L'incidente del Passo Dyatlov

L'incidente del Passo Dyatlov è uno dei misteri più fitti ed intriganti degli ultimi 70 anni.

Molti conoscono quello che accadde in quella remota zona degli Urali, nell'allora URSS, agi inizi del 1959.

Nove uomini, nove esploratori (sette maschi e due donne) tutti con profonda esperienza a livello di scalate, fanno una brutta fine.

Capitanati dall'esperto ventitreenne Igor Dyatlov, il gruppo intraprese una missione esplorativa nel gennaio appunto del 1959.

Improvvise condizioni meteo avverse, costrinsero, da quello che si capì successivamente ad una deviazione sul percorso iniziale e ad un accamparsi ai piedi di una montagna dal sinistro nome di "montagna morta".

Tardando il loro arrivo nel punto di incontro prestabilito, nel febbraio partirono le ricerche e quello che si trovarono di fronte i soccorritori ha dato vita alle teorie del mistero.

Molte domande che hanno sempre trovato incomplete risposte.

La tenda che ospitava i nove componenti della spedizione era squarciata dall'interno e i corpi degli occupanti lontani da essa.

Sparpagliati nei dintorni.

Dalle tracce si comprese che i ragazzi si erano allontanati non solo con passo normale ma anche che avevano lasciato gli indumenti e gli effetti personali all'interno della tenda.

A circa cinquecento metri si trovavano i resti di un fuoco dove vennero trovati due copri seminudi e senza scarpe.

Altri tre corpi nudi vennero trovati nei paraggi del bivacco morti congelati.

Solo qualche mese dopo, quando la neve aveva iniziato a sciogliersi, i soccorritori trovarono i corpi degli altri esploratori nel corso d'acqua lì vicino.

Alcuni di loro, da quello che si capì dalle autopsie, morirono di ipotermia mentre sui corpi dei ragazzi trovati nel fiume erano presenti lesioni profonde al cranio e alle costole.

A una donna mancava la lingua e gli occhi ma senza segni evidenti di una qualsiasi forma di lotta.

Nel campo base vennero trovate le foto del gruppo che faceva notare sui volti dei ragazzi un'ansia crescente negli ultimi giorni di vita oltre ad un'altra foto inquietante di una figura indefinita nel bosco adiacente alla radura.

Molte sono le ipotesi che sono state formulate nel corso del tempo inerente a questo "incidente".

L'indagine finale parlò come causa di morte di "una forza naturale irresistibile" e questa vaga conclusione lasciò tutti sbigottiti e insoddisfatti.

Da qui il sorgere di una miriade di ipotesi ma tutte non complete e che lasciano aperte ancora oggi molte voragini di spiegazione.

Ecco perché il caso del Passo Dyatlov resta ancora oggi un mistero inspiegato che affascina ma anche atterrisce.

Per chi voglia approfondire in modo TOTALE TUTTA LA VICENDA, si consiglia il libro di Keith Mc Closkey dettagliato e preciso sia a livello di cronaca, che di indagine e anche per quel che riguarda tutto il ventaglio di ipotesi sulla causa di morte dei nove esploratori.

Ad ognuno, a fine lettura, la propria e personale conclusione.


                                                     OC

Transizione digitale

Nella scuola si fa un gran parlare di digitalizzazione. Quando poi si legge il Piano Scuola 4.0, in cui sono previsti visori per la realtà aumentata (AR) e aule immersive, sembra veramente che la trasformazione della scuola sia imminente. Nel 2021 col Pnrr sono stati destinati 800 milioni di euro per “promuovere un sistema di sviluppo della didattica digitale e di formazione del personale scolastico sulla transizione digitale”. Da quel momento nelle circolari, ai collegi docenti e nei corsi di formazione per gli insegnanti si fanno riferimenti spasmodici all’utilità dell’IA. Un vero e proprio lavaggio del cervello per convincere dell’ineludibilità della didattica digitale. Gli alunni, già alle medie, fanno corsi di coding e vengono pubblicati volumi intitolati “Lavorare sul genere a scuola con coding e robotica educativa” scritti da due ricercatrici di Indire (Istituto Nazionale Documentazione, Innovazione, Ricerca Educativa).
Le pressioni affinché la scuola cambi, sotto molteplici punti di vista, provengono dai tentacoli di vari enti privati, tra cui proprio Indire – sovvenzionato da associazioni private – che gestisce le prove Invalsi, i programmi di mobilità all’estero Erasmus+ ed i programmi di formazione per docenti e studenti. Questi enti che si nascondono dietro acronimi impossibili da decifrare sono una commistione di soggetti e di partecipazioni pubbliche e private così ingarbugliate che servirebbe un gruppo di detective per decriptare la trama del sistema. Solo per citarne una: il Direttore Generale di Indire è anche Presidente dell’Università Telematica degli Studi IUL. Ci sarà per caso conflitto di interessi?
Nonostante sembri che sia stata messa in moto una macchina che non lascia scampo all’umano carisma che caratterizza ancora alcuni docenti, i sistemi di IA da applicare alla didattica sono ancora molto indietro. Gli stessi informatici coinvolti nei progetti di HCI (Human Computer Interaction) affermano che si è ancora distanti dal riuscire a replicare a livello robotico le capacità percettive ed interattive dell’essere umano. Al momento l’IA non è in grado di classificare, trovare pattern e mappare grandi quantità di dati senza un grosso dispendio di energia. I vari progetti di transizione digitale della scuola stanno sicuramente generando profitti per alcuni sinistri soggetti e mensilità extra per alcuni docenti servi del sistema, ma per il momento, fortunatamente, il risultato concreto è un nulla di fatto.


                                                   AM

                                                  

La magia di "Nuovo Cinema paradiso"

 "Anche se il tempo passava, in tutte le donne che incontravo ho cercato solo te"

"Nuovo Cinema Paradiso" di Giuseppe Tornatore è un film che ebbe un debutto fallimentare ma che è diventato negli anni un classico del cinema.

Quello di "Nuovo Cinema Paradiso" è stato un percorso unico e meraviglioso, un film dato praticamente per spacciato alla sua uscita il 17 novembre del 1988.

Accolto timidamente l’anno successivo però al Festival di Cannes ottenne il Grand Prix Speciale della Giuria e l'anno dopo ancora ottenne l’ambito Oscar come miglior film straniero fino a diventare un classico del cinema mondiale.

