È dall'illuminismo in poi che si tende più o
meno generalmente a considerare l'alchimia come una delle forme primitive della
chimica moderna. In questo senso, la maggior parte degli studiosi che si sono
interessati alla sua letteratura non vi ha voluto vedere che le primissime
tappe delle scoperte chimiche successive. Questa letteratura, è vero, non manca
di trasmettere un certo numero di esperienze artigianali che attengono alla
preparazione dei metalli, dei colori o del vetro e che la tecnologia moderna ci
permette a volte di ricostruire; tuttavia, l'alchimia propriamente detta (“la
Grande Opera” descritta dagli autori ermetici) si muove su tutt'altro terreno:
nonostante le espressioni metallurgiche di cui questi autori si servono spesso,
la natura delle operazioni in questione non può in alcun caso essere definita
chimicamente. Dal punto di vista della scienza moderna, tali operazioni o
procedimenti rappresentano un assurdo prima ancora che un'aberrazione. La
conclusione che se n'è voluta trarre è che un insaziabile desiderio di ricavare
l'oro abbia finito con l'affossare gli stessi alchimisti, un tempo mastri
orefici, vetrai o tintori perfettamente “razionali”, in una ricerca del tutto
chimerica e in cui le fantasticherie s'intrecciavano indissolubilmente a un
empirismo fin troppo primitivo.
Se così fosse, l'opera alchemica dovrebbe
necessariamente denunciare a ogni passo i segni dell'arbitrio e non procedere
che per improvvisazioni. Ma così non è: il magistero degli alchimisti comporta
evidentemente un notevole principio di unità e, lungi dal presentarsi come una
volubile avventura, mostra di possedere tutte le caratteristiche di una vera e
propria “arte”, cioè di una dottrina e di un metodo che si tramandano da
maestro a discepolo e i cui tratti più generali (stando, almeno, al giudizio
che se ne può trarre dalle corrispondenti descrizioni simboliche) si uniformano
sensibilmente, diffondendosi dai tempi antichi a quelli moderni, dall'occidente
all'Estremo Oriente. Un'arte sostanzialmente incongrua sarebbe dunque stata in
grado di superare infiniti scacchi e infinite disillusioni per conservarsi
nella continuità e nella fedeltà a se stessa in contesti di civiltà peraltro
così diversi: un fatto così evidentemente improbabile non sembra tuttavia aver
colpito qualcuno. Dovremmo quindi ammettere o che gli alchimisti, nel loro
desiderio di autoingannarsi, si siano ostinati a coltivare un mito mille volte
smentito dalla natura, o che la loro esperienza effettiva si situi su un piano
di realtà che non ha nulla a che fare con quello di cui si occupa la scienza
empirica moderna. Le due alternative si escludono a vicenda.
Ma non è questo il parere della moderna psicologia
del profondo, che si propone di trovare nel simbolismo alchemico una conferma
alla propria tesi dell'inconscio collettivo.
Secondo la tesi in questione l'alchimista proietta,
nella sua ricerca che è simile a un sogno, determinati contenuti della sua
anima fino a quel momento sconosciuti a lui stesso e in quel modo, pur senza
averne l'intenzione cosciente, opera una sorta di riconciliazione fra la
propria coscienza quotidiana o superficiale e la potenza latente dell'inconscio
collettivo. Una siffatta riconciliazione fra conscio e inconscio darebbe
origine a una esperienza interiore soggettivamente omologabile al magistero cui
l'alchimista aspirava. Anche questo punto di vista, come già il precedente, si
fonda sull'ipotesi che l'intento originario dell'alchimista fosse quello di
fabbricare l'oro.
In tal modo l'alchimista viene considerato o come il
prigioniero di una sorta di delirio o come la vittima della sua stessa
“proiezione” immaginativa: quindi come un essere pensante e agente in stato di
sogno. Spiegazione che non manca di essere seducente in quanto si approssima in
qualche modo alla verità – ma per allontanarsene poi subito e
irrimediabilmente! Se è vero che la realtà spirituale che l'opera alchemica si
propone di rilevare è per lo più cosa di cui il non iniziato è relativamente
inconsapevole (è una realtà che si cela nel più profondo dell'anima), conviene
tuttavia non confondere tale “segreta profondità” con il caos del cosiddetto
inconscio collettivo - anche ammettendo che un concetto a dir poco così
elastico possa avere una validità oggettiva. La “fonte dell'eterna giovinezza”
degli alchimisti non scaturisce affatto da un'oscura profondità psichica, ma
sgorga dal
Luogo stesso da cui ha origine ogni verità
extra-temporale: e se essa si nasconde all'alchimista per tutta la prima fase
della sua “opera” è solo perché si situa non al di sotto dei fenomeni attinenti
alla sua coscienza più quotidiana, ma al di sopra - a un livello superiore.
L'ipotesi psicologistica perde qualsiasi validità
non appena ci si rende conto che i veri alchimisti non furono mai prigionieri
dell'avidità o del sogno di ricavare l'oro, e che non perseguirono mai il loro
fine agendo da sonnambuli o assecondando il gioco delle "proiezioni"
passive dei contenuti inconsci della loro anima.
I veri alchimisti seguivano, al contrario, un metodo
perfettamente elaborato e la cui espressione simbolica in termini di
metallurgia - arte che consiste nella trasmutazione dei metalli vili in argento
o in oro - sembra aver messo fuori strada un così gran numero di ricercatori
non iniziati: il che non toglie che questa espressione sia in se stessa assolutamente
logica e, se vogliamo, realmente profonda.
Fonte: tratto da “Alchimia” di T.Burckardt (Archè -
Edizioni Pizeta)