Il fenomeno 883

In questi giorni lo sport preferito degli italiani è discutere della serie tv degli 883.

Da un lato abbiamo quelli che ne stanno facendo addirittura una analisi sociologica e politica tirando in ballo fasi del capitalismo, dall’altro chi snobba il fenomeno 883 con sprezzo.

A nostro parere non c’è da andare molto lontani con le riflessioni e il fatto che la serie tv sia così vista non stupisce, bastava andare a vedere in questi anni un concerto di Pezzali per rendersi conto dell’enorme seguito, soprattutto della generazione nata tra gli anni settanta e ottanta.

Trattasi di semplicissima nostalgia, poco altro. I quarantenni di oggi percepiscono in quelle melodie tutta una serie di ricordi degli anni della loro gioventù, a prescindere dal fatto che ai tempi li ascoltassero o meno, perché comunque quei brani facevano da sottofondo agli anni novanta, scandivano le giornate sia del rockettaro che del discotecaro.

Gli 883 sono stati il riflesso di una generazione che ha vissuto in un determinato periodo, una fotografia di giovani disillusi, senza alcuna posizione ideologica, senza alcuna idea da difendere, che ricercavano solamente quella spensieratezza adolescenziale fatta di bar e discoteche.

Ai tempi non esistevano ancora talent-show dal successo preconfezionato o social network, pertanto la loro popolarità di massa fu quanto meno genuina.

Trattasi di canzonette orecchiabili, talvolta anche piacevoli e Pezzali è un personaggio con una sua sincerità autobiografica.

L’unico motivo per cui c’è questo interesse attorno agli 883 è semplicemente la nostalgia di una generazione.

Gli 883 non sono dunque né simpatici, né antipatici, sono il perfetto specchio di quel che erano i giovani medi degli anni novanta.

Giovani che si ritengono migliori di quelli di oggi ma che in realtà ne sono stati i naturali predecessori, con meno tecnologia, senza smartphone e social network.

I vari Lazza e compagnia cantante sono l’evoluzione degli 883 adattati ai tempi di oggi.




Reductio ad unum

Una tesi piuttosto consolidata e diffusa della teoria delle relazioni internazionali è che le ideologie non siano il movente di iniziative e attriti nazionali, bensì i meri rapporti di forza. L'ideologia, invece, sarebbe utilizzata secondariamente presso le masse e l'opinione pubblica come fattore mobilitante e aggregante e legittimante. In sostanza, solo la volontà di acquisire influenza o preservare l'egemonia nella propria sfera di interesse sarebbe alla base della prassi politica, mentre l'ideologia sarebbe un artefatto culturale utile ad imbonire le masse al fine del consenso. A ben guardare, tuttavia, questa tesi che sembra scalzare in un unico movimento tutta la complessità dell'elaborazione politico-ideologica storica, unificando l'intera umanità grazie a un movente che si vorrebbe pre-ideologico, non fa che riproporre il problema su un altro piano, denunciando la propria natura proiettiva ed etnocentrica. Ci si chiede infatti, la volontà di prevalere all'interno di una dinamica o di un equilibrio di rapporti di forza, non è a sua volta ideologia? Più specificamente, non è espressione di quella volontà di potenza che Nietzsche eresse a cifra dell'Occidente, e che sembra animare qualsiasi politica imperialistica e predatoria moderna? E a sua volta, la volontà di annullare la portata storica di qualsiasi ideologia per affermare la nuda volontà di potenza non è una forma di nichilismo attivo che conferma la vocazione nichilista dell'Occidente? In tal caso ci troveremmo di fronte non alla rivelazione che le ideologie sono prodotti culturali, ma che l'ideologia è tutto, e che quando si nega, lo fa a partire da istanze ideologiche, e che l'Occidente - come sempre - si rivela incapace di comprendere l'altro da sè, manifestando costantemente la sua tendenza alla reductio ad unum.




Città anestetizzate

Osservando alcune città e le loro prime cinture ci sono saltate all'occhio tre cose.

1) L' impressionante numero di farmacie.

2) L'aumento di negozi per la cura degli animali.

