E se non ci fosse rete?

Tanti adolescenti non solo non sanno più cosa sia un diario di scuola, perché il registro elettronico, sistema capillare di biopotere, tiene traccia di tutto, ma nemmeno hanno più il portafoglio. Documenti, patente, agenda e denaro sono digitalizzati sul telefonino.  

Si esce con il telefonino, e tanto basta. Sarebbe troppo porsi alcune domande come:  e se non ci fosse rete? E se si scaricasse la batteria?

Internet-dipendenti. Non immaginano un mondo senza rete. Eppure un mondo disconnessi esiste e deve continuare ad essere tenuto vivo: invece di pensare a vivere ‘’on-life’’, tanti dovrebbero imparare a vivere. Non si può negare che Internet rappresenti una comodità, ma quando questa si trasforma in qualcosa di imprescindibile che avviluppa la psiche, si perde la libertà. E infatti la libertà ha sempre interessato i pochi. Non poter immaginare un’alternativa, significa precludersi una possibilità di esistenza. Non riuscire a pensare ad altro modo di vivere rende omologati e prevedibili. Oggi è tutto un risuonare di slogan: “Dove vuoi e quando vuoi!”. Certo, tutto a portata di mano, tutto subito, tutto ovunque, tutto sempre. Anche tu. Anche tu devi essere sempre raggiungibile, sempre localizzabile, sempre spremibile, sempre contabilizzabile. Un piccolo puntino che si muove insieme a tanti altri puntini, come i pixel su uno schermo. La sincronia deve essere perfetta. Il pixel fuori posto va corretto. O eliminato. Tanti piccoli puntini pronti ad occupare posti prefissati nella rete neurale digitale. Funzionali al sistema, questo è importante. Utili per la spremitura.

In alcuni paesini tedeschi in cui le attività commerciali hanno chiuso, stanno aprendo supermercati completamente automatizzati, gestiti dall’intelligenza artificiale e aperti 24 ore su 24, 7 giorni su 7: basta prendere i prodotti dagli scaffali e metterli nel sacchetto, le videocamere registrano i movimenti del cliente e il conto è scalato direttamente dall’app del telefonino.

Coloro che utilizzano il telefonino per qualunque cosa, persino per pagare il caffè al bar, saranno i primi a esultare quando si diffonderanno i negozi senza personale. I poveri lobotomizzati, operai senza paga della moderna fabbrica del digitale, privi di qualunque capacità previsionale, non si renderanno nemmeno conto di essere condannati alla disoccupazione.

A fronte di una massa di individui che dice frasi come: “Lo smartphone è la mia vita”, diventa ancor più importante tenere vivo un mondo senza internet. L’alternativa alla rete è un’esistenza piena e ricca, fatta di riflessione, introspezione e godimento del bello. Ormai si tratta di una esistenza di élite, riservata ai pochi che ancora riescono a esistere nel mondo vero.

                                                                                    AM

Stati d'infanzia

C'è un momento nella vita in cui il mondo appare senza divisioni, senza etichette, senza le categorizzazioni che più tardi impariamo a considerare inevitabili. È nell'infanzia che sperimentiamo questa visione pura, questa percezione immediata che trascende ogni dualismo. 

Dove si possono ritrovare questi stati di grazia, questi istinti primordiali, questa meraviglia perduta? Forse nei sentieri meno battuti della filosofia, quella che non si perde in argomentazioni ma ci riporta all'esperienza diretta. Nella contemplazione che le tradizioni spirituali hanno trasmesso. Nell'approccio di Goethe alla natura - non un oggetto da analizzare ma un organismo vivente da comprendere attraverso l'empatia. La ritroviamo nell'esperienza di salire una montagna, quando il respiro si fa corto e la mente si svuota, lasciando spazio solo all'immediato. E la ritroviamo nel peregrinare, nell'accettare di essere eternamente in viaggio, mai fermi in un'unica posizione intellettuale o fisica, sempre aperti all'ignoto che ci attende oltre l'orizzonte. È in questo movimento costante che ci avviciniamo, non al centro, ma alle periferie della verità - dove i confini sono sfumati e l'incanto dell'infanzia può nuovamente manifestarsi. 



Trincee

Ci si sveglia al suono di una notifica. Il mondo digitale non attende, non rispetta i tempi umani. Si è già in ritardo prima ancora di aprire gli occhi. Si esce di casa armati di smartphone, agende digitali e tazze di caffè per affrontare la giornata. La competizione è l'aria che si respira. A scuola, all'università, nei colloqui di lavoro, nelle riunioni. Si è costantemente valutati attraverso "feedback" e "performance review". Numeri che determinano il valore di mercato, la rilevanza sociale. Non basta lavorare bene, bisogna "sapersi vendere". Non basta essere se stessi. E tutto questo ha un prezzo. Mutui trentennali, prestiti per la "formazione", leasing, rate e carte di credito. Debiti perenni per esistere, per partecipare a questo grande gioco. Le trincee della modernità sono invisibili ma non meno reali. Si combattono battaglie silenziose contro l'ansia, l'insonnia, la sensazione costante di inadeguatezza. Alcuni restano feriti, altri disertano, molti continuano a marciare perché non conoscono alternative. Si parla di guerre e riarmo, ma la vita moderna è già una trincea, bisogna solo prendere consapevolezza e decidere per quali battaglie vale la pena combattere.




"Requiem for a Dream" di Darren Aronofsky

"Requiem for a Dream" di Darren Aronofsky è un monito universale sulle dipendenze che vanno molto oltre la tossicodipendenza tradizionale. In un'era di dipendenze digitali, ossessioni da social media, consumismo compulsivo e perdita di connessione umana, l’opera di Aronofsky del 2000 è attualissima.

Il film demolisce l'illusione che le dipendenze siano solo legate alle sostanze stupefacenti. Mostra con spietata chiarezza come l'ossessione possa assumere forme diverse: la dipendenza da droghe dei giovani protagonisti, l'ossessione televisiva e dal sogno del successo della madre, la ricerca compulsiva di validazione sociale, il bisogno alienante di soddisfare desideri imposti dall'esterno

"Requiem for a Dream" rivela come i sogni possano trasformarsi in incubi quando diventano ossessioni. Storie incrociate in cui tutti cercano una via di fuga dalla propria mediocrità, ma i loro sogni si rivelano trappole mortali, specchi infranti di un'esistenza svuotata di significato

Questo non è un film che si guarda, ma un'esperienza che si attraversa. Un lungo respiro in cui appaiono la mercificazione dei desideri, l'illusione del successo facile, la solitudine nelle grandi metropoli e la frammentazione delle relazioni umane. Una frammentazione che Aronofsky costruisce con una narrazione visiva composta da tagli rapidi, prospettive distorte, sequenze ipnotiche ed una colonna sonora martellante (Clint Mansell).

Un viaggio nel buio più profondo dell'animo umano: dietro ogni dipendenza c'è sempre un sogno infranto, una speranza tradita, un'umanità che cerca disperatamente di fuggire da se stessa.  Un'opera che continua a urlare la sua verità, ancora oggi più che mai.