"Nuovo Cinema Paradiso" è film che parla del passato e di un passato che si proietta nel presente.

È un film che affonda le radici nei ricordi ed in un passato di provincia semplice legato allo scorrere naturale delle cose.

Ovviamente non poteva mancare la musica del maestro Morricone che non funge solo da semplice accompagnamento agli episodi del film ma che restituisce allo spettatore l’esatta essenza della struggente vita del protagonista.

Il film non è una celebrazione nostalgica dell’arte cinematografica in senso stretto, si tratta un’autobiografia sognata attraverso il cinema stesso.

Il "luogo" principale" della narrazione è certo il cinema, sia quello fisco (la sala) che le emozioni delle proiezioni, ma poi, altra componente basilare, è l'essenza stessa di una società che riprendeva a sognare dopo la guerra.

Il cinema quindi inteso non semplicemente come svago ma come formatore della memoria collettiva.

E poi, nella seconda parte ecco irrompere l'altro elemento centrale: il ricordo.

Quel ricordo che non sbiadisce mai.

Quel qualcosa che si può accantonare in un angolo ma che mai diventa dimenticanza.

Un ricordo che è radicalità, identità, essenza e profumo.

"Nuovo Cinema Paradiso" è una vera e propria metafora di epoche che cambiano e che partendo da un posto sperduto si proiettano e sovrappongono sul mondo intero.

Basandosi sul concetto di tempo.

C’è il divenire ma anche l’assenza nel film di Tornatore.

Perché se il tempo non esiste, le vite delle persone e le idee potranno sempre incontrarsi.

Basta la magia dell’amore come dice Alfredo al piccolo Totò: "Qualunque cosa farai, amala, come amavi la cabina del Paradiso quando eri picciriddu"

Il messaggio di "Nuovo Cinema Paradiso" è un messaggio di nostalgia e di speranza.

Quella cosa che si è persa perché abbiamo abdicato alla "costruzione" delle passioni.

Che siano quelle legate ai rapporti comunitari o ai grandi amori del passato che non vengono mai dimenticati.

"Nuovo Cinema Paradiso" è uno di quei film che restano impressi nel cuore dello spettatore per tutta la vita.

Un cinema non fatto di calcoli e perfezione ma di emozioni forti. Un’ indelebile inno alla vita, ai legami e all’amore.

Alle cose che mai finiscono e che vengono condensate nella visione finale in cui la splendida avventura della vita, con tutto il suo carico di ricordi avvolgenti e di dolori insanabili, ci viene mostrata in quei baci finali proiettati sullo schermo a cui non possono sottrarsi le lacrime.


                                                OC

Momenti

Un tempo scattare una foto di famiglia, col partner, ai figli, era l'immortalare di momenti che sarebbero valsi come ricordi da sfogliare negli anni con i propri cari.

Con l'avvento dei social network si è capovolto tutto, non più una delicata funzione di eternare attimi ma una ricerca compulsiva di approvazione.

Si punta il dito sui giovani ma a noi pare che le generazioni più "vecchie" siano quelle messe peggio da questo punto di vista.

Leggiamo cose davvero imbarazzanti, coppie che vivono sotto lo stesso tetto farsi i complimenti e dialogare sui social, per mostrare al prossimo quanto sono bravi e affiatati.

Bambini spiattellati ovunque, foto di famiglia di ogni tipo e in generale condivisione costante della propria vita quotidiana sui social media che non può che riflettere problematiche interiori.

Questa continua esposizione della propria vita privata spesso maschera disagi, solitudine, ansia e depressione.

Pertanto invece di commentare sempre sotto le foto di questi soggetti "ma che bella famiglia che siete", "che bel bambino", "che bravi!", o peggio finire nei vortici dell'invidia per la finta felicità altrui, se siete loro amici piuttosto fategli comprendere che tutto ciò non è sano.

Basta esporre se stessi su questa immondizia digitale, alienante e finta.

La vita è altrove.




Anacronismo

Da un lato si parla delle grandi potenzialità dell'intelligenza artificiale che, parliamoci chiaro, potrebbe già ora sostituire gran parte dei lavori umani, dall’altro però non si molla il modello tradizionale di lavoro di otto ore al giorno con l'età pensionabile a 70 anni.

Regole pensate in una società totalmente diversa, continuano incredibilmente a persistere, sembrano tutti ipnotizzati.

Costoro parlano ancora di lotte sindacali, di orari di lavoro, di INPS, senza rendersi conto del punto in cui siamo e senza capire che i sistemi di previdenza sociale in auge sono stati progettati attorno a un modello di lavoro tradizionale per una società totalmente differente.

Invece di sedersi seriamente a un tavolo e prendere atto che il modello delle otto ore, delle pensioni dopo 40 anni è una roba completamente anacronistica, continuano a fare tira e molla, lo smart working non va bene, il giorno in meno a settimana è troppo, alziamo l’età pensionabile a 80 anni ecc ecc

Ma questi ci sono o ci fanno? Domanda retorica, ovviamente.

Bisogna cambiare immediatamente la percezione del lavoro e del tempo libero, questo può avvenire solo attraverso un cambiamento culturale profondo che sradichi concezioni obsolete, ormai insostenibili.

Vanno abbattute tutte quelle barriere sociali, economiche e culturali che rendono difficile una transizione rapida a nuovi modelli di lavoro e pensionamento.

Basta ipocrisia. Si affronti la realtà seriamente, che piaccia o non piaccia le regole vanno totalmente rifondate.

 



Elettrodomestici moderni

Oggi acquistare un elettrodomestico significa mettere in preventivo che dopo pochi anni bisogna comunque cambiarlo.

Li progettano così, la chiamano "obsolescenza programmata", ovvero fare durare i nuovi prodotti solo qualche anno.

Di recente osservavamo un frigorifero di 30 anni, funziona ancora alla grande senza dare alcun segno di cedimento. Oggi non è più possibile trovare apparecchi simili.

Per ridurre i costi di produzione, utilizzano materiali scadenti, per esempio plasticacce sottili e componenti elettronici di bassa qualità.

Non importa se si spendono 2000 o 200 per una lavatrice, tanto dopo qualche anno bisognerà sostituirla.