3) La scarsità di spazi per il gioco dei bambini. Sono tre elementi molto significativi.

Il primo ci mostra come ormai ci sia una totale medicalizzazione dell'esistenza, vi è un concetto di prevenzione ossessiva e un ricorso ai farmaci costante per ogni minimo problema. Il secondo ed il terzo punto sono poi la fotografia del calo demografico della nazione. Animali sempre più umanizzati, con passeggini, vestitini, detartrasi e farmaci per una imbarazzante antropomorfizzazione dell'animale domestico. Bambini invece assenti per le strade, con pochi spazi a disposizione, allontanati dal gioco libero di strada da una società sempre più asettica e controllata in cui si preferisce mandar loro in luoghi circoscritti a svolgere attività limitate piuttosto che fargli sperimentare la vita nei cortili.

Una società anodina, anestetizzata e priva di calore.




Alien, il monolite di Ridley Scott

C’è sempre un prima ed un dopo, per ogni cosa.

Uno snodo decisivo all’interno della cinematografia legata al genere fantascienza avviene verso la fine degli anni ’70.

Se prima Kubrick, con piglio dell’autore alto ed in modo filosofico, in “2001 Odissea nello spazio” e poi “Star Wars” sdoganano il genere, quest’ultimo facendolo diventare non solo un fenomeno di costume e di intrattenimento per tutte le età, è il film di Ridley Scott che, due anni dopo, lo trasporta su un altro livello.

Il 25 ottobre del 1979 esce “Alien”.

Il primo ed inimitabile.

La fantascienza da quel momento perde quella patina di B-movie che fino ad allora aveva sempre avuto per assume valenze diverse.

"Alien" in buona sostanza cosa è?

È un film che appartiene al genere fantascientifico certamente ma in cui l’elemento horror già presente nei culti passati come “L’invasione degli ultracorpi” di Siegel prima e “L’astronave atomica del Dr. Quatermass” di Val Guest dopo, assume connotati totalmente nuovi.

Scott ribalta l’ambientazione geometrica del cinema di fantascienza introducendo un’estetica gotica e rendendo l’atmosfera del film estremamente cupa e tenebrosa, attingendo anche e soprattutto al cult movie “Terrore nello spazio” del maestro e antesignano Mario Bava.

“Alien” è un’opera che amalgama alla perfezione due estetiche forti, quella di un futuro tecnologicamente lontano nel tempo e nello spazio (la fantascienza con tutto il suo carico di computer impeccabili e congegni tarati alla perfezione) e quello dell’ignoto, del buio, del non conosciuto, su quell’abisso dell’insondabile su cui si adagia chiunque si spinge troppo oltre.

In “Alien” c’è questo stacco, questa distanza estetica tra ciò che esiste tra l’ambiente asettico dell’astronave e tra l’impervia superficie del pianeta, tra il conosciuto ed il totale controllo della realtà dell’astronave con quello che è invece l’interno del relitto.

Angusto, buio, danneggiato. Una discesa negli inferi, un oltrepassare la soglia del conosciuto ed il confronto con qualcosa di antico e terribile.

Un film uterino, che si svolge interamente all’interno di un’astronave, di un luogo che può e dovrebbe creare la vita. E la vita si crea all’interno del relitto, il cui ingresso ricorda quello di una vagina.

E la vita che dovrebbe nascere come atto di amore, in “Alien” diventa un qualcosa di differente. La genesi della vita in questo lontano futuro avviene con violenza, con un oltraggio. In un modo improvviso, inatteso e crudele. Avvolgente, parassitario.

Una vita che nasce impiantandosi e squarciando.

L’apparizione dell’elemento creatura rompe quel delicato equilibrio che già dalla prima parte della pellicola sembra assai sottile.

Il modo bruto e violento con il quale la creatura aliena (il famoso facehugger) si lega senza alterare nulla con il malcapitato e sfortunato (nonché imprudente) Kane è incredibile.

È una novità (in parte vista ma in modo differente già nel film di Val Guest) che sorprende. Un parassita che adopera il corpo umano per riprodursi, per crescere e diventare ancora più letale, senza di esso non avverrebbe nessuna mutazione.