Paesaggi interiori

La vera comprensione non è un atto intellettuale, ma un atto di ospitalità. Accogliere un pensiero significa permettergli di abitare i nostri spazi più profondi, di dialogare con le nostre ferite, le nostre speranze, i nostri silenzi. Significa convertire la conoscenza da esperienza esteriore a paesaggio interiore.

Chi conosce in questo modo non accumula nozioni, ma genera vita. Non cataloga, ma germoglia. Non separa, ma connette. Ogni idea diventa un ponte tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare.

Esistono due modi di incontrare la verità: come un ospite fuggevole che si affaccia alla finestra della mente, o come un compagno di viaggio che si insedia nel territorio più intimo del nostro essere.

L'intelligenza può rivelarsi uno spazio neutro, asettico, dove le idee scivolano come ombre momentanee e inconsistenti. Qui, il pensiero diventa un teatro di immagini transitori, dove i concetti si susseguono senza mai radicarsi, senza mai trasformarsi in linfa vitale. Le intuizioni passano, sfiorano la superficie della coscienza, e poi svaniscono, lasciando dietro di sé solo il vuoto di un'esperienza incompiuta.

Ma esiste un altro modo di abitare il pensiero. Un modo in cui le idee non sono più oggetti esterni, ma semi che germogliano nella profondità dell'anima. Qui, conoscere significa trasformare, incorporare, metabolizzare. Un concetto diventa allora simile al pane: nutrimento che non solo sfama, ma ricostruisce, cellula dopo cellula, l'architettura interiore di chi lo accoglie.

In questa geografia interiore, una singola idea può accompagnarci per l'intera esistenza. Non come un ricordo statico, ma come un compagno dinamico che cresce con noi, che si trasforma mentre noi ci trasformiamo, che ci abita mentre noi lo abitiamo.




Euro digitale

L’ Europa si prepara al varo dell’euro digitale, altro sistema di controllo sociale che permetterà di esercitare una sorveglianza capillare sul movimento dei pagamenti.
Sul sito della Banca d’Italia si legge che una moneta, per essere programmabile, deve essere digitale, ma che l’euro digitale, certamente non sarà programmabile. ‘Programmabile’ significa poter prefissare il tempo, il luogo ed il destinatario del pagamento. Considerata l’abitudine del potere alla menzogna, all’inganno e alla circuizione, e vista la diffusione di discorsi antitetici che vengono accolti dalla massa con sempre minore capacità di coglierne l’illogicità, è evidente che, se si legge che l’euro digitale non sarà programmabile, di fatto, lo sarà.
Stiamo assistendo ad un cambiamento ontologico della struttura del potere, che si sta facendo più sotterraneo e subdolo, un biopotere che prima riduce l’individuo a mero elemento da controllare, assoggettandone i vari aspetti della vita, poi se ne serve per i propri scopi: lo educa e lo plasma perché si faccia portavoce di una propaganda che, seppur esiziale per la propria integrità, non lo dissuade dal difendere i dettami del potere. In cambio dell’obbedienza, si ricevono premi. Basti pensare al green pass, coccardina da appuntare sul petto a dimostrazione del proprio senso civico. Certo, perché il potere insegna ad agire non solo nel rispetto della legge, bensì per contribuire al benessere della società intera. Gli obbedienti, così premiati, si sentono investiti di una vera missione e non si preoccupano che il potere decida della loro esistenza e, impregnati di superiorità morale, convinti di essere dalla parte del giusto e di dover insegnare al prossimo, si ergono sul piedistallo del pedagogo, lo schiavo che nell’antica Grecia guidava i fanciulli verso la conoscenza, insegnando loro un insieme di saperi approvato e imposto dall’alto, da una civiltà che piegava i prigionieri ai propri fini.
Il pedagogo di oggi diffonde una becera propaganda basata su fondamenta marcescenti e si comporta da lobotomizzato: a bordo della sua macchina elettrica, abituato a non fare a meno di Amazon, passa il tempo attaccato al telefonino sul quale ha trasfuso l’intera sua esistenza.
Non stupisce infatti vedere effettuare pagamenti anche di pochi centesimi, ad esempio dal panettiere o al bar, con il telefonino, vero e proprio raccoglitore di documenti, conti in banca, vita sociale, ricordi e account di ogni genere. Senza quel prolungamento di sé, si diventa prigionieri di se stessi e della propria poca lungimiranza. Il pedagogo accoglierà con sollievo il passaggio dall’uso del telefonino al microchip, quando quest’ultimo potrà essere impiantato in pochi minuti in un hub preposto, e sarà ben contento dell’introduzione del denaro digitale, in questo modo si estirperà finalmente l’evasione fiscale e tutti, ma proprio tutti, diventeranno onesti cittadini esattamente come lui.


                                                       AM

Reazioni collettive nell'epoca dei social

C'è stato un tempo in cui le decisioni sul riarmo e sulla guerra generavano immediate reazioni popolari: manifestazioni di piazza, mobilitazioni studentesche, scioperi e forme visibili di opposizione. Oggi, annunci simili vengono accolti con una sorprendente normalizzazione, quasi come fossero inevitabili. Questa metamorfosi della reazione sociale non è avvenuta per caso. Si è sviluppata parallelamente alla rivoluzione digitale e comunicativa che ha frammentato l'attenzione collettiva e individualizzato esperienze che un tempo erano condivise.

Il flusso ininterrotto di informazioni ha creato un paradosso: si è simultaneamente più informati, di un'informazione che non cessa mai, rimbalza tra piattaforme diverse, si presenta in formati sempre più brevi e stimolanti, progettati per catturare l'attenzione ma non favorisce la riflessione. L’esperienza quotidiana è diventata un mosaico di interruzioni continue: notifiche, aggiornamenti, contenuti personalizzati che seguono ovunque. Questo bombardamento sensoriale lascia poco spazio alla contemplazione necessaria per comprendere questioni complesse come la pace, la guerra e la sicurezza internazionale.

Per recuperare quel minimo di capacità di reazione collettiva di fronte a decisioni che riguardano il nostro futuro comune bisognerebbe intanto cominciare a coltivare spazi di disconnessione e riflessione profonda, liberi dall'urgenza della comunicazione continua. Dopodiché ricostruire comunità di discussione reali, dove il dialogo possa svilupparsi con tempi adeguati alla complessità dei temi esercitando un approccio critico verso le fonti di informazione, privilegiando l'approfondimento rispetto all'immediatezza.

La pace non è solo assenza di guerra, ma un processo attivo che richiede impegno civile e partecipazione. Siamo ancora in grado di recuperare una capacità minima di reazione collettiva che non sia pilotata dai soliti noti?

Ritrovare modalità di comunicazione e condivisione che favoriscano il pensiero critico e l'azione comune è fondamentale.



Risparmi

" UE, ECCO IL PIANO PER RISVEGLIARE I RISPARMI IN BANCA" 

Parlano di "soldi parcheggiati in banca", di "liquidità dormiente". Sono furbi, molto furbi, ma chiamiamo le cose con il loro vero nome: RISPARMI. Sacrifici. Sicurezza per il futuro. Quando un giornalista o un economista usa l'espressione "soldi parcheggiati", sta implicitamente suggerendo che quei fondi siano improduttivi, inerti, quasi colpevoli di non essere in movimento. È una retorica che denigra la prudenza e la previdenza di milioni di famiglie. 

