Il proletario moderno ha l'odio del lavoro. Anche
quando questo è ben retribuito, la sua insoddisfazione non si placa. Soffre
meno di essere un operaio sfruttato che di essere un operaio senz'altro: le sue
infinite rivendicazioni materiali non sono altro che manifestazioni
superficiali e ingannatrici di un tale malessere fondamentale. Il proletario
soffre in questo modo perché il suo lavoro è inorganico, inumano. I socialisti
propongono, come rimedio alla crisi operaia, una più giusta ripartizione dei
redditi, salari più alti, come se il problema operaio si limitasse a questo! Si
tratta piuttosto di un rifacimento totale delle condizioni prime del lavoro
industriale, si tratta di sopprimere il lavoro inumano, il lavoro senza forma e
senza anima: la « grande officina », il lavoro « alla catena », la
specializzazione portata all'eccesso, ecc., tutte cose che lo statalismo
socialista può solamente portare alla loro suprema e mortale espressione. Il
problema dei salari è molto secondario. L'artigiano di paese che costruisce
oggetti completi e tratta con una clientela viva è infinitamente più felice e
soddisfatto dell’operaio d'officina, pur con uno standard di vita ben inferiore
a quello di quest'ultimo. Se le condizioni di lavoro dell'operaio
dell'industria e del commercio non cambiano, l'elevazione del livello dei
salari potrà soltanto nuocergli. L'uomo votato al lavoro malsano è votato
altresì allo svago malsano. Il tempo libero (con tutte le « distrazioni » che
implica) non è più per lui il prolungamento ritmico del lavoro, ma una maniera
di evadere, di vendicarsi del lavoro: invece di rendere più facile la ripresa
del lavoro, la rende più amara. Non si rimedia ai mali scaturiti da un lavoro
inumano con l'aumentare il benessere economico del lavoratore: si rischia anzi
così di aggravare il suo fastidio e il suo decadimento. Il marchio di certe
forme moderne dell'attività sociale consiste infatti in questo: il lavoro e lo
svago, normalmente complementari, vi diventano antagonisti. Semplice caso
particolare di quella legge generale che dice: le cose che, sane, si
completano, malsane si divorano a vicenda. Il cattivo amore dei sessi si
capovolge in odio dei sessi, un cattivo sonno invade la veglia e l'avvelena. Lo
stesso accade per un lavoro senza anima: I'abbrutente mescolanza di tensione e
di monotonia che lo caratterizza, si riflette sul tempo libero, lo predispone
alla dissolutezza, cioè a piaceri inumani e artificiali quanto lui. Le gioie
che popolano il riposo dei lavoratori diventano così qualcosa di teso e di
artificiale una sorta di lavoro straordinario che, lungi dal distendere anima e
corpo, aumenta la loro fatica e la loro intossicazione. Baudelaire, cantore
supremo della decadenza, non per caso ha usato la parola « lavoro » per
designare la voluttà: Oui des Dieux osera, Lesbos, être ton juge Et
condamner ton front pâli per les travaux?... Les débauchés rentraient, brisés
par leurs tra vaux...
Infatti colui che non trova più gioia nel suo
lavoro, troverà lavoro nella sua gioia. Il lavoro forzato ha come corollario il
piacere forzato. È amaramente istruttivo vedere la classe operaia e le sue
guide rivendicare in primo luogo, e quasi esclusivamente, un aumento dei salari
e del tempo libero. Pretese tanto superficiali rivelano una strana dimenticanza
dell'intima solidarietà e della continuità qualitativa che esistono tra il
lavoro e il riposo. Lavoro e svago sono le due fasi di uno stesso ritmo: la
perturbazione di una di queste fasi porta fatalmente con sé una corrispondente
perturbazione nell'altra. Chi dorme male non può vegliare normalmente; allo
stesso modo un uomo costretto ad un lavoro contro natura rischia gravemente di
non occupare molto umanamente il suo tempo libero. Si avrà un bell'aumentare
quest'ultimo in quantità: non per questo la sua qualità diverrà meno inferiore
e falsa. Non si tratta di tentare di far da contrappeso ad un lavoro inumano
per mezzo dell'accrescimento del « benessere » dei proletari: finchè il lavoro
resterà inumano, un tale benessere non potrà essere sano. Si tratta prima di
tutto di umanizzare il lavoro. Fatto ciò si potrà lecitamente pensare al
miglioramento della situazione materiale delle masse: le riforme operate in
questo senso avranno allora maggiori possibilità che non oggi di non
esasperare, nell'anima dei lavoratori, l'odio per il lavoro e lo spirito di
rivolta e di anarchia.
Quando parlo di umanizzare il lavoro, non voglio dire di renderlo necessariamente più facile e meglio remunerato, ma voglio soprattutto dire di renderlo più sano. Esiste una vita dura e difficile che è umana: quella del contadino, del pastore, del soldato, del vecchio artigiano di paese, esiste anche una vita molle e facile che è inumana e che genera la corruzione, la tristezza e l'eterna ribellione dell'essere che non svolge alcun ruolo vivente nella Città: quella per esempio dell'operaio standard in periodo di alti salari, del burocrate amorfo e ben pagato, ecc. Ed è proprio quest'ultimo genere di esistenza che il socialismo reclama per tutti! Per parte nostra, noi che amiamo il popolo d'un amore umano (cioè d'un amore spietato verso qualsiasi atmosfera inumana che lo minacci, per comoda e desiderabile che possa essere in apparenza), chiediamo per lui molto di più, chiediamo dell'altro. I democratici moderni hanno troppo frettolosamente confuso vita dura e vita inumana. E con ciò si sono condannati quasi unicamente a corrompere sotto il pretesto di umanizzare.
Gustave Thibon, Diagnosi
1940 (Iduna edizioni)