Abissi

 «Chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu guarderai a lungo in un abisso, anche l'abisso vorrà guardare dentro di te.»


La citazione di Nietzsche da "Al di là del bene e del male" tocca una verità profonda, riconosciuta da molte tradizioni spirituali: l'atto di contemplare il male, anche con intenti nobili, non ci lascia mai indenni. Nella prospettiva delle tradizioni sapienziali, quando scrutiamo l'abisso - inteso come le forze del caos, dell'oscurità spirituale o del male metafisico - non siamo mai semplici osservatori distaccati. C'è sempre uno scambio, una forma sottile di comunione. Come insegna la tradizione ermetica: "Come in alto, così in basso" - ogni contemplazione crea un ponte, un'apertura attraverso cui le energie fluiscono in entrambe le direzioni. Le tradizioni monastiche, sia orientali che occidentali, hanno sempre messo in guardia dall'eccessiva preoccupazione per il male e le tenebre spirituali. Non per paura o moralismo, ma per la consapevolezza che l'oggetto della nostra contemplazione plasma gradualmente la nostra coscienza. Come dice il Dhammapada buddhista: "La mente è tutto. Quello che pensiamo diventiamo." Questo non significa evitare di confrontarsi con l'ombra, ma farlo con la giusta preparazione spirituale, mantenendo sempre un ancoraggio nella luce della tradizione e della pratica sacra. Come suggeriscono i maestri del sufismo: bisogna essere come lo specchio che riflette tutto senza essere macchiato da nulla.

L' intuizione di Nietzsche ci ricorda che prima di scrutare gli abissi, dobbiamo costruire in noi stessi un faro abbastanza luminoso da non essere inghiottiti dall'oscurità che contempliamo.




La strategia dell'ignoranza

Nel panorama contemporaneo fare comicità politicamente scorretta è diventato un esercizio di equilibrismo sempre più complesso. Tuttavia, esiste ancora una via d'uscita: la creazione di personaggi manifestamente ignoranti o cinici, che proprio grazie alla loro natura possono permettersi di attraversare qualsiasi confine del “politically correct” senza subire conseguenze.

Un esempio recente di questa strategia in Italia è Checco Zalone.

Il personaggio di Zalone, un pugliese medio con una visione del mondo limitata e stereotipata, riesce ad incidere su tematiche ritenute ormai “scorrette”, proprio perché le sue battute nascono da una genuina ignoranza, non da malizia o cattiveria. Quando Zalone fa una battuta su immigrati, orientamenti sessuali, il pubblico ride per via dell'ignoranza del personaggio ma inconsciamente anche del bersaglio della battuta.

Tutto ciò funziona perchè il personaggio ignorante gode di una sorta di immunità sociale: le sue uscite politicamente scorrette vengono perdonate perché nascono da una mancanza di consapevolezza, non da un intento discriminatorio.

In un'epoca dove la comicità politicamente scorretta è censurata e condannata, la creazione di personaggi ignoranti come Zalone oppure cinici come Duro di cui abbiamo parlato giorni fa, rappresentano una via d'uscita intelligente.

Questa strategia permette di continuare a far ridere su temi ritenuti “scorretti” evitando di far saltare dalla sedia gli attuali censori che stanno distruggendo ogni slancio creativo attraverso la loro visione miope, propagandistica, rancorosa e ultradifensiva.





"Nascita di una clinica" di M.Foucault

"Nascita di una clinica" è uno dei testi fondamentali di Michel Foucault, in cui il filosofo francese analizza la trasformazione radicale della medicina e del sapere medico tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo. Opera fondamentale per comprendere non solo l'evoluzione della pratica medica, ma anche il modo in cui si è modificato lo sguardo sulla malattia e sul corpo umano nella modernità. Foucault descrive la trasformazione dell'ospedale da luogo di assistenza a spazio di formazione e produzione del sapere, dedicando particolare attenzione all'evoluzione del linguaggio medico, mostrando come il nuovo vocabolario clinico non sia un semplice perfezionamento tecnico, ma rifletta un cambiamento radicale nel modo di concepire la malattia e il corpo umano. L'opera evidenzia come la nascita della clinica sia inseparabile da un progetto politico più ampio. La medicina moderna emerge infatti nel contesto della Rivoluzione francese e delle riforme delle istituzioni mediche, riflettendo nuove forme di controllo sociale e di gestione della popolazione. La lettura di "Nascita di una clinica", nonostante sia datata 1963, è attualissima, si possono difatti comprendere le radici storiche della medicina contemporanea e del suo modo di concepire la malattia, riflettere criticamente sul rapporto tra sapere medico e potere e analizzare il ruolo delle istituzioni sanitarie nella società moderna. 

"Nascita di una clinica" non è una semplice opera di storia della medicina, ma una profonda riflessione filosofica sul modo in cui si è costituito il sapere medico moderno. La sua lettura offre spunti importanti per comprendere l'intreccio tra le pratiche mediche contemporanee e dinamiche sociali e politiche. 

Dopo quanto vissuto negli ultimi anni di pandemia, dopo aver consigliato Nemesi Medica di Illich, ci sentiamo di suggerire anche la lettura di questo testo di Foucault.



Serie tv e pregiudizi

Notiamo spesso che vi è un grosso pregiudizio verso le serie tv. "Ah, invece di perdere tempo con le serie TV, leggete di più" - questa frase rappresenta uno degli snobismi culturali più datati e irritanti del nostro tempo. Come se guardare "Twin Peaks" o "Breaking Bad" fosse intellettualmente inferiore rispetto a leggere l'ennesimo romanzetto o saggio spazzatura prodotto dall'editoria contemporanea. Le serie TV rappresentano la più significativa evoluzione narrativa degli ultimi decenni. Abbiamo visto opere che hanno rivoluzionato il modo di raccontare la società contemporanea, con una profondità di analisi sociale che molti romanzi possono solo sognare. Altre offrire un'esplorazione del potere e della storia in grado di rivaleggiare con un buon saggio storico. La complessità narrativa di serie come "Better Call Saul", "Dark" o "Succession" permette esplorazioni caratteriali che neanche un romanzo di 800 pagine potrebbe eguagliare. La serialità offre il tempo e lo spazio per sviluppare personaggi e trame con una profondità impossibile per altri formati. Quando qualcuno liquida qualsiasi serie tv come "intrattenimento", sbaglia. Sì, esistono serie tv mediocri, probabilmente sono la maggioranza, ma esattamente come i libri (il 90% delle uscite editoriali è spazzatura indifferenziata). Viviamo in un'epoca in cui sceneggiatori, registi e attori stanno creando tantissimo materiale narrativo e nascono difatti opere valide, nonostante il controllo e la propaganda delle grandi piattaforme. Continuare a considerare le serie tv come una forma d'arte minore non è solo snob, è culturalmente miope.