C'è poi la questione delle classi energetiche per cui si consuma meno a discapito della durata del prodotto. Poi certo, c'è anche il discorso della complessità tecnologica, poiché gli elettrodomestici moderni hanno funzioni sempre più avanzate (spesso inutili) che possono fare aumentare il rischio di guasti ma in realtà dietro tutto c'è solo la grande cultura del consumismo che punta a "stimolare" il mercato.

Si promuovono prodotti costosissimi (in comode rate, per indebitare perennemente la gente) da "cambiare" ripetutamente nel corso di pochi anni.

La riparazione? Non serve più. Bisogna buttare e riacquistare, d'altronde c'è a disposizione il nuovo elettrodomestico che canta, rutta, scoreggia e balla ed ha una classe energetica alta!

A che serve riparare quell'obsoleto prodotto acquistato giusto qualche anno fa?

"Produci, consuma, crepa".




La rivoluzione silenziosa indicata da Ivan Illich

"Esperti di troppo" di Ivan Illich è un libro da leggere, ci invita a ripensare il nostro rapporto con i cosiddetti “esperti”, con le istituzioni e con la tecnologia.

Illich propone una "deprofessionalizzazione", ovvero un recupero delle competenze da parte delle persone comuni poiché la professionalizzazione di vari settori, come la medicina (“Nemesi Medica”), l'educazione (“Descolarizzare la società”) e la tecnologia in generale ha causato una dipendenza da parte del popolo nei confronti degli “esperti”.

Perdendo competenze pratiche, le persone difatti diventano passive, delegando il controllo della propria vita agli “esperti”, ecco che allora Illich propone un ritorno a forme di conoscenza più decentralizzate e accessibili, che spiega dettagliatamente nel libro.

Per Illich vi è una necessità impellente di abbattere le barriere tra gli “esperti” e la popolazione, mettendo in discussione una società in cui il valore delle persone è misurato in base alle qualifiche.

Per il filosofo austriaco bisogna riscoprire competenze pratiche e conoscenze tradizionali, attraverso una istruzione basata su esperienze dirette.

La dipendenza dagli "esperti" sforna persone incapaci di risolvere problemi senza che intervengano questi ultimi, ecco che entra così in gioco il legame tra conoscenza e potere, poiché man mano che gli esperti guadagnano autorità, il potere decisionale si sposta sempre di più verso le loro istituzioni, creando un sistema in cui gli individui diventano impotenti.

Negli anni pandemici tra il 2020 e il 2023 abbiamo potuto vivere in prima persona i rischi di cui ci parlava Illich, nel momento in cui gli esperti dicevano al popolo le cose più astruse, dai caffè in piedi mascherati ma seduti no, alle scuole in maschera sui banchi, ai finestrini in auto, al divieto di sport, alla chiusura delle altalene dei bimbi, alla disinfestazione delle spiaggie e l’elenco sarebbe davvero lunghissimo. Cosa accadde? Esattamente impotenza da parte del popolo, quella di cui ci metteva in guardia Illich, “perché lo dicono gli esperti, sei per caso virologo tu?”.

Recuperare le sue opere oggi è necessario per riflettere sul significato dell'autonomia individuale e collettiva in un mondo sempre più mediato da esperti e tecnologie.

La "rivoluzione silenziosa", così la definiva Illich, avverrà quando le persone inizieranno a prendere coscienza della propria autonomia e a rifiutare la dipendenza dagli “esperti” in modo tale da resistere a forme di controllo che limitano la loro libertà.


 

La caduta del Muro di Berlino

Sono trascorsi 35 anni dalla caduta del Muro di Berlino.

Le immagini di quella notte del 9 novembre resteranno per sempre nella memoria.

Il muro che cade e i berlinesi dell'Est che passano ad Ovest attraverso il famoso Check Point Charlie, una città sommersa da una massa umana fatta di colori, emozioni, curiosità, frenesie, rivincite.

Berlino "città aperta", la disintegrazione della "Prussia rossa", le tavole di Yalta fatte a pezzi, la Storia che espugna il comunismo come una ipotetica Bastiglia e brucia i fantasmi del passato.

Perché la fine del Muro, che appunto simboleggiava la Guerra Fredda nella sua interezza, di questa cicatrice che tagliava in due l'Europa post bellica è un qualcosa che va al di là della mera rappresentazione storica.

Da lì a poco il signor Douglas Pearce intitolò un suo disco "cosa rimane quando i simboli si frantumano?".

Infatti, al di là della gioia per la fine di un oltraggio, chi sapeva guardare oltre il contingente si rese conto che il mondo non solo non sarebbe stato più lo stesso ma che si sarebbe trasformato in qualche cosa di solo apparentemente migliore.

Dando libero sfogo a quel capitalismo di matrice americana e senza un contrappeso a frenarne la diffusione, si sarebbero espanse ovunque le forze altrettanto o addirittura peggiori del socialismo reale.

Ne parlò profeticamente già Evola in un breve saggio del 1929 che vi invito a cercare e a leggere per chi non ne fosse a conoscenza.

Forze, quelle del capitalismo, che al contrario di quelle del bolscevismo sono più subdole, più latenti, ammantate di lustrini e neon luccicanti.

Queste forze negative, non avendo freni, avrebbero non solo ammaliato tutti ma avrebbero reso chiunque (o quasi) dei perfetti "schiavi felici".

Il modo in cui viviamo ORA è figlio di quel crollo e della fine di un equilibrio. Un mondo post nichilista, senza simboli, senza eroi, senza punti di riferimento, senza ideali ma solo con codici fiscali e codici a barre.

Questo sarà il nuovo muro da abbattere per le giovani generazioni europee.

Il muro del capitalismo transnazionale, del liberismo, del potere dei media, dell'atlantismo, della NATO, delle multinazionali del farmaco e del petrolio, dell'unione europea, della BCE, dei burocrati di Bruxelles, delle ONG, della sostituzione etnica, della cultura woke.

Per tutti gli altri ci sono Mentana, Formigli, Gruber, Fazio e la De Filippi.