I risparmi non sono un lusso. Non sono un capriccio. Sono la certezza di poter affrontare un'emergenza medica, l'opportunità di dare un futuro migliore ai propri figli, la tranquillità di poter riparare l'auto quando si rompe, la dignità di non dover chiedere aiuto in caso di imprevisti. 

Chi sono questi "esperti" per dirci come dovremmo gestire i frutti del nostro lavoro? Quanti hanno vissuto con l'ansia di arrivare a fine mese? La verità è che questa retorica serve solo a un sistema che vuole i nostri soldi in circolazione per alimentare investimenti che non sono nel nostro interesse. Vogliono far sentire in colpa le persone per essere prudenti, per proteggere se stessi e le proprie famiglie. 

Non si cada in questa trappola. I risparmi non sono mai "parcheggiati". Sono esattamente dove devono essere, pronti a sostenere quando se ne ha bisogno. È un diritto, conquistato con fatica e sacrifici. Quando si legge di "soldi parcheggiati", ricordiamoci che stanno parlando della nostra sicurezza, del nostro futuro, della nostra dignità. E nessuno ha il diritto di far sentire in colpa per questo. Il risparmio è un valore, non un errore. 

Finestroni di Overton avanzano.




Specchi e "casi umani"

"Eh io trovo sempre e solo casi umani!" - altra tipica frase molto in voga negli ultimi tempi, specialmente tra le donne. È diventata quasi un mantra, una spiegazione universale per le delusioni sentimentali. Quando si definiscono i propri ex come "casi umani", ci si pone automaticamente nella posizione di chi non ha responsabilità. Si è vittime innocenti del destino crudele che fa incontrare solo persone problematiche. Tipico ragionamento comodo per non guardare mai dentro se stessi. Le relazioni sono dinamiche a due. Se c'è uno schema che si ripete nelle storie d'amore, forse ci si dovrebbe chiedere quale sia il proprio ruolo in questo ciclo. O no? C'è un motivo se si tende a essere attratte sempre dallo stesso tipo di persona. 

I modelli di attaccamento, formati nell'infanzia, influenzano profondamente le scelte sentimentali da adulti. Se si cresce in determinati ambienti, inconsciamente si finisce col cercare persone che replicano quelle dinamiche familiari. In realtà spesso si scelgono partner "complicati" perché, paradossalmente, sono più sicuri, perché con loro la relazione ha un limite incorporato. Mentre persone emotivamente stabili vengono allontanate in quanto "noiose". Ma cosa si cerca realmente in un partner? 

C'è un aspetto particolarmente insidioso su cui soffermarsi: la dinamica della "crocerossina". Molte donne (ma anche uomini) che si lamentano dei "casi umani" cercano proprio persone con evidenti fragilità o "limitazioni" emotive, psicologiche o comportamentali. Questa attrazione verso partner "da sistemare" è un controllo mascherato da altruismo. Prendersi cura di qualcuno con problemi evidenti dà un senso di controllo sulla relazione. Si diviene indispensabili, e questo è gratificante per chi teme l'abbandono. La dipendenza dell'altro diventa una sicurezza. Essere "quella che lo cambierà" o "l'unica che lo capisce davvero" offre un'identità potente e un senso di scopo. Concentrarsi sui problemi dell'altro è un modo efficace per evitare di affrontare le proprie insicurezze e fragilità. Una relazione tra pari, dove entrambi sono emotivamente stabili, richiede vulnerabilità autentica e reciprocità. Per alcuni, questo è molto più spaventoso che gestire un partner "limitato". La cosa più pericolosa è che questo meccanismo si autoalimenta. Quando inevitabilmente la "missione di salvataggio" fallisce, ecco che ci si lamenta del "caso umano" incontrato, senza mai riconoscere che lo si è scelto proprio per quelle caratteristiche criticate. Il paradosso è che poi ci si definisce "troppo buoni" o "disposti a dare troppo", quando in realtà si stanno cercando relazioni dove poter mantenere uno squilibrio di potere a proprio favore. 

Riconoscere questo schema richiede grande onestà con se stessi. Significa ammettere che forse non si è vittime passive di una cattiva sorte sentimentale, ma partecipanti attivi in dinamiche disfunzionali che, a un qualche livello, servono. 

Etichettare gli ex come "casi umani" è dunque scorretto, in primis verso se stessi. Bisogna guardarsi limpidamente allo specchio, se si ha un ruolo attivo nella scelta dei partner, allora automaticamente si ha anche il potere di fare scelte diverse e cambiare modelli relazionali.


 


Invalsi o profilazione di stato?

Da diversi anni gli studenti sono sottoposti, al secondo ed al quinto anno della scuola primaria, in terza media ed al secondo e quinto anno delle superiori, a sostenere le prove INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell’istruzione). Questo ente, che dal 2016 fa parte del Sistema statistico nazionale, ha il compito di somministrare prove di Italiano, Matematica e Inglese volte a rilevare il livello degli apprendimenti degli studenti, per poi confrontarli su scala europea.
Il volto delle prove INVALSI è drasticamente mutato dal 2006, anno in cui furono somministrate per la prima volta: da strumento anonimo di valutazione delle scuole, a test psicometrico di profilazione degli studenti. Come spesso accade, le novità sono introdotte mettendone in luce i vantaggi, le comodità, i lodevoli scopi; poi, col tempo, emerge che esse nascondano altri obiettivi, secondi fini, ma intanto il loro utilizzo è entrato, come si sperava, a regime. E lo stesso è accaduto con le prove INVALSI, cavallo di Troia per estorcere, si capisce, dolcemente, le informazioni con la complicità di Dirigenti scolastici e docenti creduloni, a studenti ignari. Così le prove che erano –  ovviamente! – anonime (peccato che ad ogni studente sia associato un codice, pertanto basta risalire all’accoppiata per svelare l’identità dell’alunno), repentinamente diventano strumento di valutazione dell’alunno i cui risultati confluiranno sul portfolio personale della Piattaforma Unica. Quest’ultima, altra trovata del Ministero, raccoglie il ‘’percorso di crescita’’ degli alunni ‘’per aiutarli a fare scelte consapevoli e a coltivare e far emergere i loro talenti’’. Viene già da ridere leggendo le prime righe di presentazione sul sito. Quando si gioca sporco, si sa, col tempo si diventa più protervi. Ed ecco che all’interno delle prove INVALSI, oltre ai quesiti delle varie discipline, vengono inserite domande circa il numero approssimativo di libri presenti in casa; il numero di automobili della famiglia; il titolo di studio ed il tipo di impiego dei genitori. Ora, perché rinunciare ad una forma di arricchimento come quella rappresentata dalla vendita dei dati, dal momento che questi sono il ‘nuovo petrolio’? Facendo qualche ricerca, sembra impossibile risalire al trattamento dei dati personali. Si tratta di un sistema di scatole cinesi in cui ciascun ente rimanda al Regolamento europeo sulla privacy, da cui non si riesce a capire che fine fanno i dati raccolti. Riesce difficile immaginare che i dati servano solo a tracciare un quadro nazionale del livello di istruzione. Questi dati sono preziosissimi. Non solo perché rappresenteranno il percorso evolutivo dello studente (dalle scuole elementari fino all’università) che sarà consultabile dalle stesse università o da futuri datori di lavoro, ma perché si può desumere il quadro cognitivo del singolo studente. Le prove INVALSI sono strutturate come un test psicometrico per la misurazione del Q.I. perché i quesiti rispecchiano scale verbali e scale di performance. I risultati potrebbero essere utilizzati a scopo predittivo, quindi per supporre la collocazione sociale del soggetto, di fatto per stabilire le sue opportunità di vita.
I risultati degli INVALSI infine, sono inappellabili, perciò gli studenti non potranno né visionare gli errori fatti, né potranno ripetere le prove – della durata di sole 2 ore e corrette da un algoritmo –  se queste fossero andate male (non è detto infatti che durante la prova l’alunno sia in buono stato psico-fisico).
Lo scorso anno sono stati “coinvolti” 2,5 milioni di studenti, o bisognerebbe dire “ricattati”? Gli alunni delle classi quinte sono obbligati a fare gli INVALSI, pena la non ammissione all’Esame di Stato.
Stupisce che gli studenti accettino passivamente di svolgere queste prove, forse ne ignorano il vero fine, per ingenuità o indolenza non si pongono il dubbio, oppure dopo anni di scuola hanno interiorizzato il ruolo di sudditi. 

