Lost e le serie tv come fenomeno di massa

Vent'anni fa, il 22 settembre del 2004, un aeroplano cadde dal cielo e il mondo delle serie TV cambiò per sempre.

“Lost" è da considerarsi ad oggi una delle più importanti serie televisive di sempre a livello mondiale, capace di ottenere numeri impressionanti tanto da elevare il serial come genere, come mercato e come fenomeno di massa.

Il Boeing 815 della compagnia australiana Oceanic si schianta su un’isola disabitata e i sopravvissuti sono costretti a vivere in un ambiente ostile, in attesa che qualcuno li venga a recuperare.

Le sei stagioni di "Lost", sin dai primi episodi, si dimostrano essere un intrigante racconto corale fatto appositamente per cogliere di sorpresa, giocare sui generi, sulla narrazione e i suoi tempi.

Gli autori riescono a creare interesse per ogni singolo dettaglio.

Anche un semplice oggetto trovato in tasca da un personaggio dopo l’incidente creerà curiosità sul perché si trova lì.

Fin dalla prima stagione, "Lost" ci presenta un gruppo enorme di protagonisti, riunendo una compagnia estremamente variegata.

I personaggi sono assolutamente realistici e ognuno di essi ha una sua storia raccontata attraverso flashback, divenuti elementi caratterizzanti di questo lavoro, con i quali gli ideatori ci fanno entrare nei panni dei personaggi.

Così facendo vengono instaurati giochi di linee temporali molto suggestivi che permettono ai produttori di fare uno scavo psicologico, caratteriale e narrativo ricco di sfaccettature.

Ognuno di essi ha un legame tutto suo con l’isola, che è anch’essa un personaggio a sé stante e offre un suo particolare simbolismo.

Per questi e per tanti altri motivi, "Lost" si è affermato come un classico moderno della televisione.

Uno show che è stato una pietra miliare per la serialità.

Un amalgama di storie complesse, ricche di elementi letterari, artistici, filosofici e spirituali.


                                                  OC


L'importanza dei piccoli gesti

I piccoli gesti nella vita quotidiana stanno scomparendo. Tutti curvi sul proprio smartphone, alienati dal mondo circostante e senza empatia verso il prossimo. Basti osservare i condomini, sino a una trentina di anni fa ci si conosceva tutti, si festeggiavano assieme eventi, ora non ci si conosce neppure tra vicini di casa.

Stanno scomparendo le piccole cose, come un sorriso, uno sguardo, un gesto gentile, aspetti fondamentali nella vita di un essere umano che vuol ancora definirsi tale. 

Il prestare attenzione ai dettagli quotidiani è propedeutico al vivere il momento presente, a sviluppare una maggiore consapevolezza di sé. Essere empatici verso il prossimo porta ad esplorare nuove esperienze. Imparare a osservare e apprezzare ciò che ci circonda aiuta a riconoscere la bellezza della vita, anche nell'ordinario. 

Percepire lo scorrere dell'esistenza sta diventando sempre più utopico nella vita odierna, tecnologica e asettica. Tutti immersi in una bolla, tra i propri pensieri e una notifica di whatsapp mentre gli anni scorrono veloci.




La distopia di Demolition Man

"Demolition Man", film del 1993 dell’italiano Marco Brambilla, con Sylvester Stallone e Wesley Snipes, è una pellicola che va riscoperta.

Dietro l’apparenza di un film d'azione, ci troviamo di fronte a ben altro.

L’opera presenta un futuro dominato dalla tecnologia dove la sorveglianza e l'automazione sono propedeutiche all’eliminazione della privacy e allo sviluppo dell’intelligenza artificiale.

All’interno della trama troviamo lo sviluppo della cultura della cancellazione (cancel culture) in un'epoca di crescente sorveglianza e controllo sociale. La società nel film ha difatti adottato un sistema di valori estremamente rigido, dove ogni forma di linguaggio o comportamento considerato offensivo è severamente punita. Il rimando agli attuali dibattiti sulla libertà di espressione, il politically correct e la cancel culture è presto fatto.

Nel film si immagina una società futura dove la violenza viene totalmente eliminata, a costo di una forte repressione della libertà personale; il tutto induce ad una riflessione attualissima su quanto si è disposti a sacrificare in nome della “sicurezza”.