Si va così a configurare un vero e proprio ibrido innaturale, dove l’uomo funge da mezzo e non da fine ultimo.

Mezzo che condurrà ad una nuova fase, ad un nuovo segmento di vita, ancora più incredibile sia nello sviluppo e sia nella sua nascita. Un parto innaturale e illogico nella nostra concezione.

Possiamo dire dunque che “Alien” rappresenta il farsi identico dell’altro, è un archetipo che darà origini in secondo luogo alla sua pluralità. L’alieno è simile alla nostra struttura, alla struttura dell’ospite, ma ne è differente nella sua diversità.

L’estetica visionaria di Giger è elemento centrale per contribuire in modo impeccabile ed iconograficamente indelebile a queste visioni e a queste rappresentazioni.

A creare quel mondo biomeccanico su cui si poggia l’intero film.

Senso di angoscia e volontà di sopravvivenza davanti ad una specie ostile tra gli angusti, a volte immensi ed a volte claustrofobici ambienti della Nostromo. Tra gli interstizi della nave si annida l’ospite, l’intruso, l’alieno. Aggressivo ed ostile, guidato solo dall’istinto di sopravvivenza.

L’azione ferocemente ossessiva del mostro di riprodursi è la dimostrazione di come egli sia costantemente impegnato in una genesi orrorifica di una discendenza del male.

La paura regna sovrana nei corridoi della Nostromo, il subdolo mostro si aggira nei bui profondi, nelle inquietanti luci lampeggianti e tra i fumi delle tubature. Condotti, corridoi, aperture, gocciolamenti e tracce appiccicose sono tutti rimandi legati alla sfera sessuale. Una sorta di ipnosi regressiva che ci conduce in un labirinto in cui la componente materna di freudiana memoria trova la sua massima applicazione. In rimandi costanti e continui.

Il film si apre con il sonno degli occupanti della Nostromo, si avvicina al sonno/attesa delle uova pronte a schiudersi, si protrae nel sonno comatoso (“come un incubo”) di Kane e si conclude con il sonno puro e rassicurante di Ripley. Varie fasi in cui si passa da utero ad utero ad utero. L’utero finale è quello più grande e rassicurante, l’utero dell’universo in cui la Weaver si abbandona prima di approdare in nuovi incubi.

Ecco perché a 45 anni dalla sua uscita, “Alien” non smette mai di farci riflettere, di sorprenderci, di dare nuovi spunti di riflessione e di aprire discussioni infinite. Dopo di allora, tutti dovranno confrontarsi e fare i conti con questo monolite della cultura cinematografica.



                                                      OC

La metamorfosi occidentale delle "sinistre"

La metamorfosi occidentale dei partiti di massa di sinistra - dalla difesa degli interessi dei lavoratori a quelli delle élite economiche, dal socialismo al liberismo, dal pacifismo all'atlantismo bellicista - è stata resa possibile svuotando i contenuti delle sue grandi battaglie storiche, quelle per i diritti dei deboli, e spostandone il potenziale critico in direzione degli interessi di pseudo-minoranze che allo stato attuale non hanno nessuna autentica portata rivoluzionaria, ma che anzi sono funzionali al mantenimento degli attuali equilibri di potere e incoraggiano gli attuali processi di cambiamento in direzione di una società autoritaria e delle differenze. Le questioni dei diritti del migrante o dell'appartenente alla comunità lgbtq+wq$ - tanto per citare due cavalli di battaglia della pseudo-sinistra contemporanea - permettono di salvare la favola e l'apparenza della sinistra che lotta per i deboli e perseguire contemporaneamente il programma del neoliberismo più spinto, lasciando sullo sfondo le autentiche urgenze sociali, sfrattate dal loro antico domicilio politico storico, e ormai neppure più nominate. Senza comprendere questo meccanismo della sostituzione, non ci si può rendere ragione di come siano saltate alcune delle categorie fondamentali della tassonomia politica moderna, e la necessità di un ripensamento di quest'ultima che superi visioni obsolete e anacronistiche.



