Necessità dell'esempio - A.Carrel

Oggi, stranamente, i giovani che assistono passivamente al crollo della civiltà, sono prodotti dalla scuola attiva; si dimostrano poco istruiti, furbi, scaltri, imbroglioni e sprovvisti di carattere e di senso morale. Non si tratta forse di deficienze dipendenti da gravi lacune dell'insegnamento? Ad esempio, quanti pedagoghi si impegnano nel forgiare la volontà, nel coltivare il dominio di sé? Generalmente la famiglia è un ambiente educativo deplorevole, poiché i genitori moderni non sanno niente di psicologia dell'infanzia e della gioventù, e sono troppo ingenui, troppo nervosi, troppo deboli o troppo severi. Si direbbe che la maggior parte di essi coltivi l'arte di trasmettere difetti ai giovani e sia prima di tutto occupata dal lavoro, dagli affari e dai piaceri. Troppi bambini assistono spesso in famiglia allo spettacolo della volgarità, dei litigi, dell'egoismo, del vizio; e quelli che non vengono iniziati alla vita dai genitori, lo sono inevitabilmente dagli amici. Si può dire senza esagerazione che molti genitori moderni, a qualunque classe sociale appartengano, sono troppo ignoranti per allevare i figli. Le scuole non sono ancora qualificate per sostituirli, poiché spesso l'esempio dato dagli insegnanti agli allievi non è migliore di quello dei genitori. Come insegnava Montaigne, i bambini non hanno solo bisogno di precetti e di parole, ma specialmente di esempi e di fatti. Insomma, né la scuola né la famiglia sono attualmente in grado di insegnare alla gioventù come comportarsi; in questa gioventù si vede anche riflessa, come in uno specchio, la mediocrità degli educatori. L'educazione non mira alla formazione della mente, limitandosi praticamente alla preparazione di esami, semplice esercizio di memoria grazie al quale si producono solo "asini carichi di libri". Ma i giovani allevati in questo modo sono incapaci di comprendere la realtà e di svolgere la loro funzionale naturale nella società.

Tratto da “Riflessioni sulla condotta della vita” di A.Carrel (Ed.Cantagalli)




Tempo sacro

Il modus vivendi, oggigiorno, appare improntato esclusivamente sullo "svago". Il "divertimento" a tutti i costi, il "fare" ossessivo, il dinamismo esasperato, sembrano aver soppiantato definitivamente, in tutto e per tutto, cultura, riflessione, introspezione.

Il modello imposto dalla società moderna, de facto, è quello di un uomo in perenne attività, teso, affannato, alla costante ricerca, come un folle rabdomante, di una fonte d'intrattenimento che non lo faccia sentir solo, escluso, annoiato. Questi ritmi forsennati, sciorinati come modelli vincenti, tendono ad annullare, quasi nella totalità, il tempo sacro che ognuno di noi dovrebbe dedicare a pensare, a nutrire mente e spirito critico, a riordinare le idee, a leggere, a coltivare quella solitudine "buona" tanto criminalizzata nell'era digitale, dove l'apparenza e l'alimentazione esasperata del proprio ego virtuale appaiono indispensabili per vivere degnamente. Tutto ciò, erroneamente etichettato come misantropia, non è altro che riscoperta. Divertimento, svago, rapporti umani sono chiaramente essenziali, ma dovrebbero essere intrisi di realtà e sincerità, scrostati dalla superficialità tipica del nostro tempo, non degenerando, come sistematicamente accade, in una nevrosi tale che ne pregiudichi i benefici. Comprendere ciò, dunque, sarebbe oltremodo essenziale. Una scelta qualitativa imprescindibile per ritrovare sé stessi e cogliere quegli squarci di luce inaspettati che sovente albergano laddove meno ce lo aspettiamo.

" Vedi come ti stimo: oso affidarti a te stesso" ( Seneca) 




Poeti, artisti, eroi, santi pensatori, scienziati, navigatori

Eravamo santi, eroi, pensatori, poeti, navigatori. Creatori, eredi e custodi di una storia legislativa millenaria, madre di tutta la tradizione giuridica occidentale. Eravamo la culla della cultura europea, terra di bellezze architettoniche impareggiabili, capaci di slanci produttivi eccezionali. Eravamo inventori, patria d' uomini eroici che facevano dell'azione e dell'audacia il loro modus operandi, esempio per il mondo e punto di riferimento per secoli. D'un tratto, però, sembriamo dei buoni a nulla. Vendiamo i nostri gioielli industriali a fondi d'investimento stranieri, delocalizziamo, mortifichiamo e rendiamo precari a vita i nostri giovani, oramai carne da macello per il dio mercato. Siamo merce, specchio fedele di quello stereotipo d'italiano arruffone, servo scaltro, opportunista, buontempone, figlio dell'immagine propugnata dai nostri nuovi padroni nell'immediato secondo dopoguerra, rilanciata senza pudore da pennivendoli, pseudo artisti e intellettuali asserviti. Siamo diventati solo una meta turistica da prendere d'assalto, che deturpa il suo paesaggio mediante una urbanizzazione sfrenata, che non è abile ad essere artefice del suo destino, che deve essere accompagnata per mano, mentre sorride, verso il baratro. Siamo italiani, e non più fieri di esserlo. Tenuti in gabbia da un'Europa di burocrati e di squali dell'alta finanza, vittima sacrificale sull'altare del progresso scientifico, terra di conquista, avanguardia d'ogni più vile sperimentazione. Monitorati, in via d'estinzione, pronti ad essere sostituiti, siamo burattini senza fili nelle mani del mangiafuoco di turno. Controllati, minacciati, in costante degenza ed osservazione, abbiamo dimenticato il nostro passato, venduto il nostro presente, pregiudicato il nostro futuro, raso al suolo tradizioni ed identità. Eppure, un tempo non troppo lontano, con pregi e difetti, esistevamo. Eravamo un popolo di santi, poeti, pensatori, eroi e navigatori.



