Il sistema capitalistico ha l’obiettivo di mantenerci
affamati. Il bisogno di essere saziati non è solo di natura fisiologica, bensì
anche psicologica: lo si apprende fin da bambini tramite il legame di
attaccamento. Veniamo amati ed impariamo ad amare; riceviamo rinforzi sotto
forma di lodi e apprezzamenti per i nostri progressi; apprendiamo a
socializzare e a sentirci parte di un gruppo. Ed è qui che si insinua uno dei
meccanismi del capitalismo digitale e che, nel mondo della reificazione, si
replica anche nel funzionamento dei nuovi media. Il mondo degli algoritmi che
governano qualunque piattaforma digitale - da YouTube, a Instagram, a TikTok -
ha il compito di filtrare informazioni, rintracciare schemi e classificare
incalcolabili quantità di dati che vengono prodotti da chiunque digiti anche
solo una lettera sulla tastiera. Lo scopo, naturalmente, è tracciare dei
profili utente per indirizzarci su contenuti mirati. Sono in particolare le
piattaforme social a suscitare quel senso di fame cronica. Una fame che si
trasforma in ossessione e dunque in dipendenza patologica. Ciò accade perché il
capitalismo algoritmico, sfruttando il meccanismo del rinforzo intermittente
(alternando cioè rinforzi positivi a quelli negativi) e stimolando la
desiderabilità sociale ed il senso di appartenenza, costringe ad uno stato di
perenne appetito.
Nei giovani l’appetito può diventare voracità: ecco che si ingurgita qualunque
spazzatura algoritmica che apparentemente colma, ma lascia dietro di sé un
deserto cognitivo.
AM