Adolescenza e luoghi comuni

È diventato quasi un luogo comune considerare l'adolescenza come una fase di superficialità e immaturità. "Sono solo adolescenti", si afferma con un sorriso indulgente, come se questo giustificasse comportamenti superficiali o la totale mancanza di interessi. Ma questa visione è riduttiva oltre che dannosa per lo sviluppo dei giovani.

La storia ci insegna una realtà molto diversa. Nel Rinascimento, Lorenzo de' Medici guidava già Firenze a 20 anni. Alessandro Magno aveva conquistato il suo primo territorio a 16 anni. Nelle società tradizionali, i giovani assumevano responsabilità significative molto presto, gestendo attività commerciali familiari o intraprendendo viaggi per apprendistato. Cosa è cambiato? La società moderna ha creato una sorta di limbo artificiale. Sì è prolungata l'adolescenza, trasformandola da fase di transizione a periodo di stasi. E così si giustifica questo stato come "normale", supportati da migliaia di libri di psicologi pronti a spiegarci quanto sia delicata come fase, di quanto sia normale che siano così alienati.

Il problema non sono gli adolescenti ma il contesto storico in cui crescono e come vengono percepiti e trattati. Continuare a perpetuare lo stereotipo dell'adolescente superficiale non solo è ingiusto, ma diventa una profezia che si autoavvera. Se si trattano i giovani come esseri incapaci di profondità e responsabilità, non ci si sorprenda poi se si comportano di conseguenza.

Nonostante il contesto storico e sociale che gioca un ruolo fondamentale in questo stato di cose, bisognerebbe provare, almeno singolarmente, a cambiare prospettiva, a sfidare e responsabilizzare gli adolescenti, non giustificare il loro limbo di apatia ed inettitudine. Solo così potranno sviluppare il loro potenziale e contribuire alla società, proprio come hanno fatto i loro coetanei in altri periodi storici. 




Alberi

Essere circondati da alberi, camminare nel loro silenzio, toccarne la corteccia e accarezzarne le fronde, riempie di benessere. Creature solenni e altere, così distanti eppure così vicine, slanciate nella trascendenza. Le loro chiome bucano il cielo, le radici affondano nella terra e percorrono, avanzando nell’oscurità, metri e metri alla ricerca di sostanze nutritive. Dell’albero percepiamo solo una parte del corpo, quando in realtà sotto i nostri piedi vi è un intero mondo. Simbolo archetipico per Jung, ed in virtù di ciò dicotomico, partecipa di ambienti fisici opposti: terra e aria; buio e luce; umido e asciutto; sopra e sotto. Tali elementi complementari ne bilanciano la struttura, l’essenza e l’energia. Quando camminiamo in un bosco dovremmo soffermarci a pensare non solo a ciò che vediamo, ma a tutto ciò che sta sotto e che vive, pulsante, nella terra. Le radici, benché nascoste, devono essere capillari e possenti per la stabilità; il tronco freddo e fiero, si è piegato e ramificato adattandosi all’ambiente, e infine la chioma, ampia o allungata, folta o spelacchiata, combatte per raggiungere la luce.
Dobbiamo essere alberi: ben piantati nel terreno, con radici profonde e forti, capaci di intercettare anche i più lievi cambiamenti. Il nostro tronco può piegarsi, senza spezzarsi e crescere lento ma costante. Le fronde si spostano col vento ma possono anche opporsi ad esso e, nel caso, accettare che qualche ramo si spezzi, per consentire al resto dell’albero di crescere come gli pare.



                                                    AM

L'umanista nel labirinto contemporaneo

In un'era dominata dall'algoritmo e dal bit, dove il valore sembra misurarsi esclusivamente in codici binari e competenze tecniche, chi ha fatto della cultura umanistica la propria bussola esistenziale si trova sempre più spesso ai margini, come un artista costretto a dipingere in una fabbrica.

Le discipline umanistiche sono percepite come un lusso intellettuale, non una necessità. Chi si occupa di filosofia, letteratura, storia e scienze sociali viene guardato con una miscela di compassione e sufficienza: "Cosa farai da grande?", è la domanda ricorrente che aleggia come una minaccia. Molti giovani umanisti finiscono per compiere una scelta lacerante: tradire la propria vocazione originaria o sopravvivere. E la sopravvivenza significa spesso convertirsi a discipline tecniche contro la propria natura, pagando un prezzo altissimo in termini di benessere psicologico. Si assiste così a una sorta di migrazione forzata: filosofi che diventano project manager, laureati in lettere che si trasformano in analisti di dati, storici che abbandonano la ricerca per inseguire impieghi più "redditizi". Chi resiste viene relegato in nicchie sempre più ristrette: insegnamento, ricerca precaria, collaborazioni occasionali. Un destino che produce frustrazione, senso di inadeguatezza, depressione.

La società liquida ha sostituito la riflessione critica con l'efficienza, il pensiero complesso con la logica del profitto immediato.

Eppure, è proprio in quest'era tecnologica che c’è bisogno figure in grado di comprendere le dinamiche umane, di decodificare le narrazioni collettive, di riflettere eticamente sulle conseguenze delle innovazioni: sono competenze più che mai cruciali.

La tecnologia ha bisogno di essere indirizzata, compresa, contestualizzata. Non è questione di opporsi al progresso, ma renderlo umano.

Il mondo necessita di chi sa leggere oltre i dati, interpretare oltre le statistiche, immaginare oltre l'immediato, ma a “qualcuno” non piace e si relegano ai margini i soggetti con tali caratteristiche. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.



