Il messaggio che si sta facendo passare nel
presente è che esiste un problema sociale legato a una generalizzata cultura
della morte e della sopraffazione che riguarderebbe il maschio in quanto tale,
e che andrebbe estirpata imponendo nuovi modelli di relazione tra i sessi e
nuovi apparati legali destinati a proteggere la parte debole (in questo caso la questione di genere è accantonata in vista di una ben più
definita generalizzazione biologica). I termini del discorso sono chiari e
riguardano l'emergenza femminicidio.
Ora, basta un dato per far crollare questa tesi, che
ha pretese sociologiche. Se anche il rapporto degli omicidi di donne da parte
di uomini, rispetto a quelli dei maschi uccisi da donne, fosse di 10 a 1 (numero
che da dati ISTAT stiamo di gran lunga sovrastimando), su una popolazione di
58000000 di abitanti, trattandosi di percentuali di almeno 4 zeri sotto lo zero, staremmo comunque parlando di fenomeni praticamente irrilevanti, che
statisticamente hanno di fatto lo stesso peso, ossia nullo.
Da ciò se ne possono dedurre due cose: se ci si
ostina a sostenere che esiste una cultura della morte e della sopraffazione
maschile nei confronti della donna basandosi sul numero degli omicidi, essa
riguarda anche la donna, visto che gli omicidi da lei commessi hanno la
medesima rilevanza statistica. In realtà, ciò che dovrebbe essere dedotto è,
invece, che se quella cultura che si intende attribuire al maschio esistesse in
maniera generalizzata, su una popolazione maschile di almeno 27 milioni di
persone, avremmo ben altri numeri.
Nulla toglie al dramma della morte iniqua di donne e
uomini, ma teniamo bene a mente che dire che si tratta di casi unici ed
eccezionali non ne minimizza la gravità, ma evita soltanto indebite e strumentali
generalizzazioni.