Rimbaud e "l'alchimia del verbo"

Il 20 ottobre del 1854 nasceva a Charleville, piccola città francese, uno dei più grandi poeti dell'epoca moderna.

Il primo poeta "rivoluzionario", lo studente modello a livello scolastico ma decisamente controcorrente nell'analisi della realtà, Rimbaud l'irrequieto che sogna la fuga dalla sua piccola città natia. Quella del poeta francese è proprio la ricerca, materiale ed artistica, di una "fuga". Di una "fuga" dal presente e dalla rigidità delle convenzioni artistiche.

Un poeta che guarda al futuro, un creatore di opere che anticipino il mondo a venire.

Un artista che deve essere e deve farsi "veggente" ed attraverso la poesia arrivare alla conoscenza.

Il percorso di Rimbaud è votato alla volontà di superamento dell'umano immergendosi nella natura, nella vita e nelle contingenze storiche.

Tutto ciò che lo circonda appare come un turbinio di immagini senza senso e occorre un modo per ordinarle e comprenderle. Un processo per decodificare l'ordine profondo che regola la vita e la morte, i successi e le sconfitte, l'estate e l'inverno, tutto ciò che è accaduto e che accadrà.

È la parola al centro del suo cammino, la parola usata come mai prima di allora, la costruzione di un mondo fatto non di contorni squadrati ma da visioni che si perdono nella forma di colori cangianti, "ebbri", di paesaggi stupefacenti e di discese stravolgenti.

Si assiste dunque alla elaborazione di un nuovo modo di comunicazione. La cosiddetta "alchimia del verbo".

Come i miti, come le parabole, e le fiabe che hanno il compito di far arrivare l'ascoltatore al mondo dei principi attraverso la parola e il coinvolgimento emotivo.

Spetterà poi alla razionalità il chiarimento delle presunte contraddizioni e la disposizione degli avvenimenti nella giusta luce. Ma in ogni caso si tratta di "illuminazioni" che non tutti riescono a cogliere. Una potenza immaginativa non per tutti. Bisogna "elevarsi".

L'uomo "dalle suole di vento" in realtà l'aveva previsto forse dal giorno stesso in cui si era messo in cammino e aveva deciso di provare a vivere mille vite spese tutte nel tentativo di dare all'esistenza un senso inaudito.

In questa "illuminazione" pare che Rimbaud sia proprio riuscito ad intuire l'essenza della limitatezza del meccanismo sensoriale umano. Dove ogni ingranaggio emotivo si trova a ripetere sempre le stesse azioni.

Holderlin, diceva che i veri poeti si rivelano per la maggior parte all’inizio e alla fine di un’era.

Ed infatti Rimbaud è il primo poeta di una civiltà non ancora apparsa, civiltà i cui orizzonti e i cui limiti appaiono ancora incerti perché collocati in un mondo "altro".

Lo strumento poetico di Rimbaud è un atto di ribellione a quell’Occidente vuoto, contento di sé, secolarizzato e senza forza che ha perso perfino l’istinto di conservazione e il desiderio della bellezza.

E questo suo desiderio ribelle fugge libero indifferentemente sia dal passato che dal futuro.

Non si stabilisce, non si situa in un tempo storico.

È solo un vortice basato sulla modalità della nostalgia o del desiderio, che ci trascina e ci sottomette.

Alla ricerca di una liberazione a cui lui arrivò quando capì che tutto era compiuto e abbandonò la vita poetica.

Una missione espletata in pochi anni.

La porta della prigione era aperta, ora bisognava solo correre nel sole d'Africa, nelle sue distese infinite.

L'opera di rottura e negazione era stata compiuta.

La fine avvenne presto, attorno ai 20 anni il momento del distacco.

Lasciò agli altri la chiave per la libertà.

La fusione completa tra il sogno ed il desiderio.