Angelo Duro e il ritorno della comicità senza filtri

In un periodo in cui ormai la comicità italiana è imbrigliata nei lacci del politically correct, Angelo Duro ha fatto l'impossibile: riportare sul grande schermo parte di quella libertà espressiva che sembrava ormai perduta. Il suo ultimo film, che non è certo un capolavoro, rappresenta un ritorno a quella comicità senza compromessi che ha fatto la storia del nostro cinema, oggi quasi impensabile. Sappiamo quanto sia diventato difficile fare certi tipi di film e battute che negli anni '90 erano la norma. Il clima culturale degli ultimi decenni è cambiato radicalmente, con una costante pressione da parte di gruppi pronti a indignarsi per ogni battuta fuori dalle righe. La genialità di Duro sta nell'aver trovato la chiave giusta: costruendo il personaggio del cinico che odia tutto e tutti, ha creato uno spazio di libertà dove può dire quello che altri non osano più pronunciare. Il suo essere 'politicamente scorretto' non è una posa, ma diventa parte integrante di un personaggio che, proprio per la sua coerenza, risulta paradossalmente inattaccabile. È riuscito dove altri hanno fallito: far ridere senza autocensure in un'epoca dove sembra che ogni battuta debba passare al vaglio di mille sensibilità diverse. Il suo successo dimostra quanto il pubblico sentisse la mancanza di una comicità più diretta e meno annacquata, ricordando che far ridere significa anche poter oltrepassare qualche confine. La sua formula ha aperto una strada: essere così spudoratamente sopra le righe da rendere impossibile qualsiasi accusa. Perché quando il tuo personaggio è dichiaratamente contro tutto e tutti, nessuno può accusarti di prendertela con qualcuno in particolare. Un successo che racconta molto del nostro tempo: da una parte l'eccesso di politically correct che ha limitato la libertà creativa, dall'altra la voglia del pubblico di liberarsi da questi vincoli attraverso una risata liberatoria.




Élite", Netflix e propaganda

Negli ultimi anni la serie tv "Élite" su Netflix è stata molto in voga tra gli adolescenti. Tanti genitori snobbano questi prodotti, ritenendoli spazzatura. Il problema però è sempre il solito, come per la musica trap, è intelligente da parte degli adulti non conoscere ciò che viene propinato ai propri figli? Questa serie tv spagnola racconta storie drammatiche di adolescenti. Essi vivono in una società dove non esistono più coppie normali e dove l’unica famiglia felice è quella formata da “due mamme”; dove il ragazzo più sensibile è un tormentato omosessuale innamorato di un musulmano represso dai genitori bigotti e dove le ragazze sono traditrici seriali. Uno dei messaggi di fondo è che un "eterosessuale" è solo un individuo che ha paura di esplorare, è tale solo per convenzione. Le scene erotiche tra persone dello stesso sesso sono spinte e durante lo svolgersi della serie, divengono di gran lunga i rapporti predominanti. Nella trama vengono pian piano inseriti soggetti sempre più multiformi, tra transgender e padri di famiglia repressi che vanno con i ragazzi. C'è da stupirsi o da scandalizzarsi? Ovviamente no, altrimenti significa vivere fuori dal mondo, dalla realtà, dalla cultura diffusa. Più che altro ribadiamo un concetto, come è potuto avvenire questo cambiamento nel giro di un decennio? Semplice. La cultura imperante ha fatto scuola. Serie TV appunto, ma anche libri, film, musica, influencer hanno creato un immaginario credibile e quell'immaginario ha plasmato la realtà. Perché la cultura plasma la realtà, a qualcuno non entra in testa questo concetto, specialmente quelli che vengono a scriverci "ma voi che fate di concreto?". 

Chi non vuole capire che il problema è culturale e non morale, può continuare a sostenere che quella progressista non è cultura ma questi vanno avanti e lo fanno anche perché coloro che dovevano opporsi non sono stati mai in grado di proporre alternative culturali. Il moralismo non plasma la realtà. Non è cultura dire no al gender e creare canalini sul web per sbraitare ripetendo che la famiglia è una. È cultura creare, immaginare, narrare, formare, elevare, educare l'intelletto. Chi ha lavorato in tal senso negli ultimi decenni? Pochissimi. La gran parte si è limitata a snobbare, a ridacchiare, lasciando tutto in mano ai "progressisti" che invece hanno fatto un gran lavoro in questo senso e cambiato la testa delle nuove generazioni. Sempre più spesso produzioni televisive con queste caratteristiche emergono e vengono spinte, chi dice no a prescindere, chi non vuole conoscere, non è poi credibile agli occhi di questa generazione, attratta dai narratori di tali nuove realtà e non da chi, con aria di superiorità, si limita a borbottare dei tempi che furono.




Capitalismo algoritmico

Il sistema capitalistico ha l’obiettivo di mantenerci affamati. Il bisogno di essere saziati non è solo di natura fisiologica, bensì anche psicologica: lo si apprende fin da bambini tramite il legame di attaccamento. Veniamo amati ed impariamo ad amare; riceviamo rinforzi sotto forma di lodi e apprezzamenti per i nostri progressi; apprendiamo a socializzare e a sentirci parte di un gruppo. Ed è qui che si insinua uno dei meccanismi del capitalismo digitale e che, nel mondo della reificazione, si replica anche nel funzionamento dei nuovi media. Il mondo degli algoritmi che governano qualunque piattaforma digitale - da YouTube, a Instagram, a TikTok - ha il compito di filtrare informazioni, rintracciare schemi e classificare incalcolabili quantità di dati che vengono prodotti da chiunque digiti anche solo una lettera sulla tastiera. Lo scopo, naturalmente, è tracciare dei profili utente per indirizzarci su contenuti mirati. Sono in particolare le piattaforme social a suscitare quel senso di fame cronica. Una fame che si trasforma in ossessione e dunque in dipendenza patologica. Ciò accade perché il capitalismo algoritmico, sfruttando il meccanismo del rinforzo intermittente (alternando cioè rinforzi positivi a quelli negativi) e stimolando la desiderabilità sociale ed il senso di appartenenza, costringe ad uno stato di perenne appetito.
Nei giovani l’appetito può diventare voracità: ecco che si ingurgita qualunque spazzatura algoritmica che apparentemente colma, ma lascia dietro di sé un deserto cognitivo.