AM


"Virale" e "Iconico"

Basta, non se ne può più. Ogni giorno si leggono i termini "virale" e "iconico" associati a qualsiasi balletto o idiozia che salta fuori. Due termini che hanno subito una progressiva svalutazione semantica. Originariamente riservati a fenomeni di autentica risonanza culturale, oggi vengono applicati con disinvoltura a qualsiasi contenuto che ottenga una minima visibilità temporanea. Il termine "virale" nasceva come metafora per descrivere contenuti capaci di diffondersi autonomamente, quasi come un organismo biologico. Oggi basta che un video raggiunga qualche migliaio di visualizzazioni perché i media lo etichettino come "fenomeno virale", svuotando il termine del suo significato originario. Definire "virale" un contenuto mediocre serve a conferirgli un'importanza che intrinsecamente non possiede, creando artificialmente notiziabilità dove non c'è sostanza. Ancora peggio fanno con l'aggettivo "iconico". Storicamente riservato a opere, personaggi o momenti capaci di trascendere il loro tempo per diventare simboli culturali duraturi, oggi viene attribuito con leggerezza a qualsiasi fenomeno passeggero. Un grottesco vestito indossato da una celebrità, una battuta in un reality show, un balletto su TikTok: tutto diventa "iconico" nell'iperbole mediatica contemporanea. I media, nel loro disperato inseguimento di clic e visualizzazioni, esaltano acriticamente qualsiasi contenuto possa generare profitto immediato, a prescindere dal suo valore artistico o culturale. Questa inflazione terminologica non è solo una questione linguistica, ma riflette un più ampio impoverimento culturale. Quando tutto è "virale" e "iconico", nulla lo è veramente. Si perde la capacità di distinguere tra fenomeni significativi e semplici mode passeggere, tra cultura e intrattenimento di consumo. 



Scelte professionali

Sarebbe importante ogni tanto fermarsi a riflettere sul significato e l'impatto del nostro lavoro quotidiano. Le industrie ad alta tecnologia offrono posizioni prestigiose e ben remunerate, ma quali responsabilità comportano queste opportunità professionali?

Nel settore industriale avanzato, specialmente quello legato a tecnologie strategiche, si tende spesso a valutare un'azienda o un progetto esclusivamente in base alla sua capacità di creare occupazione. "Dà lavoro" diventa il mantra che giustifica qualsiasi attività, senza un'analisi più profonda sul valore e l'impatto di ciò che viene prodotto.

Questa visione riduttiva porta a una pericolosa disconnessione tra l'attività professionale e le sue conseguenze nel mondo reale.

Il potere oggi ci parla di necessaria riconversione industriale, in realtà servirebbe una riconversione di mentalità. Un professionista dovrebbe chiedersi: qual è l'impatto reale dei prodotti che contribuisco a creare? Le risorse impiegate potrebbero essere destinate a progetti più costruttivi per la società? Quale responsabilità ho nel contribuire a determinati settori industriali?

L'orgoglio per le proprie competenze tecniche e per l'appartenenza a settori all'avanguardia non può non includere anche la consapevolezza delle implicazioni etiche del proprio lavoro.

Le scelte professionali individuali contribuiscono a plasmare il futuro collettivo. Forse è tempo di ripensare cosa significhi realmente "dare lavoro" e iniziare a considerare non solo quanti posti di lavoro vengono creati, ma quale tipo di mondo stiamo costruendo attraverso il nostro impegno quotidiano.



Controinformazione

Una controinformazione autentica non aggiunge fantasie, ma rivela l'essenziale. Solo quando si abbandonano le interpretazioni soggettive per abbracciare una lettura lucida della realtà si acquisisce chiarezza.

Osservare senza distorsioni emotive o ideologiche, non è passività – è il prerequisito dell'azione consapevole.

Invece gran parte delle voci nella cosiddetta "controinformazione" offrono non fatti, ma narrazioni alternative contaminate dalle stesse tattiche manipolative che pretendono di combattere. Presentano ipotesi come certezze, collegano eventi casuali in trame fantastiche, sostituiscono l'analisi rigorosa con l'indignazione preconfezionata.

Il bello è che poi si accusano a vicenda di essere falsi controinformatori. Ad ogni intervento iniziano con "i falsi controinformatori vi dicono così, invece io..."

La vera resistenza all'informazione manipolata dei media è innanzitutto una disciplina mentale: osservare senza recitare un copione predeterminato, distinguere tra ciò che sappiamo e ciò che supponiamo, mantenere quella calma interiore che non è indifferenza, ma è il fondamento della lucidità. Solo allora si possono identificare degli spazi reali di intervento, senza sprecare energie in battaglie immaginarie o reazioni automatiche.

La vera controinformazione non suggerisce cosa pensare ed è libera dal bisogno di confermare le proprie convinzioni.