Mentre la società futuristica ha eliminato dunque la violenza fisica, il film si chiede se sia possibile veramente estirpare comportamenti violenti dalla natura umana.

Demolition Man presenta peraltro diverse tecnologie futuristiche, come i veicoli a guida autonoma e la realtà virtuale invitando a considerare le conseguenze di una crescente dipendenza dalla tecnologia e il potere che essa detiene sulle nostre vite.

Un film da riscoprire.




Accordi USA-Russia?

Sul ruolo internazionale della Federazione Russa e in particolare sulla questione del conflitto russo-ucraino, con il protrarsi indefinito dello scontro, circola sempre di più il sospetto che dietro tale guerra vi siano da parte orientale propositi poco chiari e comunque diversi da quelli dichiarati. Tesi che sembra essere particolarmente accreditata presso coloro hanno in antipatia tanto la Federazione Russa quanto il blocco atlantico, sarebbe quella secondo cui esisterebbe una sorta di accordo segreto - o perlomeno una sorta di tacita volontà comune - dei due fronti per affossare l'Unione Europea, che sarebbe l'autentico obbiettivo dell'operazione in corso.

A parer nostro il protrarsi del conflitto avrebbe come unica ragione la volontà della Federazione Russa di non dare alcun pretesto alla Nato per entrare dichiaratamente in guerra, ponderando e dosando attentamente ogni azione militare affinché una eventuale escalation non possa esserle attribuita come diretta responsabilità, cosa che fino ad adesso le è riuscita piuttosto bene anche in virtù dell'enorme patrimonio di risorse umane e materiali di cui dispone, il quale le permette di ben sopportare una guerra di posizione che sta dissanguando la controparte.

A prescindere dalle simpatie o meno che si hanno nei confrondi della leadership russa, di cui abbiamo un'opinione piuttosto distaccata e realistica, e a prescindere dall'innegabile valore del sacrificio del popolo ucraino, mandato al macello per una causa che solo pretestuosamente è la loro, ma che altro non è che parte dell'ultima battaglia del globalismo morente, c'è da dire che l'idea di un'alleanza Nato-Cremlino appare quanto mai poco credibile, in virtù del fatto che la Federazione Russa avrebbe invece un enorme vantaggio da una integrazione dell'Europa in chiave euroasiatica - ossia multipolare - piuttosto che dalla sua demolizione controllata, su modello delle relazioni internazionali che attualmente sta strutturando con i paesi non allineati o ostili. D'altra parte, l'impero anglosassone, da quasi un secolo, ha sempre coltivato palesemente l'interesse per un'Europa suddita e colonizzata da dissanguare, sfruttare e controllare secondo le proprie esigenze del momento, in virtù di una velleità d'egemonia programmatica e mai smentita.

Per questo, lo ripetiamo, al di là dei gusti personali, ciò che sarebbe utile chiedersi prima di schierarsi a favore di una parte - o di condannarle entrambe - è quale modello di equilibrio internazionale e quale architettura di potere garantirebbero meglio, prima ancora di qualsiasi discorso di natura ideologica, gli autentici interessi europei, o perlomeno l'esistenza autonoma e neutrale delle entità politiche che compongono l'Europa.




Kultur e Zivilisation

L'idea di nazione è agli antipodi dell'idea di popolo. In una nazione a definire l'identità è un confine e un riconoscimento di natura legale e burocratica. È infatti possibile discutere i requisiti di nazionalità e modificarne le condizioni legali con un atto politico arbitrario. L'appartenenza a un popolo, al contrario, non può essere definita convenzionalmente, ma è una condizione antropologica primaria, costituita organicamente dalla condivisione di una lingua e una cultura, una storia, un retaggio etnico e geografico, l'intuizione e il presagio di un destino comune.

In un popolo si può essere accolti, certo, ma se non vi si appartiene per nascita o adozione - con tutto ciò che comporta quest'ultimo termine - si sarà sempre un ospite. Differentemente, la nazionalità può essere acquisita a condizioni contingenti che di volta in volta possono variare a seconda del governo e del periodo storico.

Si tratta dell'eterno dilemma metapolitico tra Kultur e Zivilisation, che chi si considera nazionalista e critica il convenzionalismo sociale dimostra di non aver compreso. Nessun pensiero autenticamente identitario può definirsi nazionalista, perchè l'identità autentica non risiede in un accordo siglato in nome del patto sociale, ma nelle profonde regioni dello spirito che si fa comunità di sangue, radici e intenzione.




