Note sul tema dell'aborto

L' aborto è una scelta dolorosa e una pratica altamente traumatica per molte persone che vi ricorrono, non vogliamo formulare alcun genere di giudizio morale su chi ha abortito volontariamente. Per noi nessuna questione morale ha senso se non è posta a partire da dei principi che la orientano; è appunto sui principi che ci interroghiamo. Tutto il resto viene dopo e di conseguenza, e l'ordine del discorso, dal nostro punto di vista, non può essere invertito.

1. Prendiamo atto che per molti, data la legge, la questione è chiusa e non si ritiene opportuno alcun commento o dialogo. Non abbiamo obiezioni: sappiamo che esiste una legge, ma questo non ci impedisce, né impedisce a nessuno, di continuare ad interrogarsi sul problema, malgrado il fastidio che ciò può provocare ai più radicali sostenitori. Allo stesso modo, accusarci di “filosofeggiare” o ricorrere a “supercazzole” al fine di delegittimare ciò che scriviamo, ci lascia indifferenti: se per qualcuno cercare di ragionare è ozioso, o non ha pazienza e risorse per farlo, che si dedichi pure ad altro. La nostra via è, al contrario, cercare di capire ponendo questioni ed esercitando la ragione critica, anche quando l'argomento è considerato sensibile o tabù. Qualcuno ha sostenuto che le domande e le loro formulazioni fossero tendenziose. Lo sono nella misura in cui esprimono la prospettiva e l'ordine del nostro interrogarci, e pongono una gerarchia dei punti che consideriamo fondamentali, ossia l'umanità e i diritti del feto in primis, e successivamente le possibili conseguenze politiche e sociali di una definizione arbitraria di umanità. Siamo consapevoli che esistono molte altre domande e prospettive possibili, ma questa è stata scelta perché ci sembra quella che punta maggiormente al cuore del problema.

2. L'argomento più citato dai sostenitori dell'aborto è il noto adagio, cavallo di battaglia del femminismo, sul diritto inalienabile della donna a decidere del proprio corpo. Questa assunzione meriterebbe una discussione puntuale, ma ci limiteremo solo ad alcune note, anche perché in genere chi lo sostiene non è interessato a discuterla. In sostanza, si tratta di uno slogan retorico, ideologico e sostanzialmente privo di significato senza un contesto adeguato. È indiscutibile che la donna, come l'uomo, abbia il sacrosanto diritto a decidere del proprio corpo; ciò di cui si dibatte, infatti, non è questo, ma se tale diritto possa essere esercitato a scapito di un altro essere   umano. Di qui la necessità di determinare se il feto sia un essere umano o meno, o quando lo diventi. L'inconsistenza dell'argomento è palese laddove si rifletta sul fatto che, ammesso che si consideri il feto un essere umano, almeno metà dei feti abortiti sono “corpi di donna” a cui si sottrae qualsiasi diritto di autodeterminazione. Di passata, inoltre, è indispensabile far notare che l'essere umano non si riproduce per partenogenesi, quindi, a rigore, nel ventre gravido non è presente solo la madre, ma anche il padre; aspetto, quest'ultimo, le cui implicazioni i sostenitori dell'argomento tendono a trascurare e a disconoscere. Sia quel che sia, il tema della gravidanza è comunque un argomento destinato, ironicamente, a perdere l'egemonia femminista: la teoria del gender che si sta imponendo progressivamente, infatti, sottrarrà al femminismo il suo cavallo di battaglia, non potendosi più affermare la maternità come prerogativa femminile, e si passerà ad un più generico (e zootecnico) diritto all'autodeterminazione del ventre gravido. Come per altre battaglie ideologiche, il femminismo, dopo essere stato un'utile base di consenso militante, sarà anche stavolta sconfessato e scaricato dai padroni del discorso, i quali prediligono in questa fase il più avanzato orizzonte genderista.

