L'ossessione italiana per la laurea sta creando un
paradosso insostenibile. "Mio figlio deve studiare", "Mio figlio
deve laurearsi" - queste frasi sono diventate un mantra quasi ossessivo
nelle famiglie italiane, come se non esistesse altra via. Che senso ha spingere
indiscriminatamente tutti i ragazzi verso l'università, anche chi non ha né
inclinazione né passione per lo studio? Questa mentalità sta producendo due
effetti disastrosi: da una parte, laureati frustrati che non trovano lavoro nel
loro campo o si ritrovano sovraistruiti per le posizioni disponibili;
dall'altra, un vuoto drammatico nei mestieri pratici che sono il fondamento di
qualsiasi economia sana. È assurdo che un paese industrializzato come l'Italia
debba importare manodopera per ogni lavoro manuale. Non è sostenibile che i
nostri giovani rifiutino sistematicamente mestieri come l'idraulico,
l'elettricista, il muratore - professioni che, tra l'altro, spesso garantiscono
guadagni superiori a molte posizioni da laureati. Il problema parte dalle
famiglie: troppi genitori considerano il lavoro manuale come una
"sconfitta sociale", dimenticando che questi mestieri non solo sono
dignitosi, ma essenziali. Stiamo crescendo generazioni convinte che sporcarsi
le mani sia degradante, che il successo si misuri solo con un pezzo di carta
appeso al muro. Ma un paese ha bisogno di tutti i tipi di professionalità per
funzionare. Non possiamo avere una nazione di soli colletti bianchi - chi
costruirà le case? Chi riparerà gli impianti? Chi manterrà in piedi
l'infrastruttura del paese? Pakistani e nigeriani sfruttati e sottopagati? Così
pensiamo di andare avanti? È ora di smetterla con questa visione classista ed
elitaria del lavoro. È ora che le famiglie italiane capiscano che indirizzare
un figlio verso un mestiere pratico non è un fallimento, ma può essere una
scelta vincente, sia per il ragazzo che per la società. Perché un bravo
artigiano, un abile operaio specializzato, un esperto muratore non valgono meno
di un laureato. Anzi, in molti casi, sono proprio queste figure professionali a
garantire il vero funzionamento del paese, mentre continuiamo a sfornare
laureati in settori già saturi. È tempo di recuperare la dignità del lavoro
manuale e di smettere di considerarlo come un'opzione di serie B. Solo così
potremo riequilibrare il mercato del lavoro e dare ai nostri giovani vere
opportunità, basate sulle loro reali inclinazioni e non su biechi stereotipi
sociali.
L'ossessione per la laurea
La novità perpetua
La società della "novità perpetua" ha
trasformato le persone in consumatori anche delle relazioni e dei progetti di
vita. Come bambini viziati, si salta da un'esperienza all'altra cercando il
brivido del nuovo, senza mai scavare in profondità. Che sia in amore o in
amicizia. La vera crescita non sta nell'accumulo di esperienze superficiali, ma
nella capacità di esplorare le infinite sfumature di ciò che già abbiamo.
Un'amicizia duratura rivela strati di comprensione che nessun rapporto fugace
può dare. Un progetto portato avanti con costanza genera una maestria che
nessun "assaggio" superficiale può eguagliare. L'amore maturo scopre
una profondità di intimità che il semplice innamoramento non può raggiungere.
La noia che si prova non è un segnale che bisogna cambiare, ma è l'invito ad
andare più in profondità. È nella resistenza a questo impulso di fuga che si
cresce davvero. La costanza non è monotonia, è il coraggio di esplorare gli
strati più profondi dell'esperienza. Chi salta continuamente da una novità all'altra
sta in realtà fuggendo da se stesso, perché è più facile cercare nuovi stimoli
esterni che affrontare la sfida della crescita interiore. Ma alla fine, questo
vagare superficiale lascerà un vuoto che nessuna novità potrà colmare.
La demonizzazione del posto fisso
La demonizzazione della stabilità lavorativa è uno
dei più significativi paradossi della narrativa economica contemporanea.
Per anni abbiamo interiorizzato i mantra
"bisogna essere flessibili, dinamici, pronti al cambiamento",
"bisogna uscire dalla zona di comfort", "cambiare è necessario
per evolvere!", "la mentalità del posto fisso è sorpassata!".
Sono diventati quasi dei dogmi, accettati acriticamente da molti.
La ricerca della stabilità professionale viene oggi
spesso dipinta come un limite, un'ambizione quasi retrograda. È interessante
osservare come il mondo del lavoro contemporaneo abbia trasformato quello che
una volta era considerato un obiettivo encomiabile - la costruzione di una
carriera solida e duratura - in qualcosa di cui quasi vergognarsi.
Il mercato attuale celebra incessantemente il
cambiamento continuo, esaltando figure professionali sempre in movimento, pronte
a reinventarsi e a spostarsi da un'opportunità all'altra. Questa retorica,
presentata come moderna e progressista, nasconde però una verità più complessa:
non tutti trovano realizzazione in un percorso professionale fatto di continui
cambiamenti.
Esistono persone che preferiscono costruire
relazioni professionali di lungo termine, vedere progetti nel tempo,
appartenere a una comunità lavorativa stabile. Questa inclinazione non è un
difetto o una mancanza di ambizione, ma una legittima preferenza personale che
merita rispetto e considerazione.
Ci chiediamo: chi beneficia realmente da un sistema
che promuove l'instabilità come virtù? La costante pressione al cambiamento in
ambienti dove la precarietà viene normalizzata e celebrata contribuisce a
creare monadi instabili e senza radici.
