Il 14 marzo 1964 usciva "Sei donne per
l'assassino", il secondo giallo/thriller di Mario Bava.
"Sei donne per l'assassino" seguiva la
prima prova di Bava in questo genere ("La ragazza che sapeva troppo")
che, seppur piena di trovate interessanti, restava legata a stereotipi classici
dai rimandi hitchcockiani.
Con "Sei donne per l'assassino" invece cominciava qualcosa di
diverso. Ed iniziava non solo per la filmografia baviana ma per tutta la
cinematografia italica. Perché il suddetto film è un vero e proprio capostipite
di genere. È quell'inizio da cui hanno attinto tutti coloro i quali,
nella decade successiva si sono cimentati con il cosiddetto “thriller
all'italiana”, di cui Dario Argento è il più importante rappresentante.
Il film di Bava fu il primo. Fu quello che dettò le
regole.
Inquadrature magnifiche, colori mozzafiato, strabiliante fotografia, una storia
ingarbugliata e poco lineare che però punta su quei punti fermi che avranno
maggiore risonanza successivamente. I protagonisti, poco rappresentati, tendono
ad assomigliarsi come dei manichini (un atelier di moda è uno dei luoghi dove
si svolge maggiormente l'azione) e vengono utilizzati quasi come dei semplici
figuranti.
L'aspetto umano, in questa storia, viene messo in ombra. I protagonisti vengono
disumanizzati così come disumano appare il killer che, per la prima volta viene
mostrato come un essere senza volto. Un killer sadico e crudele, nero guantato,
inesorabile e silenzioso come la morte. La maschera, da lui utilizzata, è stata
precorritrice influenzando famose saghe come quelle di Halloween e Venerdì 13.
Il film mostra con estrema spudoratezza e morbosa
attenzione i dettagli degli omicidi e introduce anche quel fenomeno horror che
venne ribattezzato “body count” e che Bava andò a perfezionare in
"Reazione a catena".
Con la maestria che lo ha sempre contraddistinto,
Bava creò dunque un nuovo senso estetico di fare film thriller.
Un nuovo stile ed un nuovo metodo.
Una pellicola che si erge come un monolite all'interno di tutto un genere.