                                                   AM

Il Mito dell'isolamento nell'era digitale

La retorica dell'abbandono della società per una vita nei boschi nasconde spesso una profonda contraddizione. Oggi assistiamo a un curioso fenomeno: persone che si proclamano "fuori dal sistema" mentre continuano a esserne profondamente parte. Con lo smartphone in tasca, questi moderni eremiti digitali postano sui social network le loro "coraggiose" scelte di isolamento, immortalando tramonto dopo tramonto la loro presunta libertà. C'è qualcosa di paradossale nel dichiarare la propria indipendenza dalla società mentre si continua a utilizzare i suoi strumenti, a beneficiare delle sue infrastrutture, a pagare le sue tasse e a lavorare remotamente grazie alle sue tecnologie. Questa contraddizione rivela non tanto una vera fuga, quanto piuttosto un tentativo di distinguersi, di sentirsi superiori rispetto a una civiltà che si critica ma da cui non si riesce - e forse non si vuole davvero - staccarsi. Anche Henry David Thoreau, il grande filosofo americano spesso citato come simbolo della vita nei boschi, dopo due anni, due mesi e due giorni nella sua capanna presso il lago Walden, tornò alla vita sociale. La sua esperienza, per quanto significativa, fu temporanea e, cosa ancora più importante, si svolse a poca distanza dalla città di Concord, dove riceveva regolarmente visite di amici e familiari. Lo stesso Thoreau non cercava un completo isolamento, ma piuttosto un laboratorio esistenziale da cui osservare e criticare la società del suo tempo.

Ci va un grande coraggio nello scegliere consapevolmente di rimanere "dentro il sistema", riconoscendone le contraddizioni e cercando di navigarle con lucidità. Nell' accettare la complessità della vita contemporanea senza nascondersi dietro l'illusione di una fuga impossibile. Non c'è nulla di eroico nel fingersi esterni a un sistema di cui si è inevitabilmente parte; la vera sfida sta nel viverlo criticamente, nel contribuire al suo miglioramento pur riconoscendone i limiti e le incongruenze. La pretesa superiorità morale di chi si autoesilia (ma non troppo) nasconde spesso un'incapacità di confrontarsi con la realtà nella sua complessità. È più facile criticare la società da una distanza di sicurezza - magari condividendo questa critica su Instagram - che impegnarsi attivamente nel difficile compito di viverla dall'interno.

La vera resistenza non sta nella fuga, ma nell'impegno quotidiano di chi, pur vedendo le contraddizioni del sistema, sceglie di affrontarle a testa alta, senza illudersi che esista una via di fuga semplice o una posizione di superiorità morale da cui giudicare gli altri.



Percezione e realtà nell'era digitale

Uno dei maggiori ostacoli che oggi ci impedisce di comprendere appieno le culture tradizionali o quelle società che ancora mantengono caratteristiche non allineate con il paradigma "digitale", è la convinzione che l'essere umano abbia sempre percepito e interpretato il mondo attraverso gli stessi meccanismi cognitivi che caratterizzano l'individuo contemporaneo medio. Un'assunzione, questa, profondamente errata.

Consideriamo, ad esempio, la percezione della realtà attraverso gli schermi digitali. Oggi viviamo in uno stato di costante mediazione tecnologica: la nostra esperienza del mondo è filtrata attraverso dispositivi che traducono la realtà in pixel e dati. Questo ha portato molti a considerare "reale" solo ciò che può essere quantificato, digitalizzato o condiviso attraverso uno schermo. Tale prospettiva viene poi retrospettivamente applicata all'interpretazione delle culture pre-digitali, giudicando come "primitive" o "superstiziose" le loro modalità di comprensione del mondo basate su esperienze dirette, rituali e connessioni immediate con l'ambiente naturale.

Questo atteggiamento si manifesta particolarmente quando si considerano fenomeni come la meditazione, le pratiche contemplative o le esperienze di connessione profonda con la natura, che vengono spesso liquidate come "irrazionali" o "non scientifiche". Ma è davvero così? Prendiamo in esame l'esperienza della realtà virtuale. Quando indossiamo un visore VR, viviamo un'esperienza che è simultaneamente "irreale" nella sua natura digitale e "reale" nella sua capacità di generare risposte fisiologiche e psicologiche autentiche. L'immagine virtuale non è "vera" in senso materiale, ma la risposta del nostro organismo ad essa lo è indiscutibilmente.

Questo parallelo ci aiuta a comprendere come nelle culture tradizionali, la percezione diretta della realtà non mediata dalla tecnologia potesse accedere a dimensioni dell'esperienza oggi largamente dimenticate. L'individuo pre-moderno possedeva una capacità di percezione integrata, dove i confini tra materiale e immateriale, visibile e invisibile, erano più fluidi e permeabili. Questa modalità di conoscenza non era meno valida della nostra comprensione tecno-scientifica: era semplicemente sintonizzata su frequenze diverse dell'esperienza umana.

La chiave sta nel riconoscere che la realtà ha molteplici livelli di manifestazione: quello quantificabile e misurabile attraverso gli strumenti tecnologici rappresenta solo uno strato dell'esperienza possibile. Come un'immagine digitale ha sia una struttura binaria sottostante che una manifestazione visiva sulla superficie dello schermo, così i fenomeni naturali possiedono sia una dimensione fisica misurabile che una qualitativa esperibile attraverso modalità di percezione più sottili.

Nelle società tradizionali, questa capacità di percezione multidimensionale era coltivata e riconosciuta come una forma legittima di conoscenza. I saggi, gli sciamani, i mistici non erano semplicemente figure "pre-scientifiche", ma individui che avevano sviluppato modalità di comprensione complementari a quelle che oggi privilegiamo. La loro capacità di "vedere" oltre il velo della realtà materiale non era un'illusione o una fantasia, ma una forma di intelligenza ecologica profonda che permetteva una comprensione olistica dell'esistenza.

Risulta quindi riduttivo interpretare il patrimonio simbolico, mitologico e spirituale delle culture tradizionali come una forma "primitiva" di comprensione scientifica. Questi sistemi di conoscenza operavano - e in alcune culture ancora operano - su un piano diverso ma non meno valido di quello tecno-scientifico contemporaneo. Come la realtà virtuale e aumentata oggi ci permettono di espandere la nostra percezione oltre i limiti della materialità, così le pratiche tradizionali offrivano accesso a dimensioni dell'esperienza che la nostra ossessione per la quantificazione e la digitalizzazione rischia di oscurare definitivamente.