3. Troviamo poco convincente l'argomento secondo cui la legalizzazione dell'aborto sarebbe necessaria per arginare i rischi legati alla clandestinità e all'illegalità. Nei paesi in cui l'aborto è illegale, lo è perché lo si considera un crimine a partire da un quadro etico e normativo di riferimento. In genere, un crimine non si affronta rendendolo legale, ma estirpandolo o punendolo. Sarebbe come dire che siccome la gente viola frequentemente i limiti di velocità, i limiti di velocità andrebbero alzati. Che vi sia un rischio sanitario nell'abortire clandestinamente, che tale rischio sia maggiore per i poveri che per i ricchi, che l'aborto sia da sempre praticato a prescindere che sia considerato lecito oppure no, è sicuramente vero, ma non ha pertinenza con le domande poste, né con il piano del discorso su cui ci si sta interrogando.

4. Varie proposte sono state formulate per stabilire il limite tra umano e non umano (attenzione: non abbiamo parlato di vita in generale, ma di essere umano portatore di dignità e diritto). Facciamo notare che collegare univocamente l'umanità alle facoltà senzienti e razionali, o alla piena funzionalità psico-motoria, rende per definizione anziani, disabili fisici e psichici, nonché molti ammalati, non umani. Serve ricordare dove conduce questa linea di pensiero? Più coerentemente altri hanno indicato la nascita del bambino come criterio di demarcazione. Anche in questo caso, però, si sollevano quesiti ineludibili: ad esempio, un bambino nato prematuro di otto mesi in che cosa sarebbe più umano di un feto di otto mesi nel grembo materno? Altri hanno scritto che la questione è irrilevante, o che in tale materia è possibile e opportuno ricorrere a una convenzione o a un compromesso. Ci sentiamo di dire che la questione secondo noi è altamente rilevante, visto che permette di distinguere l'omicidio (anche se legale e socialmente accettato) dall'intervento chirurgico.

Concludiamo queste brevi note ricordando che non abbiamo alcuna pretesa di insegnare a qualcuno cosa sia giusto o sbagliato. Esso dipende, infatti, dalle assunzioni che una persona fa proprie e dai principi che riconosce. Assunzioni e principi possono essere discussi ma non dimostrati, e la scelta che uno fa in merito ad essi dipende essenzialmente da fattori extra-razionali. Al netto di questo, tuttavia, consideriamo doveroso comprendere dove portano le assunzioni e i principi che si sposano, e a partire da ciò, farsene carico responsabilmente. Dal nostro punto di vista, definire arbitrariamente cos'è un essere umano, apre a indefinite possibilità di riduzione del debole e dell'indifeso a pura materia inerte a disposizione di coloro che godono, invece, del riconoscimento sociale alla piena umanità. Le potenziali applicazioni di questo principio sono a dir poco terrificanti, e temiamo che molti stentino a rendersi conto che, come per altre battaglie analoghe, anche in questo caso quella che viene presentata come una lotta per i diritti, rischi di rivelarsi il più insidioso dei cavalli di Troia.



Riflessioni sul tema dell'aborto

In questi giorni, a seguito di una recente e ben nota sentenza della Corte Suprema americana, il tema dell'aborto è tornato ad essere ampiamente discusso dall'opinione pubblica. Noi di WI siamo favorevoli ad un serio e trasparente dibattito sulla questione, e per questo proponiamo alcuni spunti di riflessione indispensabili, a parer nostro, per una corretta e onesta posizione del problema.

1. Esiste un criterio oggettivo, scientifico e condiviso, per determinare a partire da quale momento dello sviluppo embrionale il feto non può più essere considerato un semplice aggregato di cellule, ma diventa riconoscibile propriamente come essere umano portatore dei diritti essenziali che riconosciamo a tutti gli esseri umani?

2. In assenza di un tale criterio, siamo consapevoli del fatto che una sua definizione su base arbitraria, è di fatto una definizione arbitraria di cos'è un uomo, con tutto ciò che questo comporta sulla sfera politica e del diritto?

3. In base al punto 2, siamo consapevoli che così ci si espone al rischio di ammettere che la definizione di essere umano e del suo diritto alla vita e all'autodeterminazione non sono più principi assoluti, ma affidati a processi decisionali contingenti e strumentalizzabili?

4. In che modo porre il primato all'autodeterminazione della madre, in attesa che si dimostri in maniera oggettiva che il figlio non è un essere umano, non è porre il principio che, in base a valutazioni contingenti ed arbitrarie, alcune categorie umane possano decidere a proprio vantaggio della vita di altre categorie umane (o considerate non completamente umane, o solo umane in potenza, o non definibili come umane secondo le categorie del momento)?