L'opera di Jünger

"Soffro di un tempo che mi è estraneo ma non pretendo il diritto di essere escluso da questo soffrire. È la sofferenza degli spiriti superiori nel nostro tempo."

Se c’è un autore che ha attraversato con costrutto ed operosità viva tutto il Novecento, questo fu Ernst Jünger.
Un secolo denso di avvenimenti, esperienze, guerre, tensioni, mutamenti, conflitti, miglioramenti e peggioramenti. Jünger 
li visse tutti, fino in fondo. immergendosi in essi e traendone le vere essenze.
Attraversò, senza conciliarli, gli opposti della nostra epoca. Fu guerriero e fautore della pace, individualista ma anche sovraumanista, fu soldato ed aperto alle esperienze della trincea ma anche amante della Macchina e della Natura.
Percorse la modernità descrivendola come un sentiero stretto, compreso tra il precipizio della tecnica e l’altezza della divinità.
Jünger fu il più grande scrittore di guerra (“Tempeste d’acciaio”), ed ebbe, al pari di Evola e Pasolini quello sguardo profetico su quel futuro tanto descritto ed anticipato dai cosiddetti scrittori “della crisi”.

“L’operaio”, sua opera centrale è un’analisi sull’epoca mondiale dominata dalla tecnica. Tecnica intesa come quella sfida lanciata dalla modernità, che va riconosciuta, in modo tale da poter dominare ed indirizzare e non subire passivamente. Oltre il nichilismo del mondo moderno, Jünger, alla fine del tunnel della disgregazione, scorge una luce, o per meglio dire una nuova strada. Una strada che si apre, grazie al suo pensiero intuitivo, ad una specie di nuovo umanesimo.
Un superamento dell’umano in una dimensione totalmente nuova. Quasi mitologica. Che trasforma il lavoratore in un nuovo titano che unisce il meccanicismo in una struttura di pensiero integrale che piega i ritmi in una sorta di nuova spiritualità.
La sua pubblicistica è sterminata, tra saggi, racconti, romanzi, epistolari e diari ed è davvero difficile condensare in poche righe le sue analisi e i suoi pensieri.

“Oltre il muro del tempo” è un approfondimento sul tema del tempo secondo una grandiosa visione d’insieme: un’immagine metafisica che, in quanto tale, trova nel mondo fisico la sua controparte. Lo scrittore tedesco non si limita, così, a svilire le ormai sempre più screditate visioni ottimistiche e progressistiche di radice illuministica.
Non una visione lineare e progressista della storia ma al pari di Eliade, Jünger
 rivisita la concezione circolare del tempo. Non esiste un progresso rettilineo. Attraverso la storia della terra e la divisione in cicli metafisici e sovraumani, la lunga analisi del saggio porta ai tempi ultimi. I tempi in cui pochissimi uomini possiedono strumenti adatti all’adesione al nuovo ciclo, al disvelamento, alla frantumazione della crosta nella quale siamo avvolti dalla Tecnica (concetto che sarà spesso presente nelle sue analisi). Una possibilità a cui l’umana natura può giungere pagando un prezzo altissimo di sofferenza e dolore, così da poter accogliere la metamorfosi in vista di una nuova libertà.
L’uomo moderno “differenziato”, quindi è al centro di un’epoca spaventosa ed in balia di forze elementari e caotiche da cui può “ritirarsi”, agendo su se stesso ma soprattutto dandosi al bosco.
Quel bosco tratteggiato alla perfezione in quell’altra sua opera basilare (al pari di “Cavalcare la tigre” di Evola) che fu “Il trattato del ribelle”, la cui traduzione italiana del titolo non rende appieno il senso. Nell’edizione tedesca il titolo è “Der Waldgang”, cioè “colui che si dà al bosco”. Il ribelle (nel titolo italiano) quindi è colui il quale si ritira dal mondo, “passa al bosco”, avendo possibilità nulle di incidere su di esso, cercando di preservare la sua interiorità, i suoi valori e la sua libertà.
Ecco quindi l’anarca juengeriano, il nuovo ribelle che lotta contro il nulla e la decadenza, riscoprendo e rivalutando la propria consapevolezza, mantenendo intatto il suo nucleo inviolabile e la sua profondità. In uno stile severo ed asciutto, aderente nella sua interezza a principi dimenticati. In un cerchio ed in una cittadella inespugnabile. Da cui condurre una lotta di resistenza ma anche di testimonianza.