OC

La vittoria di Trump

A differenza delle precedenti elezioni americane, sembra che questa volta vi siano stati, da parte dei supporter di Donald Trump, minori attese messianiche e un entusiasmo più pacato e realista nei confronti della vittoria del proprio fronte. I toni della sinistra, invece, sono stati come sempre drastici e scomposti, vagheggiando di catastrofi economiche e fine del mondo mentre saranno alle prese per mesi con la complicata elaborazione di una sconfitta per loro impensabile e incomprensibile. Detto questo, vorremmo chiedere agli uni e agli altri: cosa vi entusiasma di Trump? Che cosa vi terrorizza di Trump? Perchè nella sostanza, dal nostro punto di vista, realmente cambia ben poco. Che sia la forza del capitale transnazionale e smaterializzato a vincere, o quella del capitale dei gruppi di interesse nazionale e degli oligarchi, poca differenza fa: sono sempre due stadi del capitalismo avanzato che convergono quindi verso gli stessi obbiettivi, a breve o lungo termine. Perchè non esiste un capitalismo buono, ma solo uno spregiudicato e uno prudente. Da questo punto di vista, Trump non è una battuta d'arresto nei confronti del tentativo di instaurazione del sistema neoliberista occidentale su scala planetaria, ma solo un cambio di passo, una fase del suo consolidamento. Progressismo e conservatorismo sono due facce della stessa medaglia.




Pasquale Festa Campanile: nuove versioni della commedia all’italiana.

Pasquale Festa Campanile è stato uno tra i registi italiani che con il suo particolare stile ha contribuito alla storia di quel genere che ha caratterizzato il cinema italiano dalla fine degli anni Cinquanta: la commedia all’italiana.

La commedia all’italiana esplode proprio all’inizio di quel periodo di (apparente) prosperità che è stato definito come boom economico (1957-1963) e si pone come obiettivo quello di rappresentare la realtà di una società, quella Italiana, che nel mutare la sua economia stava mutando il suo stile di vita. La commedia all’italiana si pone l’obiettivo di narrare questa nuova realtà attraverso le virtù, ma soprattutto i vizi, degli italiani in una chiave ironica e con un tono agrodolce. Questo genere però prosegue ben oltre gli anni del boom e pian piano ingloba i nuovi mutamenti che la società italiana attraversa a vari livelli.

Il lavoro di Pasquale Festa Campanile si inserisce proprio in questo secondo periodo, e in particolare è dalla metà degli anni Sessanta che il regista sviluppa una sua personale versione della commedia all’italiana: il genere viene rivisitato in chiave erotica. Le sue commedie sono state definite del critico e storico cinematografico Gian Piero Brunetta come film dalla raffinata impaginazione tipica da riviste maschile. In generale, da un punto di vista dell’immagine, l’effetto patinato è effettivamente assicurato da costumi e set interni eleganti e modernissimi in linea con design e moda in voga dalla seconda metà degli anni Sessanta. Ma la variante erotica della commedia all’italiana di Festa Campanile spesso va oltre una semplice raffinatezza estetica volta ad attrarre il pubblico maschile, il regista infatti introduce personaggi femminili che non solo non mancano di classe, ma che soprattutto propongono sullo schermo modelli femminili differenti dal passato, per carattere, stile di vita, fisicità e abbigliamento. La raffinatezza di ambientazioni, costumi e narrazione serve al regista per precorrere sullo schermo temi per i tempi abbastanza scottanti perché legati ad una nuova libertà di costumi in campo sentimentale e sessuale; una libertà che ai tempi veniva vista dai più, dentro e fuori dal mondo del cinema, in maniera distorta. Per questo motivo Festa Campanile, come altri registi dell’epoca, deve scendere a compromessi per potere, ad esempio, raccontare la storia di una giovane italiana che segue un vento di liberazione dei costumi. Il compromesso sta nell’utilizzare un’attrice non italiana, per raccontare però la storia di una nuova generazione di italiane. Una scelta obbligata per tacitare la sempre presente ipocrisia della morale di tanto cinema italiano che preferiva che le sue attrici, soprattutto le più note, non venissero associate a questo nuovo stile di vita.

Un esempio tra le opere di Festa Campanile rappresentativo di questo stile e di tutte queste istanze è La Matriarca (1968), interpretato proprio da un’attrice non italiana, la francese Catherine Spaak. Il film narra la storia di una giovane e bella vedova, Mimmi, che dopo aver scoperto che il marito intratteneva diverse relazioni con altre donne, sperimentando con loro varie pratiche sessuali, decide di provare anche lei nuove esperienze. Mimmi però si avvia a queste esperienze in maniera quasi scientifica prendendo spunto dal libro Psychopatia Sexualis di Krafft-Hebing.

Questo testo è stato non soltanto il primo di carattere scientifico ad offrire un quadro di tutti i comportamenti sessuali secondo una analisi psicologica, ma aveva attirato l’attenzione di un più vasto pubblico perché trattava in maniera accademica, tra gli altri, temi come il sadomasochismo e il feticismo, pratiche ritenute fino ad allora semplici deviazioni. Festa Campanile, proprio grazie al suo stile patinato e all’ispirazione letterario-scientifica, fa affrontare tali pratiche alla sua raffinata protagonista senza mai dimostrare alcun pregiudizio. Il classico lieto fine, sebbene nello stile di Festa Campanile, c’è: Mimmi si risposa, ma il suo nuovo marito (Jean-Luis Trintignant) non è un uomo ancorato alla morale borghese e dichiara che l’unica cosa veramente rivoluzionaria è amare qualcuno.




                                                  MLS

Il fenomeno 883

In questi giorni lo sport preferito degli italiani è discutere della serie tv degli 883.

Da un lato abbiamo quelli che ne stanno facendo addirittura una analisi sociologica e politica tirando in ballo fasi del capitalismo, dall’altro chi snobba il fenomeno 883 con sprezzo.

A nostro parere non c’è da andare molto lontani con le riflessioni e il fatto che la serie tv sia così vista non stupisce, bastava andare a vedere in questi anni un concerto di Pezzali per rendersi conto dell’enorme seguito, soprattutto della generazione nata tra gli anni settanta e ottanta.

Trattasi di semplicissima nostalgia, poco altro. I quarantenni di oggi percepiscono in quelle melodie tutta una serie di ricordi degli anni della loro gioventù, a prescindere dal fatto che ai tempi li ascoltassero o meno, perché comunque quei brani facevano da sottofondo agli anni novanta, scandivano le giornate sia del rockettaro che del discotecaro.

Gli 883 sono stati il riflesso di una generazione che ha vissuto in un determinato periodo, una fotografia di giovani disillusi, senza alcuna posizione ideologica, senza alcuna idea da difendere, che ricercavano solamente quella spensieratezza adolescenziale fatta di bar e discoteche.

