comprare nei saldi e cosa vedere su Netflix; tutto questo mentre si scorre distrattamente lo schermo trita-cervello. Ben diverso è camminare per strada e guardarsi intorno, osservare il cielo, bersi una tazza di tè o leggere un libro dopo cena, lasciare il telefonino in modalità aereo e attivarlo solo quando serve. Porsi domande, cercare di guardare le cose da un’altra prospettiva, soffermarsi sugli aspetti etici, politici e sociali di quanto accade. Immaginare sociologicamente ovvero chiedersi, dal momento che non si può prescindere dall’esistenza in questo tempo storico, come si può vivere meglio, come, con immenso sforzo, si possa andare oltre e coltivare il proprio esserci-nel-mondo. 


                                                                              AM

Che cos'è il Perennialismo?

Il Perennialismo rappresenta una visione filosofica e spirituale che riconosce l'esistenza di una verità universale e immutabile alla base di tutte le grandi tradizioni religiose e spirituali dell'umanità.

Il Perennialismo moderno si sviluppa principalmente nel XX secolo grazie ad alcuni pensatori, sebbene le sue radici possano essere rintracciate in epoche precedenti. I principali ideatori del Perennialismo contemporaneo sono René Guénon, il primo a formulare in modo sistematico l'idea di una "Tradizione primordiale" da cui deriverebbero tutte le tradizioni religiose autentiche, Ananda Coomaraswamy che ha contribuito significativamente alla comprensione del perennialismo attraverso i suoi studi comparativi tra arte orientale e occidentale, evidenziando i principi metafisici comuni e Frithjof Schuon che ha approfondito particolarmente la dimensione esoterica delle religioni e il concetto di "unità trascendente delle religioni".

È importante notare che il termine "philosophia perennis" fu coniato molto prima, nel Rinascimento, da Agostino Steuco (1497-1548), e fu poi ripreso da Leibniz nel XVII secolo. Tuttavia, la sistematizzazione moderna di questa corrente di pensiero si deve principalmente ai tre autori citati, che hanno dato vita a quella che viene chiamata anche "Scuola Tradizionale" o "Scuola Tradizionalista".

Questa "filosofia perenne" sostiene che, al di là delle differenze apparenti tra le varie tradizioni spirituali, esista un nucleo di principi metafisici fondamentali che sono sempre stati presenti nella storia umana. Non si tratta semplicemente di una teoria filosofica, ma di una sapienza viva che si manifesta attraverso l'esperienza diretta del sacro e della realtà ultima. Tale saggezza primordiale si è espressa in diverse culture con nomi differenti - dalla Philosophia Perennis occidentale al Sanātana Dharma indiano - ma mantiene invariata la sua essenza. La ritroviamo negli insegnamenti di grandi maestri come Adi Shankara in India, che elaborò la filosofia non-duale dell'Advaita Vedanta, o nei filosofi neoplatonici come Plotino, che descrisse l'emanazione dell'Uno attraverso diversi livelli di realtà. Secondo questa prospettiva, le diverse tradizioni religiose non sono in competizione tra loro, ma rappresentano piuttosto diverse espressioni e adattamenti di questa verità universale alle differenti condizioni storiche e culturali. Il vero sapiente è colui che, attraverso lo studio e la pratica spirituale, riesce a penetrare oltre le forme esteriori per cogliere questa essenza perenne della saggezza.




"La nuova ragione del mondo" di P. Dardot e C. Laval

Il saggio "La nuova ragione del mondo" di Pierre Dardot e Christian Laval rappresenta una delle più acute e complete analisi del neoliberismo come forma di razionalità che plasma non solo l'economia e la politica, ma anche la nostra stessa soggettività. È un testo utile per chiunque voglia comprendere le profonde trasformazioni che caratterizzano la nostra epoca. Gli autori, attraverso un'analisi storica e filosofica rigorosa, mostrano come il neoliberismo non sia semplicemente una dottrina economica o un'ideologia politica, ma una vera e propria "ragione-mondo" che determina un nuovo modo di pensare e di vivere. Viene fatta una ricostruzione genealogica del pensiero neoliberale, dalle sue origini fino alle sue manifestazioni contemporanee, rivelando come questa corrente si sia evoluta e adattata nel tempo. 

L'analisi della "fabbricazione del soggetto neoliberale" mostra come le pratiche di governance contemporanee producano un nuovo tipo di individuo, l'"imprenditore di se stesso", costantemente spinto a massimizzare il proprio "capitale umano". Dimostra come il neoliberismo abbia trasformato profondamente le istituzioni pubbliche, introducendo logiche di mercato e competizione in ogni ambito della vita sociale. "La nuova ragione del mondo" è un libro che non si limita a descrivere il neoliberismo, ma ne svela i meccanismi profondi, permettendo di sviluppare una consapevolezza critica essenziale per navigare la contemporaneità.