                                                    OC

"Mitologia tolkieniana" di Mario Polia

"Mitologia tolkieniana" è un saggio dello studioso Mario Polia consigliato a tutti gli appassionati del filologo inglese ma anche e soprattutto a chi di Tolkien ha solo sentito parlare o a chi ne ha una conoscenza superficiale. Se l’opera tolkieniana continua a fare proseliti, ad affascinare e a conquistare il motivo è molto semplice. Continua perché il senso del Mito abita in ognuno di noi, nelle nostre anime. Alcuni possono sopprimerlo ma non possono cancellarlo. Perché alcuni si sono resi conto che “abitare” in una sola “dimensione” non soddisfa, si tratta di una condizione innaturale. Si sente il bisogno, o magari solo la percezione, di altro. Di un mondo reale e non artificioso, Un mondo non dominato dalla tecnica, dall’utile e dall’economia. Un mondo dove innalzare la trascendenza da opporre ad un presente meschino. Il cercare la metafisica dove regna lo scientismo. Un bisogno forse elementare ma vitale. Per confrontarsi con l’insondabile, con l’immaginazione ed il sogno.

Attraverso la comparazione e confrontando le principali tradizioni, Mario Polia ci dimostra come l'opera di Tolkien è comparabile all'opera di un Omero o di un Virgilio, Un'opera formativa e fondante ordinata da leggi che provengono dal Mito. 



                                                     OC

Nuovi film Horror

 

Non è corretto affermare che non esistano ottimi film horror di recente produzione, ci sono stati negli ultimi vent’anni parecchi titoli interessanti.

Quello che però la gran parte delle produzioni horror recenti non fanno più è creare atmosfere di tensione senza l’utilizzo di semplici mezzucci.

Molti film horror vecchi riuscivano a fare paura e creare suspense attraverso la costruzione di atmosfere sinistre. Grandi prove attoriali, inquadrature, musiche, ombre, suggestione e non esplicitazione, trame ben scritte, psicologia dei personaggi. Questi erano gli ingredienti fondamentali per la riuscita di un film horror. Senza l'ausilio degli effetti speciali moderni, si trovavano soluzioni davvero memorabili, in grado di terrorizzare ancora oggi.

Adesso la gran parte delle produzioni se non utilizzano i famosi “jump scare” difficilmente riescono ad ottenere l’effetto che desiderano.

Ma il punto è che non si creano più atmosfere sottili e tensioni psicologiche, investendo sull’emotività ello spettatore. Si preferisce farlo saltare dalla sedia alzando improvvisamente l’audio, tralasciando tutto il resto. Ecco perché gran parte delle uscite finiscono nel dimenticatoio dopo un mese, mentre opere come ad esempio “L’esorcista” di William Friedkin rimangono intatte nel tempo.

È proprio il pubblico di oggi che richiede solamente salti e adrenalina per poi cestinare il tutto e passare al successivo. In pieno stile reel di tik tok.

Un pubblico che vive il cinema horror solamente come passatempo mentre si sbirciano le notifiche di whatsapp in attesa del momento dello spavento.

Parliamoci chiaro, oggi un giovane si annoierebbe a morte e guardare un film come Rosemary’s baby.

I film horror, un tempo fonti di esplorazioni della psiche umana, di critica sociale metaforica, di riflessioni sui tabù, sono diventati nella QUASI totalità dei casi mero intrattenimento attraverso beceri mezzucci tecnologici.



 

McMahon e la manipolazione delle masse

La serie su Netflix dedicata all’imprenditore Vincent Mc Mahon è interessante per svariati aspetti.

McMahon nell’arco di 40 anni è riuscito a far diventare il wrestling una macchina di soldi con fatturati da capogiro. In che modo?  Sfruttando la manipolazione delle masse che la società attuava nel tempo, attraverso i media. È un uomo che non ha inventato nulla, che non è mai andato controcorrente, che semplicemente si è sempre adeguato dando al pubblico ciò che voleva, rappresentando la falsa realtà del momento.

Qualche esempio? Negli anni ’80 e ’90 in base al “nemico pubblico” del momento creava personaggi antipatici con cui le masse caprine potevano scagliarsi, ecco che durante la guerra in Iraq veniva fuori il wrestler amante di Saddam a cui ovviamente contrapponeva l’eroe americano buono che faceva giustizia. Oppure si cimentava nell’ideazione di soggetti come l’iraniano cattivo e il sovietico antipatico nei giorni della guerra fredda.

