“Io credo che è l'amore, è l'amore che ci salverà”.
Nel film “L’hobbit” Gandalf dice a Galadriel che “sono le piccole cose, le azioni quotidiane
della gente comune che tengono a bada l’oscurità”. Il cantautore bolognese Lucio
Dalla, era come un hobbit. Un essere piccolo, innocente e puro. Un hobbit che
ha raccontato in molte delle sue canzoni le storie dell’umanità che ha
incontrato e conosciuto. Un pilastro della musica italiana, che unì la
tradizione popolare italiana con la musica leggera, le melodie e i ritmi
semplici e scanzonati con suoni appartenenti al pop, senza essere rinchiuso in
un genere particolare. Ma al di là dell’aspetto musicale, differente da quello
di altri suoi “colleghi” cantautori fossilizzati in certe strutture, erano i
testi a colpire. Un florilegio di canzoni i cui testi sembrano degli storyboard
per la costruzione di un film, una sceneggiatura perfetta per fatti di vita comune.
Come delle istantanee precise di un momento, una fotografia spietata di un
attimo. Ogni verso di un suo brano apre ricordi, immagini, situazioni di
impronta cinematografica ed offre infinti spunti di riflessione. Come la
distruzione delle illusioni di “Cara” (“per
uno come me l'ho già detto che voleva prenderti per mano e volare sopra un
tetto”), l’elogio della forza del
pensiero critico di “Come è profondo il mare” (“È chiaro che il pensiero dà fastidio anche se chi pensa è muto come un
pesce”), la mediocrità derivante dalla meccanicità della vita quotidiana di
“Quale allegria” (“Far finta che in fondo
in tutto il mondo c’è gente con gli stessi tuoi problemi per poi fondare un
circolo serale per pazzi sprasolati e un poco scemi”) bilanciata dalla
forza di volontà di “Cosa sarà” che in modo a volte irrazionale spinge ad
affrancarsi dalle bassezza della vita (“Che
ti spinge a picchiare il tuo re, che ti porta a cercare il giusto, dove
giustizia non c'è”). E quante
volte abbiamo incontrato nelle periferie delle città storie simili a quelle di
“Anna e Marco”? La storia di sogni irrealizzabili di due sconfitti dalla vita
che vengono mitigati dal conforto, dalla solidarietà e dalla vicinanza (“Anna avrebbe voluto morire, Marco voleva
andarsene lontano, qualcuno li ha visti tornare tenendosi per mano”), o il dolore di un addio di chi è andato
via davvero per realizzarli quei sogni “Balla balla ballerino” (“Ferma con quelle tue mani il treno
Palermo-Francoforte, per la mia commozione c'è una ragazza al finestrino, gli
occhi verdi che sembrano di vetro, corri e ferma quel treno fallo tornare
indietro”). Il tutto con la speranza nel cuore di un futuro di tacita
speranza di “Futura” (“Non girare la
testa, dove sono le tue mani, aspettiamo che ritorni la luce, di sentire una
voce, aspettiamo senza avere paura”). Una speranza che attraversa un tempo
difficile, un “apocalisse dei nostri tempi” che solca le varie fasi del nostro
percorso in un mood che non può non richiamare “Il settimo sigillo” di Bergman
de “L’ultima luna”. Un testo di disperata attualità che però ci ammonisce con
un chiaro messaggio. Il domani apparterrà solo a chi avrà il disincanto e il
candore di un bambino, a chi avrà capito come superare le miserie e la
disperazione dell’uomo moderno (“L'ultima
luna la vide solo un bimbo appena nato, aveva occhi tondi e neri e fondi e non
piangeva. Con grandi ali prese la luna tra le mani, e volò via. Era l'uomo di
domani”).
Un artista sensibile la cui arte poetica vive per
l’eternità.
“Per
poter riderci sopra, per continuare a sperare”
OC