5. È sbagliato affermare che se non sappiamo definire in modo scientifico, oggettivo e condiviso lo statuto non umano del feto fino a un certo grado di sviluppo, ma legittiamo l'aborto su basi arbitrarie, rendiamo anche la definizione di omicidio fluttuante e indefinibile? (Ad esempio, oggi potrebbe essere definito omicidio ciò che domani, sulla base di altri criteri arbitrari, non lo sarà.)

6. In base a quale quadro di riferimento etico e a quale idea di diritto il principio di autodeterminazione della madre sul proprio corpo avrebbe priorità sul diritto alla vita del figlio? Perchè questo principio, una volta posto, non può essere esteso, ad esempio, anche a fasi post-natali?

7. In che modo lo stato di sub-umanità di un feto di alcuni mesi non può essere assimilato a quello di certi gradi di disabilità o senilità? Che cosa ci impedisce di estendere a tali categorie il primato all'autodeterminazione di altre?

8. Che fine ha fatto in questo caso l'adagio "la tua libertà finisce dove inizia la mia"?

Evidentemente per alcuni non vale quando non sono disposti a riconoscere la piena umanità all'altro. O vale solo quando la libertà è la loro e non quella del feto nel grembo materno. Oppure per molti non ha mai significato nulla, e allora bisognerebbe vergognarsi di averla pronunciata.




Nuova rivoluzione industriale

Nel mutamento impetuoso dei paradigmi economici caratterizzanti questi ultimi decenni, accelerato a dismisura da una “pandemia” eretta a causa scatenante d’ogni sconvolgimento, in realtà, ex ante concordato, risiede non soltanto la volontà di rimodellare il mercato del lavoro e ridistribuire spietatamente il flusso della ricchezza, evitandone il frazionamento, ma di riplasmare l’uomo, di creare un vero e proprio archetipo d’individuo funzionale a nuove dinamiche e scopi. Già, perché se si parla oggi apertamente e con insistenza di “nuova rivoluzione industriale”, bisogna comprendere quanto essa sia in primis una rivoluzione antropologica, un riassetto comportamentale e mentale strettamente correlato a quello professionale, che ingloba in tutto e per tutto l’aspetto lavorativo. 

In quest’ottica, appare chiaro come la mortificazione della piccola e media impresa, vessata da un regime fiscale opprimente, da chiusure e restrizioni prima e da rincari energetici e delle materie prime poi, il progressivo scomparire dentro la nube tossica d’un falso progresso di arti, mestieri e tradizioni, le università trasformate sovente in maxi “parcheggi” dove trovano terreno fertile conformismo ed ogni sorta di bestialità governativa, siano il segnale lampante ed inequivocabile del violento processo in atto, di una precisa e chiara volontà di decostruzione e ricostruzione, del ferreo intento d’indirizzare scelte professionali, di saturare interi settori per peggiorarne le condizioni contrattuali, di distruggerne altri mediante politiche volutamente scellerate, contrarie al loro sviluppo ed espansione, di ridisegnare modi di pensare e d’agire. 

Il risultato, cercato e voluto, è quello di creare una generazione molle, disossata, incapace di essere artefice del proprio destino, spaventata, prona, pronta alla supina accettazione d’ogni diktat, priva di spirito critico, quasi inadatta all’esistenza reale, che non sa ergere un muro, coltivare la terra o fare il pane, ma è inchiodata ad un metaverso alienante che fagocita e mescola lavoro e vita privata, impedendo così la visione completa dei fatti e filtrando la realtà tanto da fonderla con l’artifizio. Pensare che tutto ciò sia solo frutto di eventi catastrofici ed imprevedibili, di crisi o dell’oscillare incontrollato di un mercato impazzito e governato da leggi quasi metafisiche, sfuggenti perciò al dominio umano, è da ingenui. Ogni tassello, oggi, trova de facto il suo posto, incastonato in un pantagruelico mosaico raffigurante il declino travestito da evoluzione dei nostri tempi. 