Superare questo pregiudizio tecnologico è essenziale per recuperare una comprensione più ricca e sfumata non solo del nostro passato, ma anche delle potenzialità ancora inesplorate della coscienza umana. Solo così lo studio delle tradizioni ancestrali potrà trasformarsi da sterile esercizio accademico in fonte di rinnovata saggezza per affrontare le sfide del presente.



La deificazione del metodo Montessori

Negli ultimi decenni abbiamo assistito a una crescente idealizzazione del metodo Montessori. Si è trasformata Maria Montessori, educatrice innovativa del suo tempo, in una sorta di figura quasi mistica dell'educazione moderna.

Non vogliamo qui ora entrare nel merito degli aspetti dell’educazione montessoriana, ci teniamo però a sottolineare i pericoli della deificazione di un metodo che ha portato negli anni molti genitori e educatori a seguire dogmaticamente ogni aspetto, come se fosse una verità universale e immutabile.

L'educazione dei nostri figli è troppo importante per essere affidata ciecamente a un singolo metodo o approccio pedagogico.

Ogni bambino è unico, con proprie caratteristiche, necessità e modalità di apprendimento. L'applicazione rigida di un singolo metodo educativo può diventare limitante per alcuni bambini che potrebbero beneficiare maggiormente da approcci diversi o da una combinazione di metodologie.

Stesso discorso dicasi per il metodo Reggio Emilia, per l'approccio Waldorf, per la pedagogia steineriana e molti altri.

La vera saggezza nell'educazione sta nel saper prendere il meglio da diverse metodologie, adattandole alle esigenze specifiche di ogni bambino e contesto. Mai beatificare una figura e seguirla alla lettera come fosse una autorità indiscutibile.

Bisogna mantenere uno sguardo critico e informato, valutare le esigenze individuali del bambino, essere aperti a integrare diversi approcci educativi, in sostanza evitare il dogmatismo metodologico.

Il contributo di Maria Montessori all'educazione ha degli aspetti importanti, ma deve essere visto come uno dei tanti strumenti a disposizione, valorizzandone gli aspetti positivi senza cadere nella trappola dell'idealizzazione acritica.

Trasformare il suo metodo in un dogma limita le potenzialità di educare integrando diverse prospettive.

Non esiste un'unica "verità universale" in ambito educativo. Ogni approccio ha i suoi limiti e contesti di applicazione, e il metodo Montessori non fa eccezione.

 



La morte di David Lynch

È morto David Lynch, il visionario che negli ultimi 50 anni ha ridefinito i confini del Cinema.

David Lynch è stato un artista che ha osato spingersi oltre i confini convenzionali della narrazione cinematografica, creando un linguaggio visivo e onirico tutto suo. Ha ridefinito il concetto stesso di narrazione cinematografica, aprendo la strada a nuove forme di espressione artistica. Il suo viaggio iniziò nel 1977 con "Eraserhead", un'opera prima che rimane ancora oggi un punto di riferimento imprescindibile per il cinema sperimentale. In questo film, Lynch ci trasportò in un universo industriale tetro e claustrofobico, dove il protagonista affronta la paternità attraverso visioni surreali e inquietanti. Il film, girato in un nitido bianco e nero che ne accentua l'atmosfera onirica, stabilì immediatamente i temi che sarebbero diventati il marchio di fabbrica di Lynch: l'esplorazione del subconscio, la disintegrazione della realtà quotidiana, e la presenza costante di un'inquietudine sotterranea. Da lì, Lynch ha continuato a sorprendere e sfidare il pubblico con opere come "The Elephant Man", dove ha dimostrato di poter coniugare la sua visione artistica con una narrazione più tradizionale. "Blue Velvet" ha portato il suo sguardo surreale nel cuore dell'America suburbana, svelando il lato oscuro che si cela dietro le apparenze della vita quotidiana. "Strade Perdute" e "Mulholland Drive" rappresentano poi forse l'apice delle sue esplorazioni dei confini tra realtà e sogno, opere che continuano a generare interpretazioni e discussioni a distanza di anni. La serie televisiva "Twin Peaks" ha rivoluzionato il medium televisivo, dimostrando come la televisione potesse essere un veicolo per narrazioni complesse e sperimentali tanto quanto il cinema. La serie ha influenzato innumerevoli produzioni successive. Il suo stile, caratterizzato da atmosfere oniriche, sonorità inquietanti, narrativa non lineare e un profondo interesse per il lato oscuro della natura umana, ha influenzato generazioni di registi e artisti. Lynch ha creato un genere a sé, dove il surreale e il quotidiano si fondono in modo inestricabile, dove i confini tra sogno e realtà si dissolvono, lasciando lo spettatore in uno stato di meraviglia e inquietudine. Lynch ha insegnato a generazioni di artisti che è possibile rimanere fedeli alla propria visione artistica senza compromessi, anche all'interno del sistema hollywoodiano, che il cinema può essere molto più di un semplice intrattenimento, esso può divenire un portale verso dimensioni inesplorate della coscienza umana. La sua visione continuerà a ispirare e influenzare il cinema per le generazioni a venire. 




Innatismo

È sorprendente osservare come figli nati dagli stessi genitori, cresciuti nello stesso ambiente e sottoposti al medesimo trattamento, sviluppino nel tempo caratteristiche, capacità e attitudini totalmente diverse. Per esempio due fratelli gemelli diventano crescendo uno un timido ingegnere e l'altro un"artista egocentrico. Questo accade perché, come teorizzato da Platone, vi sono delle predisposizioni innate. Secondo una visione innatista platoniana, la conoscenza non è semplicemente acquisita attraverso l'esperienza, ma è piuttosto una riscoperta di idee e potenzialità già presenti nell'individuo. Ecco che pur condividendo l'eredità genetica e l'ambiente familiare, ogni bambino porta con sé una propria essenza, un insieme unico di inclinazioni e predisposizioni che si sviluppano in modo singolare. Così come i semi piantati nello stesso terreno germogliano in modi diversi, i fratelli rispondono in maniera eterogenea agli stimoli esterni, dando vita a personalità, abilità e interessi distinti. L'innatismo platonico ci suggerisce come l'identità di ogni individuo non è plasmata esclusivamente dall'ambiente, ma affonda le sue radici in una dimensione più profonda dell'essere umano, riconoscendo l'unicità di ogni esistenza. Ciascuno di noi è un universo a sé stante, con una propria traiettoria e un proprio destino, guidato da un insieme di potenzialità innate che si dispiegano in modo singolare. 



