Yukio Mishima, nome d’arte di Kimitake Hiraoka, non fu
un semplice scrittore. Chi non vive solo di compartimenti stagni, e non ha una
visione edulcorata dell’arte, non può relegare in un angolo un percorso
artistico così multidisciplinare, poliedrico e complesso.
Tutta la vita dell’autore giapponese è un tendere
alla perfezione ed alla completezza. Un anelare alla bellezza, un tentativo di
congiungere in un unico punto, elevato e splendente la sintesi tra “la penna e
la spada”. In un equilibrio fragile ma accecante come appunto i fiori di
ciliegio all’apice della fioritura.
Mishima fu scrittore, poeta, drammaturgo, attore, fu
uomo coerente con la sua costante ricerca in ogni ambito in cui si cimentò. Una
personalità totalizzante lo portò anno dopo anno, fino alla parte finale della
sua esistenza terrena, alla continua riscoperta delle proprie radici, in un
percorso a ritroso, un risalire il fiume della tradizione del Giappone
oltraggiato e mortificato. Un Giappone svilito nella sua intimità dalle pesanti
condizioni imposte dai “liberatori”. Il Giappone, forse l’ultimo baluardo
contro la modernità, ridotto a “mera espressione geografica”, oltraggiato a
dismisura. Un’antica nazione, una società organica, che basava la propria
esistenza sul culto di un Imperatore come rappresentazione pura della Divinità,
ridotta ad un cumulo di macerie spirituali. È questo l’aspetto di cui bisogna
tener conto accostandosi, a poco più di 50 anni dalla sua morte, ad uno
scrittore che sfiorò tre volte il premio Nobel per la letteratura. L’aspetto
che deve risaltare al di là dei suoi innumerevoli capolavori, dei suoi tanti
romanzi di successo che citare sarebbe solo esercizio pedante, è principalmente
la sua storia esistenziale, tesa in modo ossessivo a forgiare uno spirito
eroico ammantato da una profonda sensibilità. Chi si accosta a Mishima senza
prendere in considerazione lo scambio continuo che c’è tra la sua vita e le
caratteristiche dei suoi personaggi va fuori strada. Semplicemente perché tutto
l’universo di Mishima si pone in una prospettiva ideale, complessa, che però
fonda le sue radici sulla sua stessa vita quotidiana.
L’autore giapponese era un anti moderno, come lo fu
Drieu La Rochelle, come lo fu Venner che condividono con lui lo stesso sentiero
e la stessa tragica fine. La culminazione in un idealismo eroico che trasformò
la propria vita in una poesia, in un esempio accecante, in una stella polare,
in un richiamo ad un substrato da risvegliare, rivitalizzare, richiamare in
vita. Disprezzando il presente (famosa la sua frase: “in nome del passato,
abbasso il presente”), amando la perfezione fisica come emblema di
quell’equilibrio con lo spirito, il sacrifico e l’abnegazione (il praticare il
Kendo), la disciplina (la costituzione dell’Associazione dello Scudo) e per una
restaurazione dell’uomo integrale che deve ricongiungersi ai e nei valori
originari.
Un mito impolitico si potrà obiettare ma non è
questo il punto. Il punto è essere capaci, per chi ne è in grado, di inseguire
la Bellezza e la Perfezione in un mondo che preferisce preservare la carne e
non curare lo spirito. Mishima può essere capito veramente solo da chi è
avversario di questa epoca, da chi è davvero anti moderno e non da chi cerca
solo un altro bel romanzo da leggere. Da chi non crede ai miti fallaci e fumosi
della democrazia, alle sue prospettive piatte e banali, dalla svilente corsa al
successo, dalla fangosa realtà del culto dell’apparenza e dall’idolatria dei
feticci di plastica. Andando oltre, cercando la Morte, confrontandosi con essa
per far cadere tutte le maschere che l’ipocrisia borghese impone.
Se proprio dovessimo consigliare dei romanzi di
Mishima da leggere, senza dubbio consiglieremmo i quattro testi che compongono
la tetralogia de “Il mare della fertilità”: “Neve di Primavera”, “Cavalli in
fuga”, “Il tempio dell’alba” e “La decomposizione dell’angelo”. Quattro libri, composti nella parte finale
della sua vita, con trame diverse ma unite in continuum temporale che unisce
alcune situazioni ed uno dei protagonisti. Quattro libri che si inseriscono in
una storia vasta e complessa che altro non è che una metafora ficcante ed
esauriente del senso della vita. Non a caso, l’ultimo dei quattro, “La
decomposizione dell’angelo”, venne completato la notte del 24 novembre del
1970. L’ultima notte del più grande scrittore giapponese (e non solo) del
Novecento, dell’uomo che poche ore dopo sarebbe diventato definitivamente
l’ultimo, autentico samurai. L’uomo che divenne esattamente come Isao, il
protagonista di “Cavalli in fuga” che nel togliersi egli stesso la vita, con
l’antico rituale, sentì, nel momento estremo, il Sole che gli esplodeva dentro,
dietro le sue pupille. Perché era lui stesso ad essere diventato pura luce.
Quella mattina dell’ormai lontano 25 novembre del 1970 fu il momento in cui
l’uomo Mishima divenne immortale e quel rituale fece diventare la sua vita un
capolavoro.
“Da qualche
parte deve esistere un principio più elevato che riconcili l’Arte e la Vita.
Poi ho intuito che quel principio era la Morte”.