Interessante notare anche come adattò i suoi spettacoli nei confronti delle donne, rappresentandole dapprima come oggetto sessuale, vanitose e sexy per poi cambiare rotta cavalcando l’onda del femminismo egualitario e del gender in cui le femmine combattono come i maschi e hanno un aspetto sempre più mascolino.

McMahon è il simbolo dell’imprenditore spietato il cui obiettivo è solamente quello di fare soldi a valanga attraverso l’osservazione dei gusti delle masse indotte dai media.

È il classico stereotipo dell’uomo dal motto “il business è il business”, laddove quest’ultimo diviene un feticcio, conta più di tutto, portando a calpestare qualsiasi rapporto personale pur di fare denaro.

Il documentario McMahon mostra sostanzialmente come fare soldi senza scrupoli sfruttando la manipolazione delle masse.

In questo l’imprenditore americano è stato certamente un genio.



Difesa della vita e transumanesimo

 << Non lascio aperto nessuno spiraglio all'eutanasia. Non dico: "fammi morire". Ma: "lasciami morire come ha stabilito la natura". Né io, né tu. La natura. Prendiamo il caso di Piergiorgio Welby, che ho seguito da vicino. Welby sostanzialmente non disse: staccate la spina. Ma: lasciate che la natura faccia il suo corso, non fatemi restare vittima di una tecnologia che costruisce qualcosa di sostitutivo e artificiale rispetto alla natura. >> (Giovanni Reale)

Così si esprimeva il grande filosofo e storico Giovanni Reale in merito al caso Welby.

Quello del fine vita è un tema spinoso, delicato. Su WI non abbiamo mai messo in discussione nè la difesa della vita in ogni sua forma, né in particolare la difesa della vita dei più deboli. Cerchiamo piuttosto di portare l'attenzione su un'altra questione, che casi come quello famoso di Welby hanno portato necessariamente in primo piano. La tecnica sta obbligando l'uomo ad affrontare quesiti e bivi etici che le epoche precedenti alla nostra non conoscevano. In particolare, le macchine per il sostegno vitale creano condizioni di sopravvivenza artificiale che pongono la necessità di problematizzare la stessa nozione di vita e di vivente. Se non ci si rende conto che il problema è lo stesso del transumanesimo tecnologico, non si afferrano né i termini della questione, né il perimetro ideologico che essi coinvolgono. Per tentare di affrontare il problema etico e morale dell'accanimento terapeutico, ad esempio, le categorie tradizionali, ossia a misura d'uomo, si rilevano semplicemente inadeguate, perchè qui entriamo nel dominio dell'inumano, che avanza laddove l'umano arretra. il nostro è come sempre un invito al coraggio di pensare e al porsi domande scomode e destabilizzanti, dove la risposta non sia pregiudicata e precompresa. Non invitiamo al relativismo, ma a non dare per scontato l'esito del domandare, né ad accomodarsi su sentieri prestabiliti che ignorano le sfide del postmoderno. Vero è che in un mondo sano, la possibilità di tali quesiti non dovrebbero neppure sussistere.

Il fatto è che una volta entrati nella meccanizzazione dei sistemi di mantenimento vitale, ci ritroviamo ad avere macchine in grado di prolungare la vita in maniera artificiale di un organismo che non può sopravvivere da solo. La domanda dunque è: una vita che è mantenuta artificialmente e tecnologicamente, un organismo che non è più in grado di reggersi autonomamente è ancora vivo? È un dilemma tragico, insolubile ed è difficile giungere a una visione univoca. Ognuno si dia la sua risposta.



