Se il secolo XX avrà un'insegna nella
storia futura, essa sarà quella del “progresso” perché mai nessun secolo vide,
e probabilmente vedrà, tante trasformazioni tecniche
quante il nostro. Queste grandi trasformazioni avrebbero dovuto porre l'uomo in
crisi di fronte al problema morale, politico ed estetico del significato e del
valore dei cambiamenti in atto; sono state invece accolte con disarmato
ottimismo e qualificate genericamente come avanzamento, come progresso, come
crescita. Il più grande successo del progresso tecnico è stato per l'appunto
quello di essere riuscito ad assorbire, o quanto meno ad attutire, tutte le
crisi che esso ha generato, di essere riuscito a dimostrare che anche la parte
nociva che produceva risultava a suo vantaggio, o perché era convertibile in
applicazioni benefiche (vedi l'utilizzazione dell'energia atomica per la
produzione di elettricità), o perché, rappresentando un pericolo, rendeva ancor
più imperativo un ulteriore progresso che servisse a neutralizzarlo (vedi l'uso
dei tranquillanti per superare gli effetti nocivi della vita moderna sul
sistema nervoso) .
I danni del progresso sono serviti soprattutto a trasferire l'attenzione dell'uomo verso i correttivi e i palliativi, e ad allontanarla dal problema principale che il progresso avrebbe dovuto porre, cioè quello del suo senso, del suo “bene”. (...)
Nell'idea di progresso è sempre presente l'aspirazione a rendere più semplici, più efficienti, insomma “più razionali gli strumenti per ottenere un risultato, che era già conseguito prima, ma in maniera involuta e inadeguata. La razionalizzazione risulta in ultima analisi un affrancamento da qualcosa di molesto o quanto meno di superfluo che ci ha proibito sinora la via più semplice per giungere allo scopo, tenendoci in una condizione di “repressione” di fronte alle nostre aspirazioni. Ma come spiegare storicamente il fatto che davanti a una finalità elementare da raggiungere l'uomo si sia smarrito in tortuosi labirinti e inutili complicazioni? La spiegazione che viene fornita è in genere questa: che alla finalità elementare si sono sovrapposti interessi oscuri che hanno deviato a loro profitto la spinta dell'uomo semplice verso la sua meta. Questi falsi scopi, queste finalità riposte complicano il semplice itinerario che l'uomo altrimenti percorrerebbe verso il suo paradiso. Bisognerebbe poter dimostrare, per sostenere questa tesi, che l'irrazionalità sia stata una deviazione della razionalità, una sua produzione secondaria. Io non so se ciò possa essere dimostrato, ma a me sembra comunque legittimo avanzare un'ipotesi diversa: e cioè che nel comportamento non razionalizzato ciò che è complesso non è il procedimento per raggiungere lo scopo, ma lo scopo stesso.
Scrive H.D. Thoreau : “Le nostre invenzioni sono…solo dei mezzi progrediti diretti a un fine troppo facile da conseguirsi”. La “razionalizzazione” non farebbe che sfoltire un universo di motivazioni per ridurlo a uno scopo solo, che inizialmente poteva non avere nel complesso che un valore collaterale, sussidiario. Lo scopo residuo non è quello primario, ma semplicemente quello che tecnicamente riusciamo a realizzare meglio, e che appare primario proprio perché è quello più a portata di mano. Scrive al riguardo R.S. Morison: “Per i nostri fini la parola chiave è razionalizzare. In verità i nostri sistemi razionalizzati sembrano aver sviluppato la capacità di vivere di vita autonoma, così che gli uomini qualunque sono forzati, contro la loro volontà, a seguire gli sviluppi di un processo logico… La professione medica segue le orme del suo dinamico programma di ricerca e si accinge a compiere i trapianti cardiaci, con grande dispendio, soprattutto perché ha trovato come farli.
Noi “razionalizziamo” quindi spesso le
nostre pratiche escludendo dalle nostre finalità tutto ciò che in esse vi è di
meno accessibile e indichiamo come unico scopo ciò che ci è possi- bile
ottenere più direttamente. Questo ci dà la sensazione di essere sempre più
efficienti, ma impoverisce progressivamente i nostri fini. Al limite rischia di
far sorgere in noi una profonda ostilità per quei fini che non siano
chiarissimi, per ogni alta finalità, per ogni finalismo.