Il sacro

La percezione del sacro precede l’esistenza della società: è un’inclinazione dell’essere umano riuscire a riconoscere la trascendenza, una dimensione metafisica che va oltre l’immanenza. La dimensione del sacro si irradia dalla natura, fitto intreccio di equilibri sistemici di cui l’individuo non è che semplice ed effimera espressione. È sufficiente attraversare la natura per ‘sentire’ il respiro del cosmo, ambiente ordinato – non a caso il termine deriva dal greco kósmos, per l’appunto, ‘ordine’ – contrapposto al caos.
Lévy-Bruhl affermava che l’uomo primitivo avesse la capacità  di ‘sentire’ la trascendenza poiché i suoi processi psichici si basavano su un pensiero pre-logico, privo cioè di una struttura logica, lo strumento per pensare che Aristotele analizzò nell’Organon.
La psiche primitiva viveva un’unione mistica con la natura dove l’Io si fondeva con essa, senza opporre a sé un non-Io, un oggetto percepito; dunque il soggetto non si percepiva scisso rispetto alla realtà esterna, bensì partecipava contemporaneamente al naturale e al sovrannaturale. In assenza di una visione manichea della vita, il pensiero si sviluppava libero dalle regole della logica, libero dal principio di non-contraddizione, perciò era in grado di collocarsi in un contesto cosmico, in un punto fisso, il Centro del Mondo. In tale contesto tutto è e non-è simultaneamente; passato, presente e futuro coincidono. In questo stato mentale primitivo il sacro si rivela e turba l’animo umano, attraendolo e respingendolo, affascinandolo e spaventandolo.
Mircea Eliade scriveva che “il sacro è saturo d’essere”. Solo l’essere è sacro, è cifra dell’esistenza.
Il profano non può far parte dell’essere. L’essere è ciò a cui l’individuo tende, ciò di cui si va alla ricerca, per tutta la vita.
La rivelazione del sacro, per coloro che oggi ancora lo cercano, può dare la nausea. Quando si avverte ad un livello pre-razionale il non-senso dell’esistenza e si ha la certezza dell’ineffabilità del sacro, sovviene un senso di spaesamento nauseante. Si barcolla come dopo un pugno in faccia.
La maggioranza delle persone oggi fa a meno del sacro: si fugge dalla sensazione di nausea che sballotta la mente e ci si nasconde al centro commerciale, il nuovo ‘centro del mondo’, il tempio del consumo.

Tuttavia capita ancora di incontrare persone nei boschi che osservano le cime degli alberi, ne toccano i tronchi e godono del silenzio, dell’immensità e della sacralità della natura.


                                 AM


Nuova Yalta

Nell'ombra delle grandi manovre geopolitiche contemporanee, si profila uno scenario che ricorda la storica Conferenza di Yalta del 1945, ma con coordinate radicalmente diverse. Questa volta, l'oggetto della spartizione non è più il destino dell'Europa uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, bensì l'Europa stessa come entità geopolitica e strategica.

L'asse USA-BRICS sembra essere sempre più un tavolo di negoziazione dove vengono ridisegnati gli equilibri planetari. L'Europa, lungi dall'essere un attore protagonista, si sta trasformando nel principale terreno di confronto e compromesso tra le nuove potenze globali.

Da un lato abbiamo gli Stati Uniti che, consapevoli del proprio declino egemonico, cercano di preservare influenza e alleanze strategiche. L'Europa per loro rappresenta ancora un avamposto geopolitico cruciale, un baluardo contro la Russia e la crescente influenza cinese.

Dall’altro i Brics, un blocco sempre più coeso che include Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. Questi paesi mirano a scardinare l'ordine internazionale guidato dall'Occidente, costruendo alleanze alternative e sfidando l'egemonia statunitense.

E poi c’è l’Europa, sempre più frammentata e priva di una vera sovranità strategica. Essa è il campo di battaglia diplomatico e economico tra questi nuovi equilibri globali.

L'ipotesi di una "Nuova Yalta" si costruisce sui seguenti assi:

- Distacco Energetico: l'Europa viene progressivamente sganciata dalle forniture energetiche tradizionali, con nuove rotte che bypassano i suoi interessi.

- Marginalizzazione Strategica: perdita progressiva di peso politico e capacità decisionale autonoma.

- Frammentazione Interna: divisioni che indeboliscono la capacità di risposta collettiva.

Quello che si profila non è tanto un accordo formale, quanto un tacito rimodellamento degli spazi di influenza. L'Europa è sempre più relegata a un ruolo di "cuscinetto" tra le grandi potenze, con la sua sovranità progressivamente erosa. E con gli attuali vertici non può che assumere il ruolo di oggetto, più che soggetto, delle dinamiche geopolitiche globali.

La "Nuova Yalta" non è ancora scritta. Ma i primi capitoli sembrano già tracciati, con il ruolo dell'Europa nel mondo in via di ridefinizione.

Una situazione geopolitica complessa che solleva più domande di quante non fornisca risposte definitive.



Polarizzazioni

Opinioni polarizzate, tifo per fazioni, bianco o nero. Quando si cerca di analizzare questioni complesse con imparzialità arrivano a flotte i "ma voi da che parte state?" Questo accade soprattutto perché l'appartenenza a gruppi ideologici definiti viene premiata, mentre il pensiero indipendente genera sospetto ("gatekeeper"!). È comprensibile, la comodità di identificarsi con una fazione definita è fonte di sicurezza emotiva e senso di identità condivisa, ma il potere prospera su queste dinamiche di fazioni contrapposte. Chi sceglie l'autonomia intellettuale, osservando criticamente la realtà senza aderire a posizioni preconfezionate, non viene visto di buon occhio, egli minaccia l'ordine stabilito del dibattito polarizzato. Chi cerca di comprendere a fondo le questioni non urla slogan, non si schiera aprioristicamente, ma prima osserva, studia, riflette e valuta. Questo è un modus operandi malvisto, che mal si concilia con le logiche di appartenenza organizzata, ne abbiamo fatto esperienza negli anni. Siamo convinti che la libertà del pensiero individuale e non l'affiliazione a strutture che perseguono primariamente il potere sia un segno di onestà verso se stessi. Meglio essere guardati con sospetto piuttosto che bearsi della comoda appartenenza ad un collettivo. Si rimane ai margini, ma i benefici sono impagabili. 



Resilienza

Resilienza: la parola feticcio dei nostri tempi, il mantra delle conferenze manageriali, il termine magico che trasforma l'oppressione in opportunità. Ci hanno convinto che essere "resilienti" sia la virtù suprema. La resilienza è diventata la foglia di fico perfetta per un sistema economico e sociale che scarica sugli individui responsabilità collettive. 

La resilienza nasce come concetto scientifico che descrive la capacità di un materiale di assorbire urti senza spezzarsi. In psicologia, indica la capacità di affrontare e superare eventi traumatici. Un concetto utile, legittimo. Ma cosa in cosa è stata trasformata oggi? In un imperativo morale, uno strumento retorico che colpevolizza chi non "rimbalza" abbastanza velocemente dalle difficoltà. "Sii resiliente!" è diventato il modo elegante per dire "arrangiati" e "non lamentarti". È il complemento perfetto a un'epoca di precarietà e incertezza Lavoro instabile? Sii resiliente. Stipendio inadeguato? Opportunità per dimostrare resilienza. Stress? Ti manca la resilienza. Questo abuso ha trasformato un concetto potenzialmente utile in uno strumento di controllo sociale. Non è più una qualità personale, ma un obbligo, un nuovo standard di produttività emotiva. La retorica della resilienza opera un ribaltamento perverso: trasforma problemi strutturali in deficit individuali. Se non riesci a sopravvivere in un sistema economico predatorio, il problema sei tu, la tua insufficiente resilienza. Anziché interrogarsi su come cambiare sistemi malati, ci si concentra su come adattarsi meglio ad essi. La resilienza diventa complice del mantenimento dello status quo. Si glorifica dunque la capacità di sopportare condizioni insostenibili, ma noi non siamo materiali da testare fino al punto di rottura. 