La nascita della trilogia di Sergio Leone

Esattamente sessant’anni fa fu presentato “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone.

Ambientato in Messico ma realizzato in Spagna ed interpretato da un divo di telefilm western americani completamente sconosciuto in Italia (Clint Eastwood) e da attori nostrani sotto pseudonimi (l’immenso Gian Maria Volonté venne battezzato John Wells) il film di Leone non piacque all’inizio ai critici e uscì senza clamori pubblicitari.

Eppure il film in questione apparve fin dall’inizio come un punto di rottura all’interno del panorama cinematografico.

Fu il pubblico a tributare il giusto successo ad una pellicola entrata prepotentemente nell’immaginario comune.

Un’autentica sorpresa, un prodotto “outsider” della settima arte.

Il successo del film fu strepitoso e fu determinato da semplici fattori: marcato realismo, azione allo stato puro, una violenza aspra e selvaggia.

E poi c'era l’eroe, un eroe con nuove caratteristiche. L’iconico Clint Eastwood che non era il classico eroe “senza macchia e senza paura” ma un misterioso pistolero che compare dal nulla e nel nulla sparisce.

Quasi capitato per caso in un ambiente polveroso ai confini del mondo.

Un eroe fatto della stessa pasta dei suoi avversari.

“Il western era ormai arrivato alla fine degli anni ‘50 ad un tal punto di romanticismo che aveva perso la sua autentica fisionomia”.

Così disse Leone nel commentare il suo capolavoro ed in effetti “Per un pugno di dollari” rappresentò una novità assoluta decodificando gli stilemi di un genere che aveva ormai esaurito la sua spinta propulsiva.

Il western fu per il regista romano, solo il veicolo per mettere in mostra il suo talento e raccontare delle fiabe crude.

Tra primi piani spinti, poche parole, scarsi dialoghi e occhiate furtive prese forma un classico che non tramonta mai e che diede vita ad un genere, il cosiddetto spaghetti western, che ancora oggi viene venerato e studiato in tutto il mondo.

Il resto lo fece la colonna sonora immortale del maestro Morricone, vecchio compagno di scuola a Trastevere dello stesso Leone.

Morricone inventa un nuovo stile e diventa lui stesso insieme alle sue note, presenza fissa e inscindibile della storia cinematografica dello stesso Sergio.

Un connubio di immagini e musiche che si staglia eterno e irraggiungibile sulle vette del cinema mondiale.




Feticismo tecnologico

Il termine "pornografia" comunemente indica il genere di intrattenimento che esibisce atti sessuali di vario genere allo scopo di eccitare eroticamente il fruitore. L'aggettivo "pornografico" viene poi utilizzato per indicare, metaforicamente, l'esposizione di qualcosa che viene considerato osceno, deplorevole, sporco, qualcosa che non dovrebbe essere mostrato per non scandalizzare.

Sorprenderà molti sapere che l'etimologia del termine si ricollega al greco antico, ossia ai termini πόρνη (pòrne), che significa prostituta, e γραφή (graphè), che vuol dire disegno, scritto, documento. Etimologicamente, dunque, pornografia significa scrivere riguardo a prostitute o rappresentare prostitute. L'aspetto di commercio dell'atto sessuale è originariamente centrale nell'etimo di pornografia, aspetto perlopiù non considerato visto che oggi l'accento è posto sul genere di contenuto piuttosto che sull'aspetto mercantile.

È significativo osservare come solo nell'età del mercato globale la pornografia sia potuta divenire genere di consumo di massa. Essa è infatti una forma di intrattenimento particolarmente congeniale alla società e all'uomo contemporaneo sotto più aspetti. Innanzitutto è funzionale alla riduzione dell'essere umano alla pura dimensione istintiva e animale. L'atto sessuale vi è rappresentato come pura fisiologia e visto come semplice appagamento libidico, astraendo la sessualità da ogni contesto semantico che rimandi a una sua dimensione non puramente orizzontale e istantanea.