Prendiamo ad esempio la storia della “casa”. Ad essa attribuiamo come unico fine razionale quello di fornirci rifugio e conforto, al minor costo possibile. Ma è questo lo scopo originario della casa? “Ogni nuova casa che si costruisce”, scrive Mircea Eliade, “imita ancora una volta, e in certo senso ripete, la Creazione del Mondo…Come la città è sempre una imago mundi, così la casa è un microcosmo. La soglia separa i due spazi, il focolare è assimilato al centro del mondo…Ogni abitazione, mediante il paradosso della consacrazione dello spazio e mediante il rito della costruzione, è trasformata in un centro, e quindi tutte le case – come tutti i templi, i palazzi, le città - sono situate in un solo e medesimo punto comune, il Centro dell'Universo”. Questa finalità cosmogonica della casa, questa necessità rituale nella sua costruzione non sono motivazioni aggiunte e sovrapposte a una finalità originaria pratica e razionale. Sono motivazioni genuine e primarie. Non sono sovrastrutture che nascondono interessi estranei, anche se, in una condizione di degradazione dei significati e dei riti, qualcuno può aver sfruttato questa esigenza primaria attribuendosi il diritto esclusivo di fabbricare e vendere Centri di Universo e Creazioni del Mondo.
L'architetto razionalista tende ad attribuire alla casa una funzione immediata e quindi, in definitiva, “animale”, di rifugio e protezione dalle avversità. Eppure, salvo rare eccezioni, gli animali, e particolarmente i mammiferi e i primati, non si costruiscono alcuna abitazione. La spiegazione “protettiva” della casa fornisce quindi verosimilmente una ragione secondaria e accessoria. Si può ipotizzare che l'uomo abbia dapprima inteso la fondazione della sua dimora come delimitazione di uno spazio, con significato rituale-religioso. Egli si è trovato poi di fronte all'esigenza di difendere quel territorio, più che se stesso, di proteggere un contorno che definiva il suo mondo, più che proteggere la propria persona. La protezione personale resta quindi come una motivazione forse necessaria, ma insufficiente, e storicamente secondaria e inadeguata a giustificare la casa in tutte le sue strutture e nelle sue dimensioni Le ragioni originarie della costruzione della casa sono realmente scomparse, o sono state solamente messe da parte dall'assolutismo razionalista che ha adottato motivazioni “animali” (o estetizzanti) come esclusivo criterio di valutazione e di progresso? In questa seconda ipotesi il costo del progresso sarebbe una costante perdita di significati, e la casa razionalizzata assolverebbe solo a una funzione accessoria, privandosi di quei valori che ne avevano motivata la fondazione.
Considerazioni analoghe possiamo fare riguardo alla trasformazione più importante che si è verificata nella preistoria umana, cioè al passaggio dalla vita nomade dei cacciatori e dei pastori all'insediamento stabile degli agricoltori. In termini di progresso quantitativo si può dire che la nascita dell'agricoltura ha permesso un aumento grandissimo di risorse alimentari e una conseguente crescita della popolazione. Ma sono questi gli apporti più rilevanti che l'origine dell'agricoltura ha portato alla civiltà umana?
“Il destino dell'umanità”, scrive Mircea Eliade, “non fu deciso né dall'aumento di popolazione né dalla sovralimentazione, bensì dalla teoria che l'uomo elaborò scoprendo l'agricoltura. Quel che egli ha veduto nei cereali, quel che ha imparato da questo contatto, quel che ha inteso dall'esempio dei semi che prendono la loro forma sottoterra, tutto questo rappresentò la lezione decisiva. L'agricoltura ha rivelato all'uomo l'unità fondamentale della vita organica. Tanto l'analogia donna-campo, atto generatore- semina, ecc., quanto le più importanti sintesi mentali uscirono da questa rivelazione: la vita ritmica, la morte intesa come regressione, ecc. Queste sintesi mentali sono state essenziali per l 'evoluzione dell'umanità e furono possibili soltanto dopo la scoperta dell'agricoltura… Per l'uomo primitivo, l'agricoltura, come ogni altra attività essenziale, non è una semplice tecnica profana. Essendo in relazione con la vita e ricercando l'accrescimento prodigioso della vita presente nei semi, nei solchi, nella pioggia e nei geni della vegetazione, l'agricoltura è soprattutto un rituale… L'agricoltore penetra e si integra in una zona ricca di sacro; i suoi gesti, il suo lavoro sono responsabili di conseguenze importantissime, perché si compiono entro un ciclo cosmico, e l'anno, le stagioni, l'estate e l'inverno, il periodo delle semine e quello del raccolto, fortificano le proprie strutture e prendono ciascuno un suo valore autonomo”.