Diffidate di chi usa questo termine, la vera forza non sta nel piegarsi senza spezzarsi, ma nel dire "basta" quando è necessario. Non sta nell'adattarsi a sistemi ingiusti, ma nel cambiarli. 



Il nichilismo del divano

Nietzsche insegnò che il nichilismo è lo svuotamento di significato di tutti i valori. Ma quello che osserviamo oggi è qualcosa di profondamente diverso dal nichilismo storico: è un vuoto che non cerca di riempirsi, una negazione che non aspira a diventare affermazione.

I movimenti nichilisti del passato bruciavano di passione negativa, di una volontà di annullamento che, paradossalmente, era essa stessa una forma di vitalità. Era un nichilismo che gridava "no" per far emergere un "sì" nascosto, che distruggeva per ricostruire. Era, in fondo, un nichilismo romantico.

Oggi ci troviamo di fronte ad un nichilismo che non ha nemmeno l'energia di negare attivamente. È un vuoto che si è fatto comfort, un'assenza che non cerca presenza.

È un nichilismo che non cerca redenzione perché non crede di averne bisogno. Non cerca riscatto perché non percepisce di essere caduto. È uno stato di quiete artificiale, un limbo digitale dove il significato non viene violentemente negato, ma dolcemente dimenticato.

Quando il vuoto diventa così comodo, quando l'assenza di significato diventa essa stessa insostenibile nella sua banalità, ecco che potrebbe nascere un nuovo desiderio di autenticità.

Non ci sarà una rivoluzione rumorosa, non ci saranno manifesti o barricate. Ma chissà, forse, nel silenzio di una stanza illuminata solo dalla luce blu di uno schermo, qualcuno alzerà lo sguardo e si chiederà se c'è qualcosa oltre il comfort del nulla. E in quella domanda, per quanto flebile, potrebbe nascere una nuova forma di resistenza.




Il controllo dei giovani

 “In alcuni luoghi i bambini erano praticamente rapiti per essere condotti a forza nelle scuole federali, i loro capelli venivano tagliati, i loro vestiti gettati via ed era loro proibito parlare nella propria lingua. I bambini erano tenuti a scuola in continuazione, anno dopo anno, al fine di neutralizzare l’influenza delle loro famiglie.”


Questo è quanto si legge nell’opera “Infanzia e società” di Erik Erikson, pubblicata nel 1950. Il celebre psicoanalista si riferisce ai bambini Dakota, sottotribù dei Sioux, ai quali fino agli anni ’20 venne imposta un’educazione bianca per sradicarli dalle proprie famiglie e così, dalla propria cultura. Queste parole oggi suonano molto sinistre, soprattutto a coloro abituati a ravvisare analogie tra il passato ed il presente.
Dal 2001 esiste l’associazione TreeLLLe, con sede a Genova, che ha come obiettivo realizzare una “società dell’apprendimento permanente”. Le strategie per farlo, come dichiarava il presidente dell’ente nel 2019 sulle pagine del Corriere della Sera, occorre “affidare i bambini alla scuola il più precocemente possibile, nell’età in cui si forma il linguaggio e si strutturano i comportamenti sociali, almeno fin dai tre anni (…) così da ridurre al minimo i condizionamenti socio-culturali negativi.”

L’educazione infantile ha effetti determinanti e durevoli sulla concezione del mondo e sullo sviluppo del senso di identità del bambino, pertanto dovrebbe essere in primis compito della famiglia. Il ruolo della scuola arriva in un momento successivo, e di certo non con il fine di controllare l’apprendimento del linguaggio e la strutturazione dei comportamenti sociali. Un bambino sottratto troppo precocemente alle cure parentali ed affidato a un istituto, non potrà che ricevere un’educazione standardizzata che lo renderà un individuo conformista. Ed è proprio questo lo scopo della scuola di oggi, un’istituzione che è il prolungamento di un impianto politico sorvegliante e subdolo, che attraverso spinte gentili (sfrutta infatti il nudging, una tecnica pensata nell’ambito dell’economia comportamentale) induce cambiamenti sociali.  Associazioni no-profit (finanziate da banche, ovvio) che collaborano con lo Stato per offrire un’istruzione di qualità e sollevare le famiglie dal pesante fardello della cura dei figli: ci pensano loro a “ridurre al minimo i condizionamenti socio-culturali negativi”. Quali essi siano, naturalmente, è deciso da loro. Possiamo però immaginare quali condizionamenti da eliminare compaiono nelle loro griglie di osservazione dell’infante: autonomia di pensiero, spirito di iniziativa e di ribellione, pensiero divergente, senso di appartenenza. Per plasmare la società è fondamentale intervenire nella scuola e non basta più, come un tempo, dare un certo taglio ai libri di testo, formare insegnanti mediocri e proni al sistema o peggio, chiedere loro atti di fede (come iniettarsi il siero per continuare a lavorare), l’obiettivo è che non appena un bambino pronuncia la prima parola, sia affidato all’istituto che provvederà a insegnargli quella neolingua che atrofizzerà il pensiero e lo piegherà alle esigenze della società.


                                                  AM

Intuizioni filosofiche

Incontriamo talvolta individui che sembrano possedere una forma di saggezza che sfugge ai tradizionali parametri dell'analisi filosofica. Questi individui, pur non avendo una formazione filosofica formale o non mostrando particolare inclinazione verso il ragionamento analitico strutturato, riescono comunque a giungere a profonde intuizioni sulla natura della realtà e dell'esistenza umana.

Queste persone rappresentano un affascinante paradosso: mentre il loro cervello sembra "rifiutare" attivamente le complesse strutture del pensiero filosofico formale, possiedono una sorta di "bussola interiore" che li guida verso le stesse verità che i filosofi raggiungono attraverso elaborate catene di ragionamento. È come se avessero accesso a un tipo diverso di conoscenza, una forma di comprensione che bypassa completamente i meccanismi del pensiero analitico.

Molte di queste persone possiedono un'elevata intelligenza emotiva che permette loro di cogliere verità profonde attraverso l'empatia e la connessione con gli altri, piuttosto che attraverso il ragionamento astratto. Essi potrebbero attingere, consciamente o inconsciamente, da una forma di saggezza collettiva tramandata attraverso generazioni, incorporata nella cultura e nelle tradizioni.

Questa forma di comprensione intuitiva non è meno valida del ragionamento filosofico formale. Essa rappresenta un modo complementare e ugualmente importante di accedere alla verità. In alcuni casi, potrebbe essere addirittura più efficace, in quanto non è limitata dai vincoli del linguaggio formale, opera a un livello più profondo e immediato, è meno soggetta ai pregiudizi intellettuali e può cogliere verità che sfuggono all'analisi razionale.

Osservando questo fenomeno bisogna riconsiderare il rapporto tra razionalità e intuizione nella ricerca della verità. Non si tratta di privilegiare un approccio sull'altro, ma di riconoscere che esistono multiple vie per giungere alla comprensione filosofica. La coesistenza di questi due approcci suggerisce che la verità filosofica possa essere accessibile sia attraverso un percorso razionale-analitico della filosofia tradizionale, sia da un percorso intuitivo naturale.

