Se è vero che la morte è il grande rimosso del
nostro tempo, lo è sempre in quanto ci riguarda direttamente, come nostra morte
o morte della nostra civiltà. In realtà la pseudo-cultura contemporanea è
profondamente tanatofila. Siamo ossessionati dalla morte e dal sangue, ma a due
condizioni: che riguardino sempre l'altro (un altro uomo, un'altra civiltà) e
che la morte o il fatto di sangue vengano esposti come già accaduti e distanti
(mai come agonia o sofferenza qui e ora, e sempre mediati da una foto, un filmato
o un racconto). La morte deve essere altrove, non ci deve riguardare, non
dobbiamo sentirne l'odore o l'incombenza: allora essa è morbosamente attraente,
uno spettacolo che vale la pena di essere visto e gustato. In tutto ciò si
consuma un enorme esorcismo collettivo delle coscienze, un cerimoniale
catartico che ha lo scopo di allontanare l'idea della nostra morte relegandola
alla dimensione di una possibilità esaurita che non ci riguarda mai, che si
rinnova continuamente solo per scagliare o scaricare ansia e paura in direzione
di un altro soggetto o di un altro luogo, il più remoto e lontano da noi
possibile. La mancanza di empatia nei confronti della morte altrui, dovuta alla
sua reiterata esposizione mediatica e narrativa, tuttavia, è un formidabile
strumento di legittimazione della violenza politica. Il potere può uccidere,
purché eserciti tale potere altrove, in luoghi che non ci riguardano, su
persone in cui non possiamo immedesimarci. In tal caso la guerra, l'omicidio
collettivo per eccellenza, diventa un tremendo e fascinoso spettacolo che ci
viene dato in pasto già digerito da media e informazione, e che non fa paura,
ma anzi, di cui chiediamo dosi sempre maggiori per ovviarne l'inevitabile
assuefazione. Incapaci di morire, ma assetati della morte altrui, legittimiamo
annoiati il grande spettacolo delle nazioni assassine, lasciando i signori
della guerra indisturbati nella loro opera di sterminio. Purchè non sia in
Occidente, si intende, altrimenti il sangue di un uomo ha ben altro sapore.
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