Ai tempi non esistevano ancora talent-show dal successo preconfezionato o social network, pertanto la loro popolarità di massa fu quanto meno genuina.

Trattasi di canzonette orecchiabili, talvolta anche piacevoli e Pezzali è un personaggio con una sua sincerità autobiografica.

L’unico motivo per cui c’è questo interesse attorno agli 883 è semplicemente la nostalgia di una generazione.

Gli 883 non sono dunque né simpatici, né antipatici, sono il perfetto specchio di quel che erano i giovani medi degli anni novanta.

Giovani che si ritengono migliori di quelli di oggi ma che in realtà ne sono stati i naturali predecessori, con meno tecnologia, senza smartphone e social network.

I vari Lazza e compagnia cantante sono l’evoluzione degli 883 adattati ai tempi di oggi.




Reductio ad unum

Una tesi piuttosto consolidata e diffusa della teoria delle relazioni internazionali è che le ideologie non siano il movente di iniziative e attriti nazionali, bensì i meri rapporti di forza. L'ideologia, invece, sarebbe utilizzata secondariamente presso le masse e l'opinione pubblica come fattore mobilitante e aggregante e legittimante. In sostanza, solo la volontà di acquisire influenza o preservare l'egemonia nella propria sfera di interesse sarebbe alla base della prassi politica, mentre l'ideologia sarebbe un artefatto culturale utile ad imbonire le masse al fine del consenso. A ben guardare, tuttavia, questa tesi che sembra scalzare in un unico movimento tutta la complessità dell'elaborazione politico-ideologica storica, unificando l'intera umanità grazie a un movente che si vorrebbe pre-ideologico, non fa che riproporre il problema su un altro piano, denunciando la propria natura proiettiva ed etnocentrica. Ci si chiede infatti, la volontà di prevalere all'interno di una dinamica o di un equilibrio di rapporti di forza, non è a sua volta ideologia? Più specificamente, non è espressione di quella volontà di potenza che Nietzsche eresse a cifra dell'Occidente, e che sembra animare qualsiasi politica imperialistica e predatoria moderna? E a sua volta, la volontà di annullare la portata storica di qualsiasi ideologia per affermare la nuda volontà di potenza non è una forma di nichilismo attivo che conferma la vocazione nichilista dell'Occidente? In tal caso ci troveremmo di fronte non alla rivelazione che le ideologie sono prodotti culturali, ma che l'ideologia è tutto, e che quando si nega, lo fa a partire da istanze ideologiche, e che l'Occidente - come sempre - si rivela incapace di comprendere l'altro da sè, manifestando costantemente la sua tendenza alla reductio ad unum.




Città anestetizzate

Osservando alcune città e le loro prime cinture ci sono saltate all'occhio tre cose.

1) L' impressionante numero di farmacie.

2) L'aumento di negozi per la cura degli animali.

3) La scarsità di spazi per il gioco dei bambini. Sono tre elementi molto significativi.

Il primo ci mostra come ormai ci sia una totale medicalizzazione dell'esistenza, vi è un concetto di prevenzione ossessiva e un ricorso ai farmaci costante per ogni minimo problema. Il secondo ed il terzo punto sono poi la fotografia del calo demografico della nazione. Animali sempre più umanizzati, con passeggini, vestitini, detartrasi e farmaci per una imbarazzante antropomorfizzazione dell'animale domestico. Bambini invece assenti per le strade, con pochi spazi a disposizione, allontanati dal gioco libero di strada da una società sempre più asettica e controllata in cui si preferisce mandar loro in luoghi circoscritti a svolgere attività limitate piuttosto che fargli sperimentare la vita nei cortili.

Una società anodina, anestetizzata e priva di calore.




Alien, il monolite di Ridley Scott

C’è sempre un prima ed un dopo, per ogni cosa.

Uno snodo decisivo all’interno della cinematografia legata al genere fantascienza avviene verso la fine degli anni ’70.

Se prima Kubrick, con piglio dell’autore alto ed in modo filosofico, in “2001 Odissea nello spazio” e poi “Star Wars” sdoganano il genere, quest’ultimo facendolo diventare non solo un fenomeno di costume e di intrattenimento per tutte le età, è il film di Ridley Scott che, due anni dopo, lo trasporta su un altro livello.

Il 25 ottobre del 1979 esce “Alien”.

Il primo ed inimitabile.

La fantascienza da quel momento perde quella patina di B-movie che fino ad allora aveva sempre avuto per assume valenze diverse.

"Alien" in buona sostanza cosa è?

È un film che appartiene al genere fantascientifico certamente ma in cui l’elemento horror già presente nei culti passati come “L’invasione degli ultracorpi” di Siegel prima e “L’astronave atomica del Dr. Quatermass” di Val Guest dopo, assume connotati totalmente nuovi.

Scott ribalta l’ambientazione geometrica del cinema di fantascienza introducendo un’estetica gotica e rendendo l’atmosfera del film estremamente cupa e tenebrosa, attingendo anche e soprattutto al cult movie “Terrore nello spazio” del maestro e antesignano Mario Bava.

“Alien” è un’opera che amalgama alla perfezione due estetiche forti, quella di un futuro tecnologicamente lontano nel tempo e nello spazio (la fantascienza con tutto il suo carico di computer impeccabili e congegni tarati alla perfezione) e quello dell’ignoto, del buio, del non conosciuto, su quell’abisso dell’insondabile su cui si adagia chiunque si spinge troppo oltre.

In “Alien” c’è questo stacco, questa distanza estetica tra ciò che esiste tra l’ambiente asettico dell’astronave e tra l’impervia superficie del pianeta, tra il conosciuto ed il totale controllo della realtà dell’astronave con quello che è invece l’interno del relitto.

Angusto, buio, danneggiato. Una discesa negli inferi, un oltrepassare la soglia del conosciuto ed il confronto con qualcosa di antico e terribile.

Un film uterino, che si svolge interamente all’interno di un’astronave, di un luogo che può e dovrebbe creare la vita. E la vita si crea all’interno del relitto, il cui ingresso ricorda quello di una vagina.

E la vita che dovrebbe nascere come atto di amore, in “Alien” diventa un qualcosa di differente. La genesi della vita in questo lontano futuro avviene con violenza, con un oltraggio. In un modo improvviso, inatteso e crudele. Avvolgente, parassitario.