Inoltre è presente una chiara componente regressiva e perversa che incoraggia a forme di sessualità sempre meno umane e più bestiali, o addirittura artificiali e meccaniche. Si nota nel tempo un progressivo alzare dell'asticella della sensibilità e del gusto in direzione di pratiche sessuali che fino a poco tempo fa erano considerate patologiche e devianti. Circola inoltre oggi una sinistra tendenza alla libido per l'inanimato, sia esso l'oggetto, l'animazione a tema pornografico o lo spazio virtuale gestito dall'IA. La pornografia, insomma, si apre al postumano, in una sorta di feticismo tecnologico che probabilmente sarà la forma di sessualità più congeniale al postmoderno terminale. 

Inutile poi soffermarsi sul fatto che la prostituzione, cuore del concetto di pornografia, sia oggi più che mai il motore sociale per eccellenza: nella società del capitale e dei consumi, tutto e tutti hanno un prezzo, al punto che, paradossalmente, se la pornografia è ritrarre chi si prostituisce, allora qualsiasi rappresentazione di un mondo che ha come solo e unico fondamento il mercato può essere definita pornografica.

Suggeriamo dunque che la pornografia, fuori di qualsiasi considerazione morale, potrebbe essere accolta come una efficace chiave interpretativa sociale e antropologica dell'occidente terminale.




Amore e morte

Amore e morte, Eros e Thanatos, sono due archetipi che universalmente sono considerati indissolubili, due aspetti complementari della radice di ciò che consideriamo esistenza. Senza entrare nel merito degli aspetti metafisici, simbolici, culturali di tale connubio, possiamo dire che da sempre l'uomo considera morte e amore le più fondamentali esperienze di trascendenza possibili, ossia di oltrepassamento dell'individualità limitata e di ingresso in una dimensione altra e preclusa alla coscienza ordinaria. Due forme affini e integrative di esperienza del sacro, insomma. Nella nostra epoca amore e morte sono presenti nella tipica forma parodistica della postmodernità. Innanzitutto come spettacolo, ossia come immagine di cui ci si nutre in quanto oggetto insignificante di consumo. Secondariamente come simulacro narrativo, ossia come racconto di realtà inesistenti, che però interagiscono con la realtà concreta e diurna influenzando in maniera palese gusti ed opinioni. Infine nel processo di inversione e capovolgimento, che nel caso specifico significa trasformare due possibilità di autotrascendimento in esperienze che incatenano e condannano all'immanenza e alla bassezza. Non serve ricordare a cosa siano ridotti l'amore e la morte nella narrazione mediatica popolare, che poi è quella che esprime al meglio la maieutica del potere. Interminabili sequele di cronache di insignificanti storielle da rotocalco che hanno la controparte in morbose narrazioni di morti violente o fatali, spettacolarizzate ad uso e consumo degli appetiti del tipico spettatore televisivo, anestetizzato e insensibile a qualsiasi stimolo che non sia puramente genitale o viscerale. Per non parlare del modo in cui l'intrattenimento pseudo-artistico (musica, cinema, letteratura), nelle sue espressioni indirizzate ai consumi di massa, prende ad oggetto tali temi in forme stereotipate, meschine e palesemente caricaturali. Difficile non intravvedere in tali manifestazioni una sorta di volontà eterodiretta, per quanto occulta e subcosciente, tendente a svuotare e banalizzare nell'immaginario comune due tra le più importanti vie che conducono l'uomo oltre se stesso, in direzione delle sue possibilità più alte e nobili.




Purchè non sia in Occidente..

