Alien, il monolite di Ridley Scott

C’è sempre un prima ed un dopo, per ogni cosa.

Uno snodo decisivo all’interno della cinematografia legata al genere fantascienza avviene verso la fine degli anni ’70.

Se prima Kubrick, con piglio dell’autore alto ed in modo filosofico, in “2001 Odissea nello spazio” e poi “Star Wars” sdoganano il genere, quest’ultimo facendolo diventare non solo un fenomeno di costume e di intrattenimento per tutte le età, è il film di Ridley Scott che, due anni dopo, lo trasporta su un altro livello.

Il 25 ottobre del 1979 esce “Alien”.

Il primo ed inimitabile.

La fantascienza da quel momento perde quella patina di B-movie che fino ad allora aveva sempre avuto per assume valenze diverse.

"Alien" in buona sostanza cosa è?

È un film che appartiene al genere fantascientifico certamente ma in cui l’elemento horror già presente nei culti passati come “L’invasione degli ultracorpi” di Siegel prima e “L’astronave atomica del Dr. Quatermass” di Val Guest dopo, assume connotati totalmente nuovi.

Scott ribalta l’ambientazione geometrica del cinema di fantascienza introducendo un’estetica gotica e rendendo l’atmosfera del film estremamente cupa e tenebrosa, attingendo anche e soprattutto al cult movie “Terrore nello spazio” del maestro e antesignano Mario Bava.

“Alien” è un’opera che amalgama alla perfezione due estetiche forti, quella di un futuro tecnologicamente lontano nel tempo e nello spazio (la fantascienza con tutto il suo carico di computer impeccabili e congegni tarati alla perfezione) e quello dell’ignoto, del buio, del non conosciuto, su quell’abisso dell’insondabile su cui si adagia chiunque si spinge troppo oltre.

In “Alien” c’è questo stacco, questa distanza estetica tra ciò che esiste tra l’ambiente asettico dell’astronave e tra l’impervia superficie del pianeta, tra il conosciuto ed il totale controllo della realtà dell’astronave con quello che è invece l’interno del relitto.

Angusto, buio, danneggiato. Una discesa negli inferi, un oltrepassare la soglia del conosciuto ed il confronto con qualcosa di antico e terribile.

Un film uterino, che si svolge interamente all’interno di un’astronave, di un luogo che può e dovrebbe creare la vita. E la vita si crea all’interno del relitto, il cui ingresso ricorda quello di una vagina.

E la vita che dovrebbe nascere come atto di amore, in “Alien” diventa un qualcosa di differente. La genesi della vita in questo lontano futuro avviene con violenza, con un oltraggio. In un modo improvviso, inatteso e crudele. Avvolgente, parassitario.

Una vita che nasce impiantandosi e squarciando.

L’apparizione dell’elemento creatura rompe quel delicato equilibrio che già dalla prima parte della pellicola sembra assai sottile.

Il modo bruto e violento con il quale la creatura aliena (il famoso facehugger) si lega senza alterare nulla con il malcapitato e sfortunato (nonché imprudente) Kane è incredibile.

È una novità (in parte vista ma in modo differente già nel film di Val Guest) che sorprende. Un parassita che adopera il corpo umano per riprodursi, per crescere e diventare ancora più letale, senza di esso non avverrebbe nessuna mutazione.

Si va così a configurare un vero e proprio ibrido innaturale, dove l’uomo funge da mezzo e non da fine ultimo.

Mezzo che condurrà ad una nuova fase, ad un nuovo segmento di vita, ancora più incredibile sia nello sviluppo e sia nella sua nascita. Un parto innaturale e illogico nella nostra concezione.

Possiamo dire dunque che “Alien” rappresenta il farsi identico dell’altro, è un archetipo che darà origini in secondo luogo alla sua pluralità. L’alieno è simile alla nostra struttura, alla struttura dell’ospite, ma ne è differente nella sua diversità.

L’estetica visionaria di Giger è elemento centrale per contribuire in modo impeccabile ed iconograficamente indelebile a queste visioni e a queste rappresentazioni.

A creare quel mondo biomeccanico su cui si poggia l’intero film.

Senso di angoscia e volontà di sopravvivenza davanti ad una specie ostile tra gli angusti, a volte immensi ed a volte claustrofobici ambienti della Nostromo. Tra gli interstizi della nave si annida l’ospite, l’intruso, l’alieno. Aggressivo ed ostile, guidato solo dall’istinto di sopravvivenza.

L’azione ferocemente ossessiva del mostro di riprodursi è la dimostrazione di come egli sia costantemente impegnato in una genesi orrorifica di una discendenza del male.

La paura regna sovrana nei corridoi della Nostromo, il subdolo mostro si aggira nei bui profondi, nelle inquietanti luci lampeggianti e tra i fumi delle tubature. Condotti, corridoi, aperture, gocciolamenti e tracce appiccicose sono tutti rimandi legati alla sfera sessuale. Una sorta di ipnosi regressiva che ci conduce in un labirinto in cui la componente materna di freudiana memoria trova la sua massima applicazione. In rimandi costanti e continui.

Il film si apre con il sonno degli occupanti della Nostromo, si avvicina al sonno/attesa delle uova pronte a schiudersi, si protrae nel sonno comatoso (“come un incubo”) di Kane e si conclude con il sonno puro e rassicurante di Ripley. Varie fasi in cui si passa da utero ad utero ad utero. L’utero finale è quello più grande e rassicurante, l’utero dell’universo in cui la Weaver si abbandona prima di approdare in nuovi incubi.

Ecco perché a 45 anni dalla sua uscita, “Alien” non smette mai di farci riflettere, di sorprenderci, di dare nuovi spunti di riflessione e di aprire discussioni infinite. Dopo di allora, tutti dovranno confrontarsi e fare i conti con questo monolite della cultura cinematografica.



                                                      OC