"Soffro
di un tempo che mi è estraneo ma non pretendo il diritto di essere escluso da
questo soffrire. È la sofferenza degli spiriti superiori nel nostro tempo."
Se c’è un autore che ha attraversato con costrutto ed operosità viva tutto
il Novecento, questo fu Ernst Jünger.
Un secolo denso di avvenimenti, esperienze, guerre, tensioni, mutamenti,
conflitti, miglioramenti e peggioramenti. Jünger li visse tutti, fino in fondo. immergendosi in essi e traendone le vere essenze.
Attraversò, senza conciliarli, gli opposti della nostra epoca. Fu guerriero e
fautore della pace, individualista ma anche sovraumanista, fu soldato ed aperto
alle esperienze della trincea ma anche amante della Macchina e della Natura.
Percorse la modernità descrivendola come un sentiero stretto, compreso tra il
precipizio della tecnica e l’altezza della divinità.
Jünger fu il più grande scrittore di guerra (“Tempeste d’acciaio”), ed ebbe, al
pari di Evola e Pasolini quello sguardo profetico su quel futuro tanto
descritto ed anticipato dai cosiddetti scrittori “della crisi”.
“L’operaio”, sua opera centrale è un’analisi sull’epoca mondiale dominata dalla
tecnica. Tecnica intesa come quella sfida lanciata dalla modernità, che va riconosciuta,
in modo tale da poter dominare ed indirizzare e non subire passivamente. Oltre
il nichilismo del mondo moderno, Jünger, alla fine del tunnel
della disgregazione, scorge una luce, o per meglio dire una nuova strada. Una
strada che si apre, grazie al suo pensiero intuitivo, ad una specie di nuovo
umanesimo.
Un superamento dell’umano in una dimensione totalmente nuova. Quasi mitologica.
Che trasforma il lavoratore in un nuovo titano che unisce il meccanicismo in
una struttura di pensiero integrale che piega i ritmi in una sorta di nuova
spiritualità.
La sua pubblicistica è sterminata, tra saggi, racconti, romanzi, epistolari e
diari ed è davvero difficile condensare in poche righe le sue analisi e i suoi
pensieri.
“Oltre il muro del tempo” è un approfondimento sul tema del tempo secondo una
grandiosa visione d’insieme: un’immagine metafisica che, in quanto tale, trova
nel mondo fisico la sua controparte. Lo scrittore tedesco non si limita, così,
a svilire le ormai sempre più screditate visioni ottimistiche e progressistiche
di radice illuministica.
Non una visione lineare e progressista della storia ma al pari di Eliade, Jünger rivisita la concezione circolare del tempo. Non esiste un progresso rettilineo.
Attraverso la storia della terra e la divisione in cicli metafisici e
sovraumani, la lunga analisi del saggio porta ai tempi ultimi. I tempi in cui
pochissimi uomini possiedono strumenti adatti all’adesione al nuovo ciclo, al
disvelamento, alla frantumazione della crosta nella quale siamo avvolti dalla
Tecnica (concetto che sarà spesso presente nelle sue analisi). Una possibilità
a cui l’umana natura può giungere pagando un prezzo altissimo di sofferenza e
dolore, così da poter accogliere la metamorfosi in vista di una nuova libertà.
L’uomo moderno “differenziato”, quindi è al centro di un’epoca spaventosa ed in
balia di forze elementari e caotiche da cui può “ritirarsi”, agendo su se
stesso ma soprattutto dandosi al bosco.
Quel bosco tratteggiato alla perfezione in quell’altra sua opera basilare (al
pari di “Cavalcare la tigre” di Evola) che fu “Il trattato del ribelle”, la cui
traduzione italiana del titolo non rende appieno il senso. Nell’edizione
tedesca il titolo è “Der Waldgang”, cioè “colui che si dà al bosco”. Il ribelle
(nel titolo italiano) quindi è colui il quale si ritira dal mondo, “passa al
bosco”, avendo possibilità nulle di incidere su di esso, cercando di preservare
la sua interiorità, i suoi valori e la sua libertà.
Ecco quindi l’anarca juengeriano, il nuovo ribelle che lotta contro il nulla e
la decadenza, riscoprendo e rivalutando la propria consapevolezza, mantenendo
intatto il suo nucleo inviolabile e la sua profondità. In uno stile severo ed
asciutto, aderente nella sua interezza a principi dimenticati. In un cerchio ed
in una cittadella inespugnabile. Da cui condurre una lotta di resistenza ma
anche di testimonianza.
L’immensa portata
dell’opera juengeriana è impossibile da ingabbiare in poche righe.
Restano disseminanti nel tempo, per chi ha voglia di approfondire, “scogliere
di marmo”, “passaggi al bosco” e radure di luce.
Bagliori e sentori di un autore “titanico” di un secolo infame che, come ebbe
modo di dire Alain De Benoist, non concesse il Nobel ad un autore complesso e
profondo che, come una sentinella silenziosa, si stagliò sul confine del nulla.