Una vita che nasce impiantandosi e squarciando.

L’apparizione dell’elemento creatura rompe quel delicato equilibrio che già dalla prima parte della pellicola sembra assai sottile.

Il modo bruto e violento con il quale la creatura aliena (il famoso facehugger) si lega senza alterare nulla con il malcapitato e sfortunato (nonché imprudente) Kane è incredibile.

È una novità (in parte vista ma in modo differente già nel film di Val Guest) che sorprende. Un parassita che adopera il corpo umano per riprodursi, per crescere e diventare ancora più letale, senza di esso non avverrebbe nessuna mutazione.

Si va così a configurare un vero e proprio ibrido innaturale, dove l’uomo funge da mezzo e non da fine ultimo.

Mezzo che condurrà ad una nuova fase, ad un nuovo segmento di vita, ancora più incredibile sia nello sviluppo e sia nella sua nascita. Un parto innaturale e illogico nella nostra concezione.

Possiamo dire dunque che “Alien” rappresenta il farsi identico dell’altro, è un archetipo che darà origini in secondo luogo alla sua pluralità. L’alieno è simile alla nostra struttura, alla struttura dell’ospite, ma ne è differente nella sua diversità.

L’estetica visionaria di Giger è elemento centrale per contribuire in modo impeccabile ed iconograficamente indelebile a queste visioni e a queste rappresentazioni.

A creare quel mondo biomeccanico su cui si poggia l’intero film.

Senso di angoscia e volontà di sopravvivenza davanti ad una specie ostile tra gli angusti, a volte immensi ed a volte claustrofobici ambienti della Nostromo. Tra gli interstizi della nave si annida l’ospite, l’intruso, l’alieno. Aggressivo ed ostile, guidato solo dall’istinto di sopravvivenza.

L’azione ferocemente ossessiva del mostro di riprodursi è la dimostrazione di come egli sia costantemente impegnato in una genesi orrorifica di una discendenza del male.

La paura regna sovrana nei corridoi della Nostromo, il subdolo mostro si aggira nei bui profondi, nelle inquietanti luci lampeggianti e tra i fumi delle tubature. Condotti, corridoi, aperture, gocciolamenti e tracce appiccicose sono tutti rimandi legati alla sfera sessuale. Una sorta di ipnosi regressiva che ci conduce in un labirinto in cui la componente materna di freudiana memoria trova la sua massima applicazione. In rimandi costanti e continui.

Il film si apre con il sonno degli occupanti della Nostromo, si avvicina al sonno/attesa delle uova pronte a schiudersi, si protrae nel sonno comatoso (“come un incubo”) di Kane e si conclude con il sonno puro e rassicurante di Ripley. Varie fasi in cui si passa da utero ad utero ad utero. L’utero finale è quello più grande e rassicurante, l’utero dell’universo in cui la Weaver si abbandona prima di approdare in nuovi incubi.

Ecco perché a 45 anni dalla sua uscita, “Alien” non smette mai di farci riflettere, di sorprenderci, di dare nuovi spunti di riflessione e di aprire discussioni infinite. Dopo di allora, tutti dovranno confrontarsi e fare i conti con questo monolite della cultura cinematografica.



                                                      OC

La metamorfosi occidentale delle "sinistre"

La metamorfosi occidentale dei partiti di massa di sinistra - dalla difesa degli interessi dei lavoratori a quelli delle élite economiche, dal socialismo al liberismo, dal pacifismo all'atlantismo bellicista - è stata resa possibile svuotando i contenuti delle sue grandi battaglie storiche, quelle per i diritti dei deboli, e spostandone il potenziale critico in direzione degli interessi di pseudo-minoranze che allo stato attuale non hanno nessuna autentica portata rivoluzionaria, ma che anzi sono funzionali al mantenimento degli attuali equilibri di potere e incoraggiano gli attuali processi di cambiamento in direzione di una società autoritaria e delle differenze. Le questioni dei diritti del migrante o dell'appartenente alla comunità lgbtq+wq$ - tanto per citare due cavalli di battaglia della pseudo-sinistra contemporanea - permettono di salvare la favola e l'apparenza della sinistra che lotta per i deboli e perseguire contemporaneamente il programma del neoliberismo più spinto, lasciando sullo sfondo le autentiche urgenze sociali, sfrattate dal loro antico domicilio politico storico, e ormai neppure più nominate. Senza comprendere questo meccanismo della sostituzione, non ci si può rendere ragione di come siano saltate alcune delle categorie fondamentali della tassonomia politica moderna, e la necessità di un ripensamento di quest'ultima che superi visioni obsolete e anacronistiche.



Rimbaud e "l'alchimia del verbo"

Il 20 ottobre del 1854 nasceva a Charleville, piccola città francese, uno dei più grandi poeti dell'epoca moderna.

Il primo poeta "rivoluzionario", lo studente modello a livello scolastico ma decisamente controcorrente nell'analisi della realtà, Rimbaud l'irrequieto che sogna la fuga dalla sua piccola città natia. Quella del poeta francese è proprio la ricerca, materiale ed artistica, di una "fuga". Di una "fuga" dal presente e dalla rigidità delle convenzioni artistiche.

Un poeta che guarda al futuro, un creatore di opere che anticipino il mondo a venire.

Un artista che deve essere e deve farsi "veggente" ed attraverso la poesia arrivare alla conoscenza.

Il percorso di Rimbaud è votato alla volontà di superamento dell'umano immergendosi nella natura, nella vita e nelle contingenze storiche.

Tutto ciò che lo circonda appare come un turbinio di immagini senza senso e occorre un modo per ordinarle e comprenderle. Un processo per decodificare l'ordine profondo che regola la vita e la morte, i successi e le sconfitte, l'estate e l'inverno, tutto ciò che è accaduto e che accadrà.

È la parola al centro del suo cammino, la parola usata come mai prima di allora, la costruzione di un mondo fatto non di contorni squadrati ma da visioni che si perdono nella forma di colori cangianti, "ebbri", di paesaggi stupefacenti e di discese stravolgenti.

Si assiste dunque alla elaborazione di un nuovo modo di comunicazione. La cosiddetta "alchimia del verbo".

Come i miti, come le parabole, e le fiabe che hanno il compito di far arrivare l'ascoltatore al mondo dei principi attraverso la parola e il coinvolgimento emotivo.