La rappresentazione progressista della civiltà coglie nell'agricoltura solo il valore alimentare: la terra è concepita come fonte di produzione di sostanze nutritive e in definitiva di frutti economici. Il lavoro agricolo appare come rozza fatica e sfruttamento servile. La macchina entra nei campi e aumenta la produzione riducendo la fatica. Gli uomini abbandonano il luogo dello sfruttamento e si portano nella città, dove sono destinati i prodotti della terra che qui vengono consumati e goduti. Ridotta a tecnica profana, l'agricoltura non è che un'industria sporca di terra ed esposta alle intemperie e alle incertezze del tempo. Il progresso tecnologico dell'agricoltura e la nuova esplosione demografica hanno lasciato da parte come pregiudizi e superstizioni tutti i valori, le analogie, le teorie, i ritmi, che rappresentano – secondo Eliade - il contributo più fondamentale dell'agricoltura alla civiltà umana. Essi sono stati abbandonati semplicemente perché estranei a una visione economico-razionale della realtà. Si obietterà che le “lezioni” dell'agricoltura preistorica sono state acquisite dalla scienza, che ha rivelato analogie e leggi ben più precise e ampie di quelle della esperienza religiosa primitiva. Ma queste nozioni sono divenute un corpo astratto, un fatto di erudizione avulso dalla vita, e in particolare dalla vita dell'uomo semplice, che ha assimilato i ritmi, la logica, le teorie meccaniciste del mondo della produzione industriale. La trasformazione del mondo agricolo tradizionale nel mondo moderno è avvenuta ed è continuata sul filo di una giustificazione progressista che ha risolto l'intera realtà civile in termini di produzione e consumo.
L'uomo moderno non ha trovato una
differente soluzione per i problemi esistenziali e morali posti dalla vita
agricola, bensì ha semplicemente cambiato i suoi problemi, interessandosi
principalmente a quelli che egli era in grado di risolvere, misurando la
propria capacità nella misura in cui era capace di risolverli. La
logica dello sviluppo economico moderno non è quella di cercare prodotti
per i bisogni dell'uomo, ma quella di cercare bisogni umani per i
propri prodotti. “In verità, si può mostrare”, scrive Morison, “che il
moderno opulento consumatore è, in certo senso, vittima di desideri sintetici
che sono creati, piuttosto che soddisfatti, dall'incremento di produzione”.
L'insieme di questi desideri provocati e alimentati dalla produzione compone la
fisionomia dell'uomo moderno, un essere altamente “razionale” perché desideroso
proprio di quelle cose cui può razionalmente accedere.
Ogni nuova civiltà finisce col creare o
scegliere i desideri umani, conferendo ad alcuni di essi una dignità superiore.
Nella civiltà industriale avanzata non si è coscienti che questa creazione
porta alla fondazione dell'uomo, e non ci si preoccupa di che cosa
quest'uomo si avvii ad essere. L'uomo è considerato come una realtà
biologica già data, da esaminare e analizzare così come si compie un'analisi
biologica o un'indagine di mercato.
La dinamica dei processi economici offre all'uomo non solo il modo di soddisfare i suoi bisogni, ma anche teorie sull'esistenza, analogie e sintesi mentali sostitutive di quelle della civiltà agricola: essa ci fornisce la logica del profitto e dello sfruttamento, della domanda e dell'offerta, l'analogia vita-macchina, l 'equiparazione tempo-denaro, l'ideologia del successo e tutto un insieme di modelli mentali, di cui il più significativo è quello del progresso.
La critica che in sintesi si può rivolgere
al progressismo è quella di aver adottato per l'uomo e per la società delle
finalità accessorie, per la sola ragione di avere a disposizione i mezzi
tecnici per realizzarle, e di avere - più o meno consapevolmente - individuato
la vera fisionomia dell'uomo nella propensione a perseguire queste finalità. In
pochi decenni l'uomo si trova in crisi proprio di fronte alle motivazioni di
fondo, alle ragioni della vita sociale e della sua personale esistenza.
Fonte: tratto da "Il crepuscolo dello scientismo" di G.Sermonti (Rusconi editore)