La dissoluzione della famiglia

 

Prima di politiche sociali che - per usare un eufemismo - non incoraggiano la costruzione di un nucleo familiare, e prima della promozione di una cultura che scoraggia i modelli tradizionali promuovendo individualismo, eccentricità e narcisismo, il più letale attacco alla famiglia è stato portato diffondendo una nuova idea di "amore" coniugale, astratta e irrealistica, tipicamente adolescenziale, in linea con una società che ci vuole eterni immaturi privi di legami e strutture solide, soli e indifesi. Il modello di amore odierno si basa sull'idea che il compagno o la compagna siano una sorta di prolungamento della propria individualità, e che come tale debbano continuare a nutrire sensazioni e piaceri che in genere sono elementi di una prima fase della relazione, i quali poi dovrebbero maturare e trovate la giusta dimensione all'interno di una progettualità dove all'aspetto emotivo subentrano fattori di ordine spirituale e razionale che, se da un lato raffreddano gli aspetti più voluttuari della relazione di coppia, tuttavia costituiscono le basi per un rapporto solido, sensato e orientato. Questa seconda fase, che è quella funzionale alla costruzione di un nucleo famigliare, sembra oggi essere espulsa dai modelli di coppia che la società promuove. Le relazioni devono fermarsi alla fase "innamoramento", per non giungere mai alla fase "impegno". Quando un rapporto non stimola più i sensi, non costituisce più una piacevole distrazione, non coinvolge più con passioni che travolgono o ottenebrano, allora si dichiara finito, perchè ha perso il lato interessante, la dimensione di intrattenimento. È chiaro che su queste basi è impensabile la costituzione di qualsivoglia nucleo familiare, il quale sarà inevitabilmente destinato a disgregarsi perchè certe sensazioni tendono inevitabilmente a consumarsi e a dileguare nel tempo, se non vi è qualcosa di solido - quindi di non appartenente alla sfera emotiva - che le nutre e le rigenera. L'idea tradizionale è che l'amore non sia un piacere, ma un sacrificio, un donare se stessi all'altro, e un mettere la coppia, e quindi la famiglia, davanti al proprio interesse individuale, fino al punto da far coincidere tale interesse con quello della nuova entità a cui si è dato vita con l'altra persona. È questa idea di sacrificio, anti-edonistica e anti-individuale che la nostra società abborrisce. È su questa idea che i legami familiari si strutturavano saldi e i matrimoni duravano una vita intera. È su questa idea che si poteva pensare un futuro a lungo termine, che contemplasse progetti comuni che richiedevano fiducia reciproca e dedizione. Oggi principi come questi sono un'eccezione, ed è naturale che le famiglie si dissolvano, o semplicemente scompaiano.



Indifesi e dipendenti

È ormai noto che la società neoliberale globalista ha come obbiettivo la creazione di individui atomici privi di radici ed identità, che fungano da indifeso supporto al sistema tecnocapitalista in veste di docili lavoratori e consumatori, privi di qualsiasi reale potere politico e di concreta autonomia. Per fare questo sono state progressivamente e sistematicamente minate tutte le strutture sociali intermedie che si frapponevano tra la singola persona e il potere. Tali strutture costituivano dei centri di resistenza all'esercizio diretto dell'autorità e una sorta di rifugio in cui il singolo poteva trovare realizzazione prima e al di fuori di ciò che il sistema disponeva univocamente e unilateralmente per lui.

La prima e la più centrale di queste strutture è la famiglia, intesa come un nucleo di persone unite da legami di sangue, affetti, storia, proprietà ed interessi. A ben vedere questi aspetti rappresentano forme di solidarietà identitaria che il potere tende a negare o ad abolire. Tutta la propaganda contro la cosiddetta "famiglia tradizionale" (tralasciando gli argomenti "patriarcali" più beceri) verte nel tentativo di dimostrare che i legami biologici sono ininfluenti, che la famiglia è il luogo più corrotto e vile dell'egoismo privato, e che è necessario ogni giorno scegliere arbitrariamente con chi spartire l'esistenza. Le sue funzioni economiche, educative, assistenziali e di cordone sanitario verso il mondo esterno, che garantiscono un certo grado di indipendenza dei singoli che vi appartengono rispetto alla società, vengono completamente svalutate, così come l'oggettività fattuale dei legami che la saldano, quali quelli di sangue o di responsabilità reciproca.

Il potere vi vuole liberi e autodeterminati a parole, ma indifesi e totalmente dipendenti nei fatti.