Spetterà poi alla razionalità il chiarimento delle presunte contraddizioni e la disposizione degli avvenimenti nella giusta luce. Ma in ogni caso si tratta di "illuminazioni" che non tutti riescono a cogliere. Una potenza immaginativa non per tutti. Bisogna "elevarsi".

L'uomo "dalle suole di vento" in realtà l'aveva previsto forse dal giorno stesso in cui si era messo in cammino e aveva deciso di provare a vivere mille vite spese tutte nel tentativo di dare all'esistenza un senso inaudito.

In questa "illuminazione" pare che Rimbaud sia proprio riuscito ad intuire l'essenza della limitatezza del meccanismo sensoriale umano. Dove ogni ingranaggio emotivo si trova a ripetere sempre le stesse azioni.

Holderlin, diceva che i veri poeti si rivelano per la maggior parte all’inizio e alla fine di un’era.

Ed infatti Rimbaud è il primo poeta di una civiltà non ancora apparsa, civiltà i cui orizzonti e i cui limiti appaiono ancora incerti perché collocati in un mondo "altro".

Lo strumento poetico di Rimbaud è un atto di ribellione a quell’Occidente vuoto, contento di sé, secolarizzato e senza forza che ha perso perfino l’istinto di conservazione e il desiderio della bellezza.

E questo suo desiderio ribelle fugge libero indifferentemente sia dal passato che dal futuro.

Non si stabilisce, non si situa in un tempo storico.

È solo un vortice basato sulla modalità della nostalgia o del desiderio, che ci trascina e ci sottomette.

Alla ricerca di una liberazione a cui lui arrivò quando capì che tutto era compiuto e abbandonò la vita poetica.

Una missione espletata in pochi anni.

La porta della prigione era aperta, ora bisognava solo correre nel sole d'Africa, nelle sue distese infinite.

L'opera di rottura e negazione era stata compiuta.

La fine avvenne presto, attorno ai 20 anni il momento del distacco.

Lasciò agli altri la chiave per la libertà.

La fusione completa tra il sogno ed il desiderio.



                                                    OC

"Mitologia tolkieniana" di Mario Polia

"Mitologia tolkieniana" è un saggio dello studioso Mario Polia consigliato a tutti gli appassionati del filologo inglese ma anche e soprattutto a chi di Tolkien ha solo sentito parlare o a chi ne ha una conoscenza superficiale. Se l’opera tolkieniana continua a fare proseliti, ad affascinare e a conquistare il motivo è molto semplice. Continua perché il senso del Mito abita in ognuno di noi, nelle nostre anime. Alcuni possono sopprimerlo ma non possono cancellarlo. Perché alcuni si sono resi conto che “abitare” in una sola “dimensione” non soddisfa, si tratta di una condizione innaturale. Si sente il bisogno, o magari solo la percezione, di altro. Di un mondo reale e non artificioso, Un mondo non dominato dalla tecnica, dall’utile e dall’economia. Un mondo dove innalzare la trascendenza da opporre ad un presente meschino. Il cercare la metafisica dove regna lo scientismo. Un bisogno forse elementare ma vitale. Per confrontarsi con l’insondabile, con l’immaginazione ed il sogno.

Attraverso la comparazione e confrontando le principali tradizioni, Mario Polia ci dimostra come l'opera di Tolkien è comparabile all'opera di un Omero o di un Virgilio, Un'opera formativa e fondante ordinata da leggi che provengono dal Mito. 



                                                     OC

Nuovi film Horror

 

Non è corretto affermare che non esistano ottimi film horror di recente produzione, ci sono stati negli ultimi vent’anni parecchi titoli interessanti.

Quello che però la gran parte delle produzioni horror recenti non fanno più è creare atmosfere di tensione senza l’utilizzo di semplici mezzucci.

Molti film horror vecchi riuscivano a fare paura e creare suspense attraverso la costruzione di atmosfere sinistre. Grandi prove attoriali, inquadrature, musiche, ombre, suggestione e non esplicitazione, trame ben scritte, psicologia dei personaggi. Questi erano gli ingredienti fondamentali per la riuscita di un film horror. Senza l'ausilio degli effetti speciali moderni, si trovavano soluzioni davvero memorabili, in grado di terrorizzare ancora oggi.

Adesso la gran parte delle produzioni se non utilizzano i famosi “jump scare” difficilmente riescono ad ottenere l’effetto che desiderano.

Ma il punto è che non si creano più atmosfere sottili e tensioni psicologiche, investendo sull’emotività ello spettatore. Si preferisce farlo saltare dalla sedia alzando improvvisamente l’audio, tralasciando tutto il resto. Ecco perché gran parte delle uscite finiscono nel dimenticatoio dopo un mese, mentre opere come ad esempio “L’esorcista” di William Friedkin rimangono intatte nel tempo.

È proprio il pubblico di oggi che richiede solamente salti e adrenalina per poi cestinare il tutto e passare al successivo. In pieno stile reel di tik tok.

Un pubblico che vive il cinema horror solamente come passatempo mentre si sbirciano le notifiche di whatsapp in attesa del momento dello spavento.

Parliamoci chiaro, oggi un giovane si annoierebbe a morte e guardare un film come Rosemary’s baby.

I film horror, un tempo fonti di esplorazioni della psiche umana, di critica sociale metaforica, di riflessioni sui tabù, sono diventati nella QUASI totalità dei casi mero intrattenimento attraverso beceri mezzucci tecnologici.



 

McMahon e la manipolazione delle masse

La serie su Netflix dedicata all’imprenditore Vincent Mc Mahon è interessante per svariati aspetti.

McMahon nell’arco di 40 anni è riuscito a far diventare il wrestling una macchina di soldi con fatturati da capogiro. In che modo?  Sfruttando la manipolazione delle masse che la società attuava nel tempo, attraverso i media. È un uomo che non ha inventato nulla, che non è mai andato controcorrente, che semplicemente si è sempre adeguato dando al pubblico ciò che voleva, rappresentando la falsa realtà del momento.

Qualche esempio? Negli anni ’80 e ’90 in base al “nemico pubblico” del momento creava personaggi antipatici con cui le masse caprine potevano scagliarsi, ecco che durante la guerra in Iraq veniva fuori il wrestler amante di Saddam a cui ovviamente contrapponeva l’eroe americano buono che faceva giustizia. Oppure si cimentava nell’ideazione di soggetti come l’iraniano cattivo e il sovietico antipatico nei giorni della guerra fredda.