Ciapilo ciapilo!

Tanti anni fa, a Savona, esisteva una giostra su cui andavano tutti i bambini: si chiamava “Ciapilo ciapilo”, che in ligure significa “acchiappalo”. Un pupazzetto veniva fatto volteggiare sulle teste dei bambini che cavalcavano i cavalli della giostra; lo scopo era acchiappare il pupazzo per ottenere un giro gratis.
A trent’anni di distanza, ripensare al “Ciapilo ciapilo” ci ha fatto venire in mente come sovente ci si può sentire a vivere nel mondo dominato dal tecno-capitalismo: per tutta la vita cavalchiamo cavalli di plastica e giriamo in tondo, ancora e ancora. A volte gira la testa. Ubriacati di consumo, di promesse e di sogni che fluttuano in aria. Secondo tanti antropologi e sociologi, tra cui Margaret Mead ed Émile Durkheim, il contesto socio-culturale in cui si cresce plasma, più della componente genetica, la personalità dell’individuo e perciò la sua prospettiva sul mondo, la sua weltanschauung. Fin da bambini si è destinatari di pubblicità che invogliano ad acquistare, anche il tempo libero deve essere riempito con sport, giochi, film e distrazioni varie; si riceve la ‘paghetta’ e si comprano Coca Cola e Goleador. Da adolescenti è importante essere alla moda, frequentare le persone ed i posti giusti, iscriversi ad una facoltà moderna in una grande città di tendenza. Da adulti bisogna abitare in un certo quartiere, avere una certa posizione sociale e ostentare un certo stile di vita.
Crescere nella società dei consumi instilla un modo di essere-nel-mondo, un habitus, che assorbe gran parte delle persone, rendendole ingranaggi di un sistema che ha come unico scopo potenziare se stesso e autoperpetuarsi. Il sistema tecno-capitalistico è antropopoietico (anthropos: uomo; poiesis: dare forma) in quanto è stato fabbricato dall’uomo per fornire modelli socio-culturali di riferimento tali che plasmino i membri di una società affinché questi ultimi si adattino. Si tratta di un processo uroborico in cui è ormai impossibile distinguere tra inizio e fine, è un sistema inoltre che si ciba di se stesso.
Eppure, anche per coloro che vorrebbero ‘’uscire dal sistema’’, farlo è praticamente impossibile. In qualche modo si dipende da esso, spesso per varie necessità. Scendere dalla giostra equivarrebbe a condurre una vita nei boschi (neppure Thoreau resistette per più di due anni) e rinunciare ad obiettivi di vita in cui si crede ancora.
Tuttavia girare in tondo alla lunga dà la nausea. Alcune soluzioni possono essere il ripiegamento su se stessi: camminare e riflettere, lontano, nella natura, lungo un sentiero. Ritirarsi, ogni tanto, nel silenzio e non tenere gli occhi puntati sul “Ciapilo ciapilo”. Questo, lasciamo che lo facciano gli altri. 



                                                    AM

Il presunto cambio di rotta di Meta sul fact-checking.

A proposito del presunto cambio di rotta di Meta sul fact-checking.

I "sinistri" sono scontenti, per loro la censura è diventata da tempo uno strumento "progressista" e la libertà d'espressione un elemento potenzialmente pericoloso.

Sono davvero convinti che esista il mito dell'obiettività assoluta, che possa esistere un'entità super partes in grado di stabilire la "verità assoluta". Che un processo di verifica possa essere influenzato da interessi economici, politici o ideologici, non li sfiora.

Per loro il dialogo è inutile, non sia mai che possano emergere delle incongruenze nel confronto, che si possa stimolare il pensiero critico negli utenti evitando la creazione di "verità ufficiali" potenzialmente manipolabili.

Sono convinti esista un "totalitarismo buono", che esistano forme di censura giustificabili perché esercitate "per il bene comune".

Chi stabilisce cosa sia il "bene comune"? Come si garantisce che questo potere non venga abusato? Quale è il confine tra protezione e controllo?

A queste domande non sanno rispondere seriamente, ma per partito preso difendono il fact-checking dei vari Mentana e compagnia cantante.

Detto questo, non crediamo affatto che vi sia una rimozione dei fact checker su Meta. Non ci sarà alcun bilanciamento tra la necessità di combattere la disinformazione con il diritto alla libertà d'espressione. Il controllo centralizzato dell'informazione rimarrà tale, i perimetri sono sempre stabiliti da loro, provare per credere.

Il resto è la solita fuffa illusoria di chi vede Trump a cavallo che salverà l'umanità.


Il tempo libero nell'era tecnologica

Nel 1865, Karl Marx descriveva il lavoratore privato del tempo libero come "meno di una bestia da soma". Oggi, più di 150 anni dopo, le sue parole sono ancora di attualità, seppur in un contesto profondamente trasformato.

Nell'era digitale, la "macchina per la produzione di ricchezza" ha assunto nuove forme. Gli smartphone ci tengono costantemente connessi al lavoro, le email ci seguono 24 ore su 24, e il confine tra vita professionale e personale è diventato sempre più sfumato. Il "tempo libero" di cui parlava Marx si è trasformato in un concetto quasi utopico. La moderna degradazione non è più solo fisica, ma anche mentale e digitale. I lavoratori di oggi non sono piegati dal peso di carichi materiali, ma dall'invisibile fardello della connessione perpetua, delle notifiche costanti.

Il capitale ha trovato nuovi modi per massimizzare la produttività: algoritmi che monitorano le prestazioni, piattaforme di lavoro che impongono ritmi accelerati, e una cultura aziendale che celebra l’ "hustle" perpetuo. Ma c'è una differenza fondamentale rispetto ai tempi di Marx: oggi, paradossalmente, molti lavoratori abbracciano volontariamente queste catene digitali. La cultura del "sempre connesso" viene presentata come simbolo di dedizione e successo, mentre il riposo viene stigmatizzato come pigrizia.