Un approccio più equilibrato al mondo del lavoro
dovrebbe riconoscere e valorizzare tanto il desiderio di stabilità quanto
quello di cambiamento, permettendo a ciascuno di perseguire il percorso più
adatto alle proprie inclinazioni e aspirazioni personali, senza imposizioni
ideologiche mascherate da "progresso".
La dicotomia tra progresso materiale e spirituale
Nel mondo contemporaneo persiste una convinzione
diffusa e radicata: l'idea che il progresso materiale e tecnologico porti
automaticamente a un miglioramento della condizione umana nella sua totalità.
Questa visione, rappresenta una semplificazione fuorviante della complessa
natura dell'essere umano. Il benessere materiale, perseguito attraverso
l'avanzamento scientifico e tecnologico, ha indubbiamente portato numerosi
vantaggi: migliori condizioni igieniche, cure mediche più efficaci, maggiore
disponibilità di risorse. Tuttavia, questa corsa al progresso materiale non ha
arricchito la dimensione qualitativa e spirituale dell'esistenza umana. La
dimensione spirituale dell'uomo segue infatti una traiettoria differente, che
non può essere misurata con gli stessi parametri del benessere materiale. Mentre
la scienza si concentra su ciò che è quantificabile e misurabile, lo spirito
umano si nutre di elementi più sottili: la ricerca di significato, la
contemplazione, l'esperienza estetica, la dimensione etica delle scelte. Non si
tratta di stabilire un'opposizione netta tra queste due dimensioni - materiale
e spirituale - quanto piuttosto di riconoscerne la fondamentale differenza di
natura e direzione. Esse non sono necessariamente incompatibili, ma seguono
percorsi distinti. Il benessere materiale può creare le condizioni per la
crescita spirituale, ma non la determina automaticamente.
Bisogna riconsiderare il paradigma dominante del
progresso. Un autentico sviluppo umano dovrebbe tenere conto di entrambe le
dimensioni, riconoscendo che il miglioramento delle condizioni materiali, per
quanto importante, non può sostituire la coltivazione delle qualità interiori
che definiscono la nostra umanità più profonda. In un'epoca dominata dal
materialismo scientifico, ricordiamo l'importanza di mantenere uno sguardo equilibrato,
che sappia valorizzare tanto i progressi della scienza quanto le esigenze dello
spirito, senza confondere i rispettivi ambiti e finalità.
Divari generazionali
" Eh, io avevo già casa e famiglia alla tua
età!". Quante volte abbiamo sentito queste frasi da parte delle
generazioni precedenti? Costoro dimenticano che negli anni '70-'80 l'accesso al
lavoro avveniva con requisiti formativi minimi, il potere d'acquisto degli
stipendi era significativamente più alto, il mercato immobiliare era
accessibile ed il costo della vita proporzionato agli stipendi. Oggi sappiamo
che invece vi è una richiesta di alta formazione anche per posizioni generiche,
estrema competitività nel mercato del lavoro, contratti prevalentemente
temporanei o precari e affitti nelle città che superano il 50% dello stipendio
medio. Le cause di questo deterioramento sono identificabili in precise scelte
politiche ed economiche, quali la deregolamentazione del mercato del lavoro,
con l'introduzione di forme contrattuali sempre più precarie (pensiamo alla
legge Biagi, o al Jobs Act di Renzi), la mancata indicizzazione dei salari
all'inflazione, che ha eroso il potere d'acquisto, la speculazione immobiliare
incontrollata e l'assenza di politiche abitative pubbliche efficaci, il taglio
progressivo al welfare state e ai servizi pubblici e la privatizzazione di
settori strategici che ha causato aumento dei costi per i cittadini. La
precarietà attuale non è quindi un fenomeno naturale o inevitabile, ma il
risultato di precise scelte politiche. È quindi paradossale e profondamente
ingiusto che proprio chi ha beneficiato di un sistema più equo, chi ha goduto
di tutele lavorative oggi smantellate, chi ha potuto comprare casa con un mutuo
sostenibile, chi ha avuto accesso a servizi pubblici efficienti, ora punti il
dito contro i giovani accusandoli di "non avere voglia di
sacrificarsi". La verità è che molti dei diritti e delle opportunità di
cui hanno goduto sono stati gradualmente erosi proprio durante la loro gestione
della società, mentre ora pretendono dalle nuove generazioni risultati impossibili
da raggiungere in un contesto completamente deteriorato.
Il prezzo della Verità
Siamo sicuri di essere davvero pronti a pagare il
prezzo della Verità? O preferiamo talvolta scegliere la strada più comoda:
quella della maggioranza? È innegabile che sia più facile nuotare con la
corrente che contro di essa. È più rassicurante sentirsi parte di un grande
gruppo piuttosto che difendere una posizione solitaria. Ma la storia ci insegna
una lezione diversa. Ogni grande cambiamento è partito da una minoranza che ha
osato sfidare lo status quo. La Verità non è democratica. Non si piega al
numero dei suoi sostenitori, ma resta salda nei fatti e nella logica. Eppure,
quante volte ci siamo trovati a tacere per non disturbare l'armonia del gruppo?
Quante volte abbiamo soffocato le nostre convinzioni per non sentirci
"diversi"? Il conformismo è una coperta calda e confortevole, ma
quando scegliamo di stare dalla parte della maggioranza solo perché è la
maggioranza, rinunciamo a una parte della nostra autenticità. La vera forza non
sta nei numeri, ma nel coraggio di difendere ciò che sappiamo essere giusto,
anche quando siamo soli a farlo. È nella capacità di resistere alla pressione
sociale e rimanere fedeli alle nostre convinzioni basate sui fatti e sulla
ragione. Vogliamo essere ricordati come coloro che hanno seguito la folla, o
come quelli che hanno avuto il coraggio di indicare una nuova direzione?
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