Il regista nostrano Lucio Fulci per alcuni è stato
solamente un discreto mestierante della settima arte, per altri un artista che
portò lustro alla cinematografia italiana.
Il suo nome rimane tutt’oggi sconosciuto ai più
(soprattutto a coloro convinti che il cinema sia nato ad Hollywood) ed il suo
nome è legato principalmente a pellicole che hanno fatto la storia del thriller
e dell’horror.
Venne definito “il poeta del macabro”, in effetti
nei suoi film thriller/horror, generi che iniziò a frequentare con regolarità
solo dalla fine degli anni ’60 (a partire dal conturbante “Uno sull’altra” con
Marisa Mell protagonista), si fece strada quella sua propensione per le
atmosfere non solo torbide ma anche appunto macabre. Se il film sopra
menzionato è l’incipit da cui partire, fu dagli albori degli anni ’70 che Fulci
seppe dare una virata decisiva ed un’impronta importante alle sue opere.
Egli non fu solamente un regista visionario ma fu
anche abile nel raccontare storie perfette e/o allucinanti grazie alla sua prodigiosa
tecnica cinematografica, a volte mortificata dall’assoluta modestia dei mezzi a
disposizione.
Come non pensare alle antiche credenze e
insradicabili pregiudizi all’interno di “Non si sevizia un paperino”? Con,
sullo sfondo, una serie di omicidi di bambini, un ambiente arcaico e un
insospettabile assassino. Oppure l’allucinante giallo “Una lucertola con
la pelle di donna” con una eccezionale Florinda Bolkan, alla straordinaria
sceneggiatura ad incastro di “Sette note in nero” (un puzzle con un tempo scandito
alla perfezione) con risvolti psicanalitici sinistri ed inquietanti.
“Terrorista dei generi” venne definito Fulci ed
infatti, prima della sua svolta horror, negli anni ’70, seppe deliziare con
l’adattamento del romanzo di Jack London “Zanna Bianca”, per poi transitare dal
western con “I quattro dell’Apocalisse” e con il poliziesco “Luca il
contrabbandiere”. Due film apparentemente diversi ma accomunati da due scene di
tortura che andranno ad anticipare la sua propensione al gore. In questi
due film, con protagonisti due icone come Tomas Milian e Fabio Testi, ci fu la
scoperta ed il lancio verso quella poetica del macabro che poi esplose negli
anni successivi. A partire da “Zombi 2” che riprendeva la figura del morto
vivente non più calata nell’ottica moderna ma ricondotta verso quel mondo
antico ed arcano (la Giamaica) e ai riti voodoo (come dimenticare scene culto
come l’occhio trafitto di Olga Karlatos). Gli zombi di Fulci, rispetto a quelli
di Romero, sono morti e basta. Desiderosi di cibo e senza alcuna valenza
sociologica.
Che dire poi di “Paura nella città dei morti
viventi” (film di chiara impronta lovecraftiana), della trama esile ma
visionaria de “L’aldilà”, delle critiche alla psicologia di “Quella villa
accanto al cimitero”, un film in cui i vari protagonisti sono perfetti nei loro
ruoli e funzionali ad una storia che strizza l’occhio al famoso “Giro di vite”
di Henry James.
Infine “Lo squartatore di New York”, giallo iper
violento e disturbante, accusato di misoginia (un’accusa spesso mossa a Fulci),
inno alla solitudine di uomini persi in una metropoli che altro non è che una
giungla in cui sopravvive solo il peccato.
Dalla metà degli anni ’80 sopraggiunse la malattia
che lo portò a dirigere pellicole debolissime, fatte esclusivamente per scopi
ecomomici. Ma di lui resta fondamentalmente altro. La sua maestria nella regia
(certe sequenze non si dimenticheranno mai), la capacità di trasformarsi
attraverso i generi e di ignorare le critiche mosse alle sue pellicole,
definite in modo sprezzante dei banali B movie incentrati solo sullo splatter
ed il gore.
Lucio Fulci, insieme a Bava, Margheriti e ad
Argento, è stato il nostro miglior regista in ambito thriller/horror.