La vera sfida del nostro tempo è quindi riconoscere queste nuove forme di sfruttamento e ripristinare il valore del tempo libero. Non si tratta solo di disconnettersi, ma di riaffermare il nostro diritto a esistere al di fuori della logica produttiva. Ci chiediamo: stiamo davvero progredendo se la tecnologia, invece di liberarci, ci ha resi ancora più schiavi del lavoro? Non è forse tempo di ripensare il rapporto tra tecnologia, lavoro e dignità umana, prima che l'abbrutimento digitale diventi la norma accettata della nostra epoca? O è ormai troppo tardi?





Pavel Florensky

Pavel Florensky è stata una delle menti più luminose e poliedriche del XX secolo. Matematico, filosofo, teologo ortodosso, ma soprattutto cercatore instancabile della Verità nelle sue molteplici manifestazioni. Formatosi come brillante matematico, Florensky scelse poi la via del sacerdozio, senza mai abbandonare la sua passione per la matematica e la fisica. In lui, la precisione del pensiero scientifico si fondeva armoniosamente con la profondità della spiritualità ortodossa. I suoi testi non sono di facile lettura, si esplora il concetto di verità con una prosa densa di riferimenti matematici e teologici. 

In un'epoca di specializzazioni settoriali sempre più estreme, la visione unitaria del sapere di Florensky, la sua capacità di vedere collegamenti profondi tra matematica e teologia, tra arte e filosofia, tra scienza e spiritualità è una prospettiva preziosa. Florensky ha dimostrato come la ricerca della verità possa essere contemporaneamente rigorosa e poetica, scientifica e mistica. 

In un mondo che tende a separare e contrapporre, Florensky ha insegnato l'arte della sintesi superando la falsa dicotomia tra Spiritualità e Scienza. 



L'ossessione per la laurea

L'ossessione italiana per la laurea sta creando un paradosso insostenibile. "Mio figlio deve studiare", "Mio figlio deve laurearsi" - queste frasi sono diventate un mantra quasi ossessivo nelle famiglie italiane, come se non esistesse altra via. Che senso ha spingere indiscriminatamente tutti i ragazzi verso l'università, anche chi non ha né inclinazione né passione per lo studio? Questa mentalità sta producendo due effetti disastrosi: da una parte, laureati frustrati che non trovano lavoro nel loro campo o si ritrovano sovraistruiti per le posizioni disponibili; dall'altra, un vuoto drammatico nei mestieri pratici che sono il fondamento di qualsiasi economia sana. È assurdo che un paese industrializzato come l'Italia debba importare manodopera per ogni lavoro manuale. Non è sostenibile che i nostri giovani rifiutino sistematicamente mestieri come l'idraulico, l'elettricista, il muratore - professioni che, tra l'altro, spesso garantiscono guadagni superiori a molte posizioni da laureati. Il problema parte dalle famiglie: troppi genitori considerano il lavoro manuale come una "sconfitta sociale", dimenticando che questi mestieri non solo sono dignitosi, ma essenziali. Stiamo crescendo generazioni convinte che sporcarsi le mani sia degradante, che il successo si misuri solo con un pezzo di carta appeso al muro. Ma un paese ha bisogno di tutti i tipi di professionalità per funzionare. Non possiamo avere una nazione di soli colletti bianchi - chi costruirà le case? Chi riparerà gli impianti? Chi manterrà in piedi l'infrastruttura del paese? Pakistani e nigeriani sfruttati e sottopagati? Così pensiamo di andare avanti? È ora di smetterla con questa visione classista ed elitaria del lavoro. È ora che le famiglie italiane capiscano che indirizzare un figlio verso un mestiere pratico non è un fallimento, ma può essere una scelta vincente, sia per il ragazzo che per la società. Perché un bravo artigiano, un abile operaio specializzato, un esperto muratore non valgono meno di un laureato. Anzi, in molti casi, sono proprio queste figure professionali a garantire il vero funzionamento del paese, mentre continuiamo a sfornare laureati in settori già saturi. È tempo di recuperare la dignità del lavoro manuale e di smettere di considerarlo come un'opzione di serie B. Solo così potremo riequilibrare il mercato del lavoro e dare ai nostri giovani vere opportunità, basate sulle loro reali inclinazioni e non su biechi stereotipi sociali. 




La novità perpetua

La società della "novità perpetua" ha trasformato le persone in consumatori anche delle relazioni e dei progetti di vita. Come bambini viziati, si salta da un'esperienza all'altra cercando il brivido del nuovo, senza mai scavare in profondità. Che sia in amore o in amicizia. La vera crescita non sta nell'accumulo di esperienze superficiali, ma nella capacità di esplorare le infinite sfumature di ciò che già abbiamo. Un'amicizia duratura rivela strati di comprensione che nessun rapporto fugace può dare. Un progetto portato avanti con costanza genera una maestria che nessun "assaggio" superficiale può eguagliare. L'amore maturo scopre una profondità di intimità che il semplice innamoramento non può raggiungere. La noia che si prova non è un segnale che bisogna cambiare, ma è l'invito ad andare più in profondità. È nella resistenza a questo impulso di fuga che si cresce davvero. La costanza non è monotonia, è il coraggio di esplorare gli strati più profondi dell'esperienza. Chi salta continuamente da una novità all'altra sta in realtà fuggendo da se stesso, perché è più facile cercare nuovi stimoli esterni che affrontare la sfida della crescita interiore. Ma alla fine, questo vagare superficiale lascerà un vuoto che nessuna novità potrà colmare.





La demonizzazione del posto fisso

La demonizzazione della stabilità lavorativa è uno dei più significativi paradossi della narrativa economica contemporanea.

Per anni abbiamo interiorizzato i mantra "bisogna essere flessibili, dinamici, pronti al cambiamento", "bisogna uscire dalla zona di comfort", "cambiare è necessario per evolvere!", "la mentalità del posto fisso è sorpassata!". Sono diventati quasi dei dogmi, accettati acriticamente da molti.

La ricerca della stabilità professionale viene oggi spesso dipinta come un limite, un'ambizione quasi retrograda. È interessante osservare come il mondo del lavoro contemporaneo abbia trasformato quello che una volta era considerato un obiettivo encomiabile - la costruzione di una carriera solida e duratura - in qualcosa di cui quasi vergognarsi.

Il mercato attuale celebra incessantemente il cambiamento continuo, esaltando figure professionali sempre in movimento, pronte a reinventarsi e a spostarsi da un'opportunità all'altra. Questa retorica, presentata come moderna e progressista, nasconde però una verità più complessa: non tutti trovano realizzazione in un percorso professionale fatto di continui cambiamenti.