Interessante notare anche come adattò i suoi spettacoli nei confronti delle donne, rappresentandole dapprima come oggetto sessuale, vanitose e sexy per poi cambiare rotta cavalcando l’onda del femminismo egualitario e del gender in cui le femmine combattono come i maschi e hanno un aspetto sempre più mascolino.

McMahon è il simbolo dell’imprenditore spietato il cui obiettivo è solamente quello di fare soldi a valanga attraverso l’osservazione dei gusti delle masse indotte dai media.

È il classico stereotipo dell’uomo dal motto “il business è il business”, laddove quest’ultimo diviene un feticcio, conta più di tutto, portando a calpestare qualsiasi rapporto personale pur di fare denaro.

Il documentario McMahon mostra sostanzialmente come fare soldi senza scrupoli sfruttando la manipolazione delle masse.

In questo l’imprenditore americano è stato certamente un genio.



Difesa della vita e transumanesimo

 << Non lascio aperto nessuno spiraglio all'eutanasia. Non dico: "fammi morire". Ma: "lasciami morire come ha stabilito la natura". Né io, né tu. La natura. Prendiamo il caso di Piergiorgio Welby, che ho seguito da vicino. Welby sostanzialmente non disse: staccate la spina. Ma: lasciate che la natura faccia il suo corso, non fatemi restare vittima di una tecnologia che costruisce qualcosa di sostitutivo e artificiale rispetto alla natura. >> (Giovanni Reale)

Così si esprimeva il grande filosofo e storico Giovanni Reale in merito al caso Welby.

Quello del fine vita è un tema spinoso, delicato. Su WI non abbiamo mai messo in discussione nè la difesa della vita in ogni sua forma, né in particolare la difesa della vita dei più deboli. Cerchiamo piuttosto di portare l'attenzione su un'altra questione, che casi come quello famoso di Welby hanno portato necessariamente in primo piano. La tecnica sta obbligando l'uomo ad affrontare quesiti e bivi etici che le epoche precedenti alla nostra non conoscevano. In particolare, le macchine per il sostegno vitale creano condizioni di sopravvivenza artificiale che pongono la necessità di problematizzare la stessa nozione di vita e di vivente. Se non ci si rende conto che il problema è lo stesso del transumanesimo tecnologico, non si afferrano né i termini della questione, né il perimetro ideologico che essi coinvolgono. Per tentare di affrontare il problema etico e morale dell'accanimento terapeutico, ad esempio, le categorie tradizionali, ossia a misura d'uomo, si rilevano semplicemente inadeguate, perchè qui entriamo nel dominio dell'inumano, che avanza laddove l'umano arretra. il nostro è come sempre un invito al coraggio di pensare e al porsi domande scomode e destabilizzanti, dove la risposta non sia pregiudicata e precompresa. Non invitiamo al relativismo, ma a non dare per scontato l'esito del domandare, né ad accomodarsi su sentieri prestabiliti che ignorano le sfide del postmoderno. Vero è che in un mondo sano, la possibilità di tali quesiti non dovrebbero neppure sussistere.

Il fatto è che una volta entrati nella meccanizzazione dei sistemi di mantenimento vitale, ci ritroviamo ad avere macchine in grado di prolungare la vita in maniera artificiale di un organismo che non può sopravvivere da solo. La domanda dunque è: una vita che è mantenuta artificialmente e tecnologicamente, un organismo che non è più in grado di reggersi autonomamente è ancora vivo? È un dilemma tragico, insolubile ed è difficile giungere a una visione univoca. Ognuno si dia la sua risposta.



La dissoluzione della famiglia

 

Prima di politiche sociali che - per usare un eufemismo - non incoraggiano la costruzione di un nucleo familiare, e prima della promozione di una cultura che scoraggia i modelli tradizionali promuovendo individualismo, eccentricità e narcisismo, il più letale attacco alla famiglia è stato portato diffondendo una nuova idea di "amore" coniugale, astratta e irrealistica, tipicamente adolescenziale, in linea con una società che ci vuole eterni immaturi privi di legami e strutture solide, soli e indifesi. Il modello di amore odierno si basa sull'idea che il compagno o la compagna siano una sorta di prolungamento della propria individualità, e che come tale debbano continuare a nutrire sensazioni e piaceri che in genere sono elementi di una prima fase della relazione, i quali poi dovrebbero maturare e trovate la giusta dimensione all'interno di una progettualità dove all'aspetto emotivo subentrano fattori di ordine spirituale e razionale che, se da un lato raffreddano gli aspetti più voluttuari della relazione di coppia, tuttavia costituiscono le basi per un rapporto solido, sensato e orientato. Questa seconda fase, che è quella funzionale alla costruzione di un nucleo famigliare, sembra oggi essere espulsa dai modelli di coppia che la società promuove. Le relazioni devono fermarsi alla fase "innamoramento", per non giungere mai alla fase "impegno". Quando un rapporto non stimola più i sensi, non costituisce più una piacevole distrazione, non coinvolge più con passioni che travolgono o ottenebrano, allora si dichiara finito, perchè ha perso il lato interessante, la dimensione di intrattenimento. È chiaro che su queste basi è impensabile la costituzione di qualsivoglia nucleo familiare, il quale sarà inevitabilmente destinato a disgregarsi perchè certe sensazioni tendono inevitabilmente a consumarsi e a dileguare nel tempo, se non vi è qualcosa di solido - quindi di non appartenente alla sfera emotiva - che le nutre e le rigenera. L'idea tradizionale è che l'amore non sia un piacere, ma un sacrificio, un donare se stessi all'altro, e un mettere la coppia, e quindi la famiglia, davanti al proprio interesse individuale, fino al punto da far coincidere tale interesse con quello della nuova entità a cui si è dato vita con l'altra persona. È questa idea di sacrificio, anti-edonistica e anti-individuale che la nostra società abborrisce. È su questa idea che i legami familiari si strutturavano saldi e i matrimoni duravano una vita intera. È su questa idea che si poteva pensare un futuro a lungo termine, che contemplasse progetti comuni che richiedevano fiducia reciproca e dedizione. Oggi principi come questi sono un'eccezione, ed è naturale che le famiglie si dissolvano, o semplicemente scompaiano.