L’immensa portata dell’opera juengeriana è impossibile da ingabbiare in poche righe.
Restano disseminanti nel tempo, per chi ha voglia di approfondire, “scogliere di marmo”, “passaggi al bosco” e radure di luce.
Bagliori e sentori di un autore “titanico” di un secolo infame che, come ebbe modo di dire Alain De Benoist, non concesse il Nobel ad un autore complesso e profondo che, come una sentinella silenziosa, si stagliò sul confine del nulla.

Prince Rupert

"Antologia di Spoon River" di E.L. Masters

Perla d'inestimabile valore nel variopinto universo narrativo d'oltreoceano, l' "Antologia di Spoon River" di E.L. Masters è, senza dubbio, un caposaldo della letteratura del Novecento. Composto da una straordinaria e corposa raccolta di epitaffi, lo scrittore ed avvocato statunitense racconta, attraverso versi concisi e mordaci, le storie, prive di filtri e pulsanti d'esistenza pura, dei "dormienti" della collina, tralasciando volutamente giudizi e considerazioni morali sui comportamenti e sulle esperienze in terra dei protagonisti dell'opera. Attraverso l'intuizione geniale di dar voce a chi, per forza di cose, voce non ne ha più, l'autore, come una guida, ci accompagna per mano tra le lapidi "parlanti" di un piccolo cimitero del Midwest americano, donandoci un quadro unico, impietoso, crudo, talvolta intriso di meschinità, malinconico, doloroso, a tratti struggente, che rende uniche le vicende ivi narrate, scrostate meticolosamente da ogni alone d'idealizzazione letteraria, che punta dritto al cuore, allo stomaco, alle papille gustative esistenziali del lettore, senza lasciar volutamente spazio a facile retorica ed inutili lustrini. Affilato, reale, disincantato, odorante di "sangue" e di vita, il testo di Masters si traduce dunque in una cronaca dettagliata che squarcia il velo d'oblio che cala sui defunti, concedendo loro ancora un sussulto, un' ulteriore occasione di raccontare le proprie vicissitudini, di tramandare la propria versione dei fatti, donandoci quasi la sensazione di sfiorare il freddo marmo dei sepolcri, di passeggiare riconoscendo volti ed ascoltando storie trasudanti verità, in un affresco spietato, a tinte forti, specchio perfetto di un'umanità peccatrice, capace d'amare ed al contempo di odiare, eroica e vigliacca, incarnante una società ossimorica, ricca di contraddizioni, smantellata di valori, crudele, che, sovente, divora vorace ogni respiro, recidendo violentemente speranze e possibilità di redenzione.

"Tutti, tutti, dormono sulla collina"



Livellamento verso il basso

La banalizzazione mediatica del fenomeno dell'immigrazione di massa riduce il dibattito all'osso, creando due fazioni ben distinte: quella di chi predica accoglienza a tutti i costi, cieca dinnanzi ai reali scopi di tali " rivoluzioni", e quella di chi sbraita soltanto d'invasione, non argomentando la sua tesi in maniera esaustiva e fornendo perciò giustificazioni ed assist a chi invece lucra in maniera vergognosa da questa vera e propria tratta di nuovi schiavi. Oltre la coltre di fumo dolosamente costruita da chi fa il mistificatore di professione, perciò, il "piano" appare chiaro. Il peggioramento delle condizioni lavorative, soprattutto nei comparti manuali, l'esaltazione mainstream di fenomeni da baraccone grati, sfruttati e disposti ad ogni assurdo sacrificio per guadagnarsi da vivere, il proliferare di grotteschi nuovi indirizzi di studio, le tanto in voga università telematiche, la saturazione voluta di determinati settori per livellarne verso il basso le condizioni contrattuali, aprono la strada ad un cambiamento epocale, lasciando spazio ad una nuova classe d'individui disposti ad accettare l'umiliazione per sopravvivere. Sradicati, senza consapevolezza dei propri diritti, con carovane di figli al seguito, provenienti da terre sconvolte da continui tumulti e guerre, provocate anche con la collaborazione dalle potenze occidentali, gli individui in questione sono creta da modellare, i perfetti cittadini del futuro dell'"Europa unita". Il meccanismo, oramai ben oleato, sembra già produrre i suoi devastanti effetti sul nostro sistema economico. 

L'Italiano, in tutto ciò, che fa? Dormiente, abbandona ogni arte o mestiere, si specializza sino a 35 anni, attende con ansia il prossimo bonus o sussidio, mentre masse deportate cariche di vane speranze e false promesse, inquinano il mercato del lavoro, provocando un netto peggioramento dello status lavorativo della collettività. Purtroppo, come al solito, non si crede al santo finché non si vede il miracolo.