Esistono persone che preferiscono costruire relazioni professionali di lungo termine, vedere progetti nel tempo, appartenere a una comunità lavorativa stabile. Questa inclinazione non è un difetto o una mancanza di ambizione, ma una legittima preferenza personale che merita rispetto e considerazione.

Ci chiediamo: chi beneficia realmente da un sistema che promuove l'instabilità come virtù? La costante pressione al cambiamento in ambienti dove la precarietà viene normalizzata e celebrata contribuisce a creare monadi instabili e senza radici.

Un approccio più equilibrato al mondo del lavoro dovrebbe riconoscere e valorizzare tanto il desiderio di stabilità quanto quello di cambiamento, permettendo a ciascuno di perseguire il percorso più adatto alle proprie inclinazioni e aspirazioni personali, senza imposizioni ideologiche mascherate da "progresso".




La dicotomia tra progresso materiale e spirituale

Nel mondo contemporaneo persiste una convinzione diffusa e radicata: l'idea che il progresso materiale e tecnologico porti automaticamente a un miglioramento della condizione umana nella sua totalità. Questa visione, rappresenta una semplificazione fuorviante della complessa natura dell'essere umano. Il benessere materiale, perseguito attraverso l'avanzamento scientifico e tecnologico, ha indubbiamente portato numerosi vantaggi: migliori condizioni igieniche, cure mediche più efficaci, maggiore disponibilità di risorse. Tuttavia, questa corsa al progresso materiale non ha arricchito la dimensione qualitativa e spirituale dell'esistenza umana. La dimensione spirituale dell'uomo segue infatti una traiettoria differente, che non può essere misurata con gli stessi parametri del benessere materiale. Mentre la scienza si concentra su ciò che è quantificabile e misurabile, lo spirito umano si nutre di elementi più sottili: la ricerca di significato, la contemplazione, l'esperienza estetica, la dimensione etica delle scelte. Non si tratta di stabilire un'opposizione netta tra queste due dimensioni - materiale e spirituale - quanto piuttosto di riconoscerne la fondamentale differenza di natura e direzione. Esse non sono necessariamente incompatibili, ma seguono percorsi distinti. Il benessere materiale può creare le condizioni per la crescita spirituale, ma non la determina automaticamente.

Bisogna riconsiderare il paradigma dominante del progresso. Un autentico sviluppo umano dovrebbe tenere conto di entrambe le dimensioni, riconoscendo che il miglioramento delle condizioni materiali, per quanto importante, non può sostituire la coltivazione delle qualità interiori che definiscono la nostra umanità più profonda. In un'epoca dominata dal materialismo scientifico, ricordiamo l'importanza di mantenere uno sguardo equilibrato, che sappia valorizzare tanto i progressi della scienza quanto le esigenze dello spirito, senza confondere i rispettivi ambiti e finalità.




Divari generazionali

" Eh, io avevo già casa e famiglia alla tua età!". Quante volte abbiamo sentito queste frasi da parte delle generazioni precedenti? Costoro dimenticano che negli anni '70-'80 l'accesso al lavoro avveniva con requisiti formativi minimi, il potere d'acquisto degli stipendi era significativamente più alto, il mercato immobiliare era accessibile ed il costo della vita proporzionato agli stipendi. Oggi sappiamo che invece vi è una richiesta di alta formazione anche per posizioni generiche, estrema competitività nel mercato del lavoro, contratti prevalentemente temporanei o precari e affitti nelle città che superano il 50% dello stipendio medio. Le cause di questo deterioramento sono identificabili in precise scelte politiche ed economiche, quali la deregolamentazione del mercato del lavoro, con l'introduzione di forme contrattuali sempre più precarie (pensiamo alla legge Biagi, o al Jobs Act di Renzi), la mancata indicizzazione dei salari all'inflazione, che ha eroso il potere d'acquisto, la speculazione immobiliare incontrollata e l'assenza di politiche abitative pubbliche efficaci, il taglio progressivo al welfare state e ai servizi pubblici e la privatizzazione di settori strategici che ha causato aumento dei costi per i cittadini. La precarietà attuale non è quindi un fenomeno naturale o inevitabile, ma il risultato di precise scelte politiche. È quindi paradossale e profondamente ingiusto che proprio chi ha beneficiato di un sistema più equo, chi ha goduto di tutele lavorative oggi smantellate, chi ha potuto comprare casa con un mutuo sostenibile, chi ha avuto accesso a servizi pubblici efficienti, ora punti il dito contro i giovani accusandoli di "non avere voglia di sacrificarsi". La verità è che molti dei diritti e delle opportunità di cui hanno goduto sono stati gradualmente erosi proprio durante la loro gestione della società, mentre ora pretendono dalle nuove generazioni risultati impossibili da raggiungere in un contesto completamente deteriorato.




Il prezzo della Verità

Siamo sicuri di essere davvero pronti a pagare il prezzo della Verità? O preferiamo talvolta scegliere la strada più comoda: quella della maggioranza? È innegabile che sia più facile nuotare con la corrente che contro di essa. È più rassicurante sentirsi parte di un grande gruppo piuttosto che difendere una posizione solitaria. Ma la storia ci insegna una lezione diversa. Ogni grande cambiamento è partito da una minoranza che ha osato sfidare lo status quo. La Verità non è democratica. Non si piega al numero dei suoi sostenitori, ma resta salda nei fatti e nella logica. Eppure, quante volte ci siamo trovati a tacere per non disturbare l'armonia del gruppo? Quante volte abbiamo soffocato le nostre convinzioni per non sentirci "diversi"? Il conformismo è una coperta calda e confortevole, ma quando scegliamo di stare dalla parte della maggioranza solo perché è la maggioranza, rinunciamo a una parte della nostra autenticità. La vera forza non sta nei numeri, ma nel coraggio di difendere ciò che sappiamo essere giusto, anche quando siamo soli a farlo. È nella capacità di resistere alla pressione sociale e rimanere fedeli alle nostre convinzioni basate sui fatti e sulla ragione. Vogliamo essere ricordati come coloro che hanno seguito la folla, o come quelli che hanno avuto il coraggio di indicare una nuova direzione? 

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