La capacità di comprendere le verità profonde dell'esistenza non è monopolio del pensiero razionale strutturato. La presenza di individui che "trascendono" la filosofia formale pur giungendo alle sue stesse conclusioni lo dimostra.



Vocazione

C'è una voce che ci segue fin dall'infanzia. All'inizio è impercettibile, la sentiamo nei momenti più inaspettati: mentre osserviamo il tramonto, durante l' ascolto di un brano musicale, quando ci perdiamo tra le pagine di un libro o nell'istante in cui le mani creano qualcosa che non sapevamo di poter realizzare. Crescendo, proviamo a soffocarla sotto strati di pragmatismo e aspettative altrui. La copriamo con scuse ragionevoli, la nascondiamo dietro scelte più sicure. A volte la perdiamo di vista per anni, convincendoci che era solo un'illusione giovanile. Ma lei resta lì, come un fiume che scorre silenzioso sotto la superficie della nostra esistenza. Può sembrare scomparsa, ma continua il suo corso, fino a quando non trova una via per tornare alla luce. Non importa quante volte cambiamo strada o quanto lontano cerchiamo di fuggire: prima o poi tornerà. Il giorno che la smettiamo di resistere, scopriamo che era lì ad aspettarci da sempre. Non aveva mai smesso di credere in noi, anche quando noi stessi avevamo smesso di farlo. Perché quella voce - chiamiamola vocazione o semplicemente verità - è la bussola che indica la strada verso casa. Non verso un luogo fisico, ma verso noi stessi. Verso ciò che, nel profondo, sappiamo di essere sempre stati.




La generazione del dovere

I genitori nati tra il ’40 e il ’60 sono stati figli della necessità, cresciuti nell'ombra delle privazioni del dopoguerra o nelle ristrettezze economiche degli anni successivi. La loro formazione emotiva era stata forgiata da un imperativo categorico: sopravvivere, mantenere, provvedere. Il concetto di realizzazione personale era un lusso che non potevano permettersi di contemplare, figuriamoci di insegnare. Questi genitori hanno costruito le loro vite intorno a un'architettura rigida di doveri sociali. Il lavoro era la colonna portante, la famiglia l'edificio da preservare a ogni costo. Ma spesso questa solidità strutturale nascondeva una fragilità emotiva mai affrontata, un analfabetismo sentimentale tramandato di generazione in generazione. Non era malevolenza, la loro. Era piuttosto una forma di miopia emotiva, un'incapacità di vedere oltre il paradigma della sussistenza materiale. Mentre si preoccupavano di riempire i piatti e pagare le bollette, non avevano gli strumenti per nutrire i sogni dei loro figli, per riconoscere e coltivare i loro talenti nascenti. Le conversazioni a tavola ruotavano intorno alle preoccupazioni quotidiane, ai conti da far quadrare, alle necessità pratiche. Le aspirazioni creative, le inclinazioni artistiche, le vocazioni non convenzionali venivano spesso liquidate come fantasie improduttive, capricci da accantonare in nome del "posto fisso" e della stabilità economica. Quanti potenziali artisti sono stati dirottati verso impieghi "sicuri"? Quanti scrittori hanno riposto la penna nel cassetto? Quanti musicisti hanno smesso di suonare? Quanti sportivi hanno tralasciato la loro vocazione? Non per cattiveria dei genitori, ma per la loro incapacità di concepire un mondo diverso da quello che conoscevano, un mondo dove la realizzazione personale potesse coesistere con la sicurezza economica.

Questa generazione di genitori ha lasciato un'eredità complessa: da un lato, ha fornito delle basi materiali per poter realizzare qualcosa di più rispetto a quanto loro abbiano potuto fare; dall'altro, ha trasmesso ferite invisibili, silenzi emotivi che ancora oggi molti stanno imparando a colmare. La loro era una forma di amore pratico, tangibile, misurabile in sacrifici e rinunce. Un amore che sapeva come mettere il pane in tavola ma non come nutrire l'anima. Un amore che costruiva tetti sotto cui ripararsi ma non sapeva come proteggere i sogni.

Oggi, molti di quei figli incompresi sono diventati genitori a loro volta, portando con sé la consapevolezza di queste mancanze. La sfida per loro è duplice: guarire le proprie ferite mentre cercano di non ripetere gli stessi schemi con i propri figli, imparando ad ascoltare non solo i bisogni materiali ma anche quelli emotivi e spirituali delle nuove generazioni. È un processo di evoluzione generazionale, dove il riconoscimento di ciò che è mancato diventa il primo passo per costruire qualcosa di nuovo. Non si tratta di giudicare quella generazione di genitori, ma di comprendere il contesto storico e sociale che li ha plasmati, per poter trascendere quei limiti e creare nuovi modelli di genitorialità più consapevoli e completi.




"Psicologia delle minoranze attive" di Serge Moscovici

In un'epoca in cui si parla spesso di possibili cambiamenti sociali, "Psicologia delle minoranze attive" di Serge Moscovici del1976 risulta una lettura straordinariamente attuala.

Quest'opera rovescia la tradizionale concezione dell'influenza sociale, offrendo una prospettiva rivoluzionaria sul ruolo delle minoranze nel processo di trasformazione della società.

Moscovici sfida la visione convenzionale secondo cui le minoranze sarebbero destinate a conformarsi passivamente alla maggioranza. Al contrario, dimostra come piccoli gruppi di individui, attraverso la loro coerenza comportamentale e la capacità di proporre alternative valide, possano diventare potenti agenti di cambiamento sociale.

L'autore sviluppa il concetto di "influenza minoritaria", evidenziando come le minoranze attive, attraverso stili comportamentali specifici come la consistenza e la perseveranza, possano influenzare la maggioranza e catalizzare significative trasformazioni sociali.

La lettura di quest'opera è importante per comprendere i meccanismi del cambiamento sociale, per acquisire strumenti teorici di analisi dei movimenti sociali contemporanei, per riflettere sul proprio ruolo come potenziale agente di cambiamento e sviluppare una comprensione più profonda delle dinamiche di influenza sociale.

"Psicologia delle minoranze attive" non è solo un classico della psicologia sociale, ma uno strumento incisivo per interpretare il presente. In un mondo caratterizzato da sfide globali sempre più complesse, la comprensione dei meccanismi attraverso cui le minoranze possono catalizzare il cambiamento sociale diventa cruciale per chiunque voglia contribuire attivamente alla trasformazione della società.

La lettura di quest'opera ci ricorda che il cambiamento sociale non è necessariamente il risultato di maggioranze numeriche, ma può nascere dall'azione coerente e determinata di piccoli gruppi di individui impegnati. Un messaggio che risuona con particolare forza nell'attuale panorama sociale e politico.



"Altissima povertà" di Giorgio Agamben

"Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita" è un'opera importante di Giorgio Agamben, pubblicata nel 2011.

Il testo esplora il monachesimo occidentale come laboratorio in cui si è sviluppata una peculiare concezione della vita in relazione alla regola e alla legge.

