Gli incubi di Franz Kafka

Kafka è stato autore di fiabe oniriche e stranianti.

Kafka, uomo piccolo e fragile, privo di autostima e intrappolato nei meandri di una colpevolezza senza un perché. I suoi “non eroi” immersi costantemente in situazioni angosciose e indefinibili, grottesche, oniriche, apparentemente senza speranza.

Kafka, autore di quell’altrove che racconta la realtà per quello che è: un incubo.

Gli scritti di Kafka, i suoi racconti, i suoi romanzi, sono pagine in cui sono presenti ossessioni, fobie, sensi di colpa, inguaribili nevrosi.  Il suo conflitto interno, come quello che visse con la figura paterna o con l’altro sesso, la debolezza di salute, non bastano a spiegare appieno la genesi oscura e radicale del suo progressivo alienarsi dal mondo e dalla vita e a condensarne il negativo concetto in fantasie allucinanti.

Il nichilismo kafkiano non è un rifiuto dell’esistente per affermare una “più che vita” ma solo la visione di ciò che si ha attorno.

È quel tunnel buio in cui sostano sia gli incubi di Lovecraft e la disillusione totale di Cioran ma a differenza di questi due scrittori, il nucleo fondante, presente in tutto l’universo kafkiano è la colpa.

E la conseguenza della colpa è la condanna.

Nei suoi elaborati i personaggi conducono una vita apparentemente tranquilla e sono tranquilli con la propria coscienza, fino a quando non scoprono di portare sulle spalle una colpa, a loro sconosciuta fino a poco prima.

La colpa dei personaggi ha ritorsioni sulla vita personale degli stessi, è motivo di giudizi, ingiurie, provocazioni e pettegolezzi.

Ciò che pensano gli altri impedisce al protagonista, detentore della colpa, la realizzazione di una vita serena ed equilibrata. Spesso i personaggi di Kafka vogliono evadere, alla ricerca di un’esistenza migliore, priva di giudizi di terze persone.

Forse proprio come lui che voleva scappare da una condizione familiare severa e rigida.

Ma questa fuga è impossibile perché la condizione persistente del mondo dell’uomo kafkiano è l’angoscia. Una zavorra pesante da cui è impossibile liberarsi.

Un uomo solo, in una condizione quotidiana aliena, atroce e malvagia ed in cui l’autorità è lontana, invisibile, inaccessibile, potente e vendicativa.

Ecco quindi, tra le sue righe, emergere l’urgenza narrativa di raccontare un uomo irrisolto nonché un modo per sondare abissi dell’animo che altrimenti gli sarebbero rimasti oscuri.

Un uomo che si muove tra due elementi, due pilastri sviliti della società moderna. O per meglio dire due tenaglie oppressive che si intrecciano fino a stringere il protagonista in gangli da cui è impossibile fuggire, se non con la morte. Il primo è la famiglia, non sinonimo di pace e affetti, ma luogo del confronto frustrato, dell’inadeguatezza, della colpa. L’altro è il dedalo burocratico in cui l’uomo moderno si trova disperso: una “tirannia senza tiranno”, un sistema che ha il solo scopo di perpetuare sé stesso, di cui gli uomini, anche quelli che si trovano ai livelli più alti, sono degli ingranaggi.

Un autore difficile e non di facile lettura e nonostante la sua portata sia immensa e la critica letteraria lo abbia da tempo inserito tra i maggiori autori della letteratura mondiale di sempre, il suo messaggio (o grido disperato) ha una valenza che ancora non è stata appieno recepita.


                                                                                   OC