Se è vero che la morte è il grande rimosso del nostro tempo, lo è sempre in quanto ci riguarda direttamente, come nostra morte o morte della nostra civiltà. In realtà la pseudo-cultura contemporanea è profondamente tanatofila. Siamo ossessionati dalla morte e dal sangue, ma a due condizioni: che riguardino sempre l'altro (un altro uomo, un'altra civiltà) e che la morte o il fatto di sangue vengano esposti come già accaduti e distanti (mai come agonia o sofferenza qui e ora, e sempre mediati da una foto, un filmato o un racconto). La morte deve essere altrove, non ci deve riguardare, non dobbiamo sentirne l'odore o l'incombenza: allora essa è morbosamente attraente, uno spettacolo che vale la pena di essere visto e gustato. In tutto ciò si consuma un enorme esorcismo collettivo delle coscienze, un cerimoniale catartico che ha lo scopo di allontanare l'idea della nostra morte relegandola alla dimensione di una possibilità esaurita che non ci riguarda mai, che si rinnova continuamente solo per scagliare o scaricare ansia e paura in direzione di un altro soggetto o di un altro luogo, il più remoto e lontano da noi possibile. La mancanza di empatia nei confronti della morte altrui, dovuta alla sua reiterata esposizione mediatica e narrativa, tuttavia, è un formidabile strumento di legittimazione della violenza politica. Il potere può uccidere, purché eserciti tale potere altrove, in luoghi che non ci riguardano, su persone in cui non possiamo immedesimarci. In tal caso la guerra, l'omicidio collettivo per eccellenza, diventa un tremendo e fascinoso spettacolo che ci viene dato in pasto già digerito da media e informazione, e che non fa paura, ma anzi, di cui chiediamo dosi sempre maggiori per ovviarne l'inevitabile assuefazione. Incapaci di morire, ma assetati della morte altrui, legittimiamo annoiati il grande spettacolo delle nazioni assassine, lasciando i signori della guerra indisturbati nella loro opera di sterminio. Purchè non sia in Occidente, si intende, altrimenti il sangue di un uomo ha ben altro sapore.



Educare alla morte

Il terrore pandemico e il terrore nucleare sono due volti della stessa paura, due strumenti nella mano della medesima volontà tirannica. Entrambi rappresentano nell'immaginario collettivo la minaccia invisibile, che non si può afferrare e perciò trattenere. Sono il male a cui non è possibile sottrarsi, che sempre incombe e che una volta scatenato non può essere arrestato.

Il loro successo come strumento di ricatto e oppressione politica sta proprio nel mettere l'uomo Occidentale di fronte al suo più grande rimosso: la morte. Sia essa quella individuale o quella della propria civiltà, la morte è la possibilità impossibile comunemente espulsa dall'ambito della coscienza vigile, evocata dal potere appositamente perchè di fronte a tale prospettiva l'uomo contemporaneo risulta totalmente inerme e indifeso, pronto a qualsiasi cedimento pur di sottrarvisi.

Esiste tuttavia un antidoto a tale terrore sempre attuale ed efficace. Una sana educazione alla morte e alla sua dignitosa e nobile sopportazione, come incombenza inevitabile e senso ultimo dell'esistenza. L'idea, da coltivare e vivere, è che la morte sia la fondamentale e autentica esperienza di trascendenza dell'uomo, e che di fronte al confronto costante ed anticipante del morire l'Altro e l'Altrove siano sempre presenti nelle nostre vite, spingendoci oltre le nostre possibilità terrestri, rendendo disponibili risorse e arsenali non solo umani e individuali.

L'educazione alla morte è oggi un atto politico rivoluzionario. Di fronte a un uomo che non teme la morte, nessuna potenza del mondo è efficace.




Elémire Zolla e lo stupore infantile

Elémire Zolla, filosofo e scrittore italiano, è stato un autore di grande spessore.

Sempre critico verso la superficialità e il materialismo della società a lui contemporanea, fu esploratore delle profondità delle esperienze umane e della capacità di meravigliarsi di fronte al mondo.

La sua visione della vita andava oltre il mero utilitarismo, vedeva l’esistenza come un viaggio di scoperta e di contemplazione.

Zolla enfatizzava l'importanza dell'introspezione e della connessione con il mistero dell'esistenza, incoraggiava a riscoprire valori autentici e a vivere in armonia con la natura e con se stessi.

Lo stato di primordiale di stupore per il mondo lo identificava in una fase della prima infanzia.

Nel testo "lo stupore infantile", si riferisce proprio a questo, ad una condizione di meraviglia che caratterizza l'esperienza dei bambini. Questa forma di stupore rappresenta una capacità di percepire il mondo con limpidezza e curiosità, senza pregiudizi o schemi predefiniti.

Zolla sostiene che i bambini vivono in uno stato di continua scoperta, trovando bellezza e significato in ciò che li circonda.

Questo stupore è spesso perduto negli adulti, che tendono a razionalizzare e a dare per scontato ciò di cui fanno quotidiana esperienza.

Tornare ad esso significa accedere alla «conoscenza senza dualità», a una «filosofia spinta al di là delle parole».

Riscoprire e valorizzare questo stupore, per tornare ad una vita più autentica, favorendo una maggiore comprensione di sé e del mondo.