La demonizzazione della stabilità lavorativa è uno
dei più significativi paradossi della narrativa economica contemporanea.
Per anni abbiamo interiorizzato i mantra
"bisogna essere flessibili, dinamici, pronti al cambiamento",
"bisogna uscire dalla zona di comfort", "cambiare è necessario
per evolvere!", "la mentalità del posto fisso è sorpassata!".
Sono diventati quasi dei dogmi, accettati acriticamente da molti.
La ricerca della stabilità professionale viene oggi
spesso dipinta come un limite, un'ambizione quasi retrograda. È interessante
osservare come il mondo del lavoro contemporaneo abbia trasformato quello che
una volta era considerato un obiettivo encomiabile - la costruzione di una
carriera solida e duratura - in qualcosa di cui quasi vergognarsi.
Il mercato attuale celebra incessantemente il
cambiamento continuo, esaltando figure professionali sempre in movimento, pronte
a reinventarsi e a spostarsi da un'opportunità all'altra. Questa retorica,
presentata come moderna e progressista, nasconde però una verità più complessa:
non tutti trovano realizzazione in un percorso professionale fatto di continui
cambiamenti.
Esistono persone che preferiscono costruire
relazioni professionali di lungo termine, vedere progetti nel tempo,
appartenere a una comunità lavorativa stabile. Questa inclinazione non è un
difetto o una mancanza di ambizione, ma una legittima preferenza personale che
merita rispetto e considerazione.
Ci chiediamo: chi beneficia realmente da un sistema
che promuove l'instabilità come virtù? La costante pressione al cambiamento in
ambienti dove la precarietà viene normalizzata e celebrata contribuisce a
creare monadi instabili e senza radici.
Un approccio più equilibrato al mondo del lavoro
dovrebbe riconoscere e valorizzare tanto il desiderio di stabilità quanto
quello di cambiamento, permettendo a ciascuno di perseguire il percorso più
adatto alle proprie inclinazioni e aspirazioni personali, senza imposizioni
ideologiche mascherate da "progresso".