La società del nostro tempo cavalca l’onda del
distanziamento fisico-sociale per allontanarci mente e corpo gli uni dagli
altri. Tale distacco appare un evento inedito, totalmente immerso nella
narrazione pandemica, da farci dimenticare che questa postura antropologica ha
il suo punto di origine in un’epoca più lontana. La pratica del distanziamento
è la continuazione su scala sociale della rivoluzione tecno-scientifica
intrapresa nella prima modernità. È in quel punto cruciale che comincia
inesorabilmente a sparire il reale, inteso in quanto datità ontologica,
generando un graduale e irreversibile moto di allontanamento dei soggetti dal mondo,
dei soggetti dai soggetti, del soggetto da sé stesso.
La rivoluzione scientifica, nonostante la forza
propulsiva di affrancamento dalla cultura dogmatica ed elitaria tipica delle
società pre-moderne, fin dalla nascita portava con sé il germe di un processo,
ancora in atto, di tecnicizzazione della realtà, che ha come esito una
concatenazione di effetti collaterali sul rapporto tra soggetto e mondo. La
tecnica ha permesso all’uomo di migliorare la propria condizione di vita
prolungando il suo corpo oltre la materialità di cui è composto: nelle ali di
un aereo, nel motore di un’auto, nelle lenti ottiche che permettono di vedere
il microcosmo e il macrocosmo.. ma ha avuto immediatamente un risvolto negativo
cruciale, denunciato in più occasioni da pensatori e letterati dei secoli
successivi: la dissolvenza dell’essere a vantaggio dell’ente. La tecnica e la
scienza sperimentale operano nell’ordine superficiale ed esteriore degli enti
(le cose concretizzate e oggettificate), contribuendo a stratificare un mondo
apparente al di sopra del mondo essenziale, quello dell’essere puro; mediante
le sue leggi ‘oggettive’ e le sue tecniche sperimentali, provoca una
separazione dolorosa dalla natura, illudendo l’uomo di potersi sostituire al
creatore, ossia di poter agire sulla natura, modificandola a suo piacimento. La
natura, per l’uomo moderno, assume le sembianze di un luogo adibito allo
sfruttamento, nel quale si forgiano gli strumenti per il ‘miglioramento’ delle
condizioni esteriori dell’uomo. Questa nuova visione distorta della realtà,
come di un’entità fisica da spremere fino ad ottenere tutto quanto è possibile
avere, comporta l’esaurimento della natura, come accade per le sue risorse
(questioni ambientali), per le dinamiche economiche (consumismo sfrenato), e per
la sfera sociale e individuale, ne sono esempi la modificazione del corpo umano
sia su scala genetica sia nell’ambito estetico-chirurgico. Tutte pratiche
contro-natura che riflettono la mancata accettazione di sé.
I soggetti, non riconoscendosi più come elementi
costitutivi di una realtà organica, di un creato coeso, ritengono sé stessi
enti svincolati, individualizzati e singolarizzati, e considerano ciò che è al
di fuori di loro come qualcosa di estraneo con cui entrare in rapporti
sporadici e utilitari in caso di necessità. In questo senso, la natura è un
laboratorio strumentale e gli altri soggetti agenti nel mondo diventano mezzi
con cui raggiungere i propri scopi materiali. L’ottica strumentale e reificante
del reale ha una storia secolare, che via via si è allargata ad ogni aspetto
della realtà, manifestandosi ora in tutta la sua crudezza nel rito pandemico
della distanza sociale e in tutti gli altri distanziamenti operati nella nostra
società. Sono distanziamenti: il digitale, che sostituisce brutalmente la
realtà vera con una finzionale; l’economia finanziaria, che ha anestetizzato
l’economia reale con le transazioni virtuali e l’annullamento del valore reale
della moneta; l’arte bellica, che non mette in campo una battaglia ma che si
riduce ad una gara impersonale e vigliacca a chi possiede l’arma più letale; lo
sconcertante scollamento tra masse e potere che fa della politica attuale la
squallida e deleteria parodia della politica vera
Questa presa di distanza dai soggetti e dal mondo si
ripercuote anche sul soggetto in sé, che sperimenta l’allontanamento ontologico
dal proprio essere, cioè il distacco del soggetto da sé stesso. La paura e la
volontà di controllo hanno reso gli uomini individui distanziati dalla loro
stessa natura, incapaci di accettare e affrontare, seppur nella fatica, il
proprio sé. Ridotti a voler evadere dalla loro stessa pelle, gli uomini
tracotanti sognano la metamorfosi in entità ‘superiori’, transumane o postumane
che siano, e sono disposti a strumentalizzare il proprio essere, agendo con lo
stesso metodo adottato nei riguardi della natura, pur di vedersi diversi da
come sono. Il corpo diviene ancora una prigione, come accadeva anticamente, ma
non dell’anima questa volta (quella ormai è trasmigrata in forme di vita più
intelligenti rispetto alla nostra) bensì del capriccio, del desiderio,
dell’invidia e come tale il corpo dev’essere superato e mortificato, per
intraprendere un gioco in cui ci si diverte ad essere altro da sé, un po’ Dio
creatore, un po’ fluido, un po’ irreale. Andrebbe bene qualsiasi forma pur di
scappare dalla dura realtà, della quale non si fa più lo sforzo di sopportarne
la finitezza, la mortalità e la faticosità.
Anziché fare i conti con sé stessi si opta per compiere l’ultimo
distanziamento, il più letale, che è quello da noi stessi e dalla naturalità
del nostro essere in cambio di un’apparenza più facile o più bella.
Avvolti in questo velo di Maya, gli uomini pensano
di aver dominato la realtà e invece perdono continuamente sé stessi, gli altri
e il mondo.