Nel monastero, ogni aspetto dell'esistenza - dal mangiare al pregare, dal lavorare al dormire - è parte di una liturgia totale. Questa concezione rappresenta un tentativo di superare la distinzione tra vita e norma, tra essere e dover-essere.

L'autore esplora il rapporto particolare che i monaci instaurano con la regola monastica. Non si tratta di una semplice normativa giuridica, ma di qualcosa che deve essere "vissuto" più che "applicato". La regola monastica non è una legge esterna che si impone alla vita, ma una forma che la vita stessa assume.

L'opera analizza la povertà non come semplice rinuncia ai beni materiali, ma come forma di vita che mette in questione il diritto stesso di proprietà e le strutture giuridiche occidentali. La "altissima povertà" dei francescani diventa così un paradigma di resistenza al potere costituito.

Il testo di Agamben risulta particolarmente attuale perché offre strumenti per ripensare il rapporto tra vita e norme in un'epoca di crescente giuridificazione dell'esistenza e perché suggerisce forme di resistenza al biopotere contemporaneo attraverso la creazione di forme-di-vita alternative.

L'opera si caratterizza per un'attenta analisi filologica dei testi monastici medievali, un dialogo costante tra filosofia, diritto e teologia. Trattasi di una scrittura densa ma precisa, che richiede una lettura molto attenta, utile per ripensare il rapporto tra vita e norme e per soffermarsi sui temi della resistenza al potere e delle forme di vita alternative.

In definitiva "Altissima povertà" non è una lettura semplice, ma offre strumenti preziosi per ripensare alcuni dei nodi fondamentali della nostra contemporaneità attraverso un'originale rilettura della tradizione monastica occidentale.




"Non guardo la tv!"

"Non guardo la TV!" - quante volte abbiamo sentito questa frase, magari pronunciata mentre si scorre compulsivamente il feed di Instagram o TikTok? È diventato quasi uno status symbol dichiarare di non possedere un televisore o di non guardare programmi TV, come se questo rendesse automaticamente più intelligenti o culturalmente superiori. Ma cosa si sta realmente facendo quando si passano ore a guardare reel e short video sui social media? La verità è che si è semplicemente sostituito uno schermo con un altro, e non per il meglio. I contenuti televisivi sono migrati sulle piattaforme social, frammentati in clip di pochi secondi, mescolati con altri contenuti in un flusso infinito e algoritmicamente ottimizzato per mantenere incollati allo smartphone.

Si racconta che i social media sono diversi dalla TV perché "scegliamo noi cosa guardare" e "possiamo smettere quando vogliamo". Ma è davvero così? Gli algoritmi dei social media sono progettati specificamente per creare dipendenza, sfruttando il meccanismo della ricompensa variabile, la personalizzazione estrema dei contenuti, il formato breve che ci fa pensare "solo un altro video" e l'autoplay che elimina la necessità di scelte attive.

La TV tradizionale, con la sua programmazione fissa e le sue pause pubblicitarie, dava paradossalmente più controllo: si sapeva quando un programma iniziava e finiva, e c'erano naturali momenti di stacco.

L'ironia è che mentre ci si bea di essersi "liberati" dalla TV, si è diventati più dipendenti che mai dai contenuti video. La differenza? La TV la si poteva guardare o non guardare consapevolmente, dedicandole un tempo specifico. I social media invece accompagnano ovunque, si infiltrano in ogni momento libero, tengono svegli la notte con la promessa di "solo un altro scroll".

Bisogna essere onesti, in primis con noi stessi e riconoscere che il consumo passivo di contenuti esiste sia sulla TV che sui social e che la dipendenza da social media è dieci volte più insidiosa di quella televisiva.

Forse è il momento di smettere di vantarsi di "non guardare la TV" e iniziare invece a riflettere criticamente su come vengono consumati i contenuti digitali, qualunque sia la piattaforma.




Manipolazioni e marketing

Psicologia e marketing

Siete interessati ad un corso di formazione? Probabilmente avrete a che fare con la psicologia del marketing, uno strumento predatorio, utilizzato per manipolare le persone.

Di base esiste il marketing aggressivo, esso è costruito su diverse tecniche manipolative che sfruttano le vulnerabilità psicologiche delle persone. Funziona a grandi linee così: in primis viene proclamata una falsa urgenza. I venditori creano artificialmente un senso di urgenza: "L'offerta scade oggi!", "Solo gli ultimi posti disponibili!", quando in realtà non c'è alcuna vera scadenza. Questo spinge le persone a decisioni impulsive basate sulla paura di perdere un'opportunità. Una tattica particolarmente subdola è poi quella di far sentire inadeguati o indecisi coloro che vogliono prendersi del tempo per riflettere. Frasi come "I vincenti decidono subito" o "Vedo che non hai abbastanza ambizione" sono progettate per manipolare. Inoltre troviamo l'utilizzo della PNL ( Programmazione Neuro-Linguistica) per condizionare le persone. Senza scrupoli, si utilizzano tecniche di linguaggio per creare una falsa sensazione di fiducia e poi sfruttarla a proprio vantaggio.

Alcuni tra i segnali più evidenti per riconoscere le manipolazioni base del marketing sono dunque la pressione eccessiva per decisioni immediate, l'uso di tattiche che fanno leva su paure e insicurezze, la riluttanza a fornire tempo per riflettere.

La psicologia è sempre più strumento a servizio di manipolazione e profitto. I manipolatori sono ovunque: sui social media, nei corsi di formazione, nelle vendite dirette o tra i cosiddetti "guru" dello sviluppo personale. La pseudo-psicologia dei manipolatori non ha trasparenza, serve solo a svuotare le tasche. Chi usa parole come "empowerment", "crescita personale" o "successo garantito" mentre cerca di mettere fretta o far sentire inadeguati, è un truffatore. In un mondo dove la manipolazione psicologica diventa sempre più sofisticata, la migliore difesa è la consapevolezza e la conoscenza del "nemico". Chi ha davvero qualcosa di valore da offrire non ha bisogno di manipolare per convincere, essi sono solo predatori travestiti da mentori.


Nuove manipolazioni

Negli ultimi decenni il marketing moderno, a braccetto con la psicologia, si è ulteriormente evoluto ed ha raffinato la manipolazione. Dopo anni di ricerche comportamentali attraverso social e algoritmi, non si spinge più tutti verso lo stesso imbuto, ma si cercano di creare percorsi personalizzati. Per fare questo c'è una profilazione di tipi psicologici. Ad esempio per i razionali-analitici vi saranno modalità differenti rispetto agli emotivi-intuitivi o ai ponderati-conservativi. Ci sono studi su studi basati sui dati dalle navigazioni online, sulle interazioni sui social, su dati comportamentali e risposte agli stimoli. Questi dati vengono usati per personalizzare le manipolazioni. Le tecniche più avanzate sono quelle che non vengono neppure percepite come marketing, per questo è necessario conoscerle per rendersi immuni. Non basta più guardarsi solo dalle tecniche base di cui accennavamo prima. Il marketing moderno è come un gas invisibile che permea ogni spazio digitale e sociale, non cerca più necessariamente di "forzare" una decisione, ma di rendere inevitabile una scelta attraverso la manipolazione dell'intero ambiente informativo e sociale dell'individuo.