Tra i Maestri della settima arte, uno dei più
profondi è stato certamente lo svedese Ingmar Bergman.
Alcuni lo definirono il regista più cattolico tra i
laici ed il più laico tra i cattolici forse perché riuscì, guardando attraverso
la macchina da presa, l’essenza ma anche l’assenza di Dio parlando sia dei suoi
effetti ma anche del suo silenzio. Forse perché figlio di un severo pastore
protestante, esplicò nella sua ricerca, figlia di un’infelicità adolescenziale,
la radice della sua “nevrosi” metafisica, religiosa ed esistenziale. Il suo
cinema, i suoi numerosi film restano fondamentalmente una ricerca di amore, una
ricerca di una risposta.
Cinquant’anni di cinema e teatro testimoniano la sua
agognata impresa artistica che sembra dipanarsi sotto l’ala protettiva e
formatrice di Strindberg e Kierkegaard. Con questi numi tutelari probabilmente
inconsapevoli, il regista svedese pone a sé e a tutti le domande filosofiche
più ataviche e difficili che attanagliano dell’uomo moderno.
La sua poetica inizia fin dagli anni ’40 del secolo
scorso con “Crisi” e termina nel 1983 con “Fanny e Alexsander”. Due film che
pongono la questione del conflitto (interno o generazionale) come tema
centrale. In mezzo a questa distanza temporale, una miriade di capolavori
assoluti che mostrano i problemi su cui occorre riflettere e da cui è difficile
trovare una via di fuga o tantomeno una risposta. Dalla relatività dell’amore
(“Monica e il desiderio”, “Sorrisi di una notte d’estate”, “A proposito di
tutte queste signore”) a tutti gli altri temi affrontati in una lunga carriera.
Gli elementi chiave del cinema di Bergman sono pochi
ma basilari: la fotografia, la recitazione, i colori, l’uso superbo del bianco
e nero e la complicità degli attori straordinari di cui si è avvalso durante la
sua carriera.
Del suo cinema che vinse ogni cosa possibile (Oscar,
Leoni vari, Orsi e Palme…) sono spesso protagoniste le donne. Ingrid Thulin,
Liv Ulman, Bibi Anderson sono muse diafane e appartenenti al mondo onirico.
Quello dell’impalpabile. Donne in attesa, donne innamorate, donne irrisolte e
scontente, riflesso di una complicata vita sentimentale.
Misantropo ed isolato come tutti i maggiori e
migliori autori intellettuali di quest’epoca, Bergman riuscì ad esplorare
appunto l’inconscio ed il subconscio, il tempo e le sue stagioni. Capace di
analizzare le emozioni più sottili, inquadrando “l’interiorità” del personaggio
che filma. Usando la macchina da presa come uno scienziato usa il microscopio,
Bergman a pieno diritto si può definire come uno scienziato dell’anima o come
il pastore del dubbio esistenziale. Circoscrivendo o ampliando il senso del
tempo. Quello misero e piccolo dell’uomo o quello enorme ed inesplicabile del
divino.
Vasta la sua cinematografia, tra i tanti consigliamo
“Il posto delle fragole”, “Il settimo sigillo”, “Persona”, “Come in uno
specchio”, “Sussurri e grida”, “La fontana della vergine”, “Luci di inverno”,
“Il silenzio”.
Per ognuno di questi film si potrebbero scrivere dei
tomi.
Bergman, colui il quale ha saputo scavare a fondo
nell’animo umano attraverso la settima arte. Pochi autori hanno saputo
penetrare come lui nel magma delle pulsioni umane.
Un autore che riuscì a rivelare l’essenza pulsante,
cruda e nuda dell’uomo spoglio di ogni orpello. Illuminando anche le ombre e
portando alla luce ogni sentimento, ogni luce ed ogni miseria.
Un gigante.
OC