   

Il falso è tutto

Nel nostro tempo, polveroso e pacchiano teatro dove i palcoscenici social e televisivi la fanno da padrone, le idee e le opinioni divengono uniche, granitiche, massificate per plasmare le persone, renderle deboli, influenzabili, facilmente controllabili, convertirle in merce di scambio, in algoritmi, in consumatori compulsivi. L'overdose di dati a cui siamo sottoposti, gli shock visivi, le immagini penetranti, taglienti come rasoi, inquinano il dibattito che diventa vuoto, scolorito, tossico, come una nube che cela la verità, come un nero sudario in cui è avvolto un corpo che è ancora vivo, ma non sa più di esserlo, che vela gli occhi, tappa la bocca, affanna il respiro. Ciò che viene affermato da influencer ed opinionisti, da conduttori e giornalisti, da politici e massime autorità dello Stato, viene negato poi dagli stessi, per essere di nuovo affermato, in un frullatore d'informazioni che mescola la verità e la menzogna in un cocktail micidiale che avvelena l'anima, confonde le acque, che inchioda in un universo in cui è sempre più difficile distinguere tra realtà ed artifizio, tra giusto e sbagliato, tra sonno e veglia.

Se c'è una lezione da imparare, pena l'oblio, osservando con distacco quasi clinico questi anni bui di delirio assoluto, è che basta pochissimo per controllare un popolo. Non serve, quasi mai, il ricorso alla violenza, ma basta semplicemente convincerlo di essere libero, di compiere in maniera indipendente e scevra da condizionamenti le proprie scelte. È sufficiente, infatti, orientarne vizi, convogliarne entusiasmi, soffiare con zelo sul fuoco di ataviche paure, per recidere ex ante ogni forma di ribellione, ridicolizzare il dissenso, per trasformare la sua stessa esistenza in una grottesca commedia dove è relegato al ruolo di misera comparsa, in cui ogni pensiero o ragionamento divengono banali, elementari, scarni, poveri di contenuti, tendenti ad un superfluo travestito da necessità, dove il tutto è falso, ed il falso è tutto.




Distanziamento dell'essere

La società del nostro tempo cavalca l’onda del distanziamento fisico-sociale per allontanarci mente e corpo gli uni dagli altri. Tale distacco appare un evento inedito, totalmente immerso nella narrazione pandemica, da farci dimenticare che questa postura antropologica ha il suo punto di origine in un’epoca più lontana. La pratica del distanziamento è la continuazione su scala sociale della rivoluzione tecno-scientifica intrapresa nella prima modernità. È in quel punto cruciale che comincia inesorabilmente a sparire il reale, inteso in quanto datità ontologica, generando un graduale e irreversibile moto di allontanamento dei soggetti dal mondo, dei soggetti dai soggetti, del soggetto da sé stesso.

La rivoluzione scientifica, nonostante la forza propulsiva di affrancamento dalla cultura dogmatica ed elitaria tipica delle società pre-moderne, fin dalla nascita portava con sé il germe di un processo, ancora in atto, di tecnicizzazione della realtà, che ha come esito una concatenazione di effetti collaterali sul rapporto tra soggetto e mondo. La tecnica ha permesso all’uomo di migliorare la propria condizione di vita prolungando il suo corpo oltre la materialità di cui è composto: nelle ali di un aereo, nel motore di un’auto, nelle lenti ottiche che permettono di vedere il microcosmo e il macrocosmo.. ma ha avuto immediatamente un risvolto negativo cruciale, denunciato in più occasioni da pensatori e letterati dei secoli successivi: la dissolvenza dell’essere a vantaggio dell’ente. La tecnica e la scienza sperimentale operano nell’ordine superficiale ed esteriore degli enti (le cose concretizzate e oggettificate), contribuendo a stratificare un mondo apparente al di sopra del mondo essenziale, quello dell’essere puro; mediante le sue leggi ‘oggettive’ e le sue tecniche sperimentali, provoca una separazione dolorosa dalla natura, illudendo l’uomo di potersi sostituire al creatore, ossia di poter agire sulla natura, modificandola a suo piacimento. La natura, per l’uomo moderno, assume le sembianze di un luogo adibito allo sfruttamento, nel quale si forgiano gli strumenti per il ‘miglioramento’ delle condizioni esteriori dell’uomo. Questa nuova visione distorta della realtà, come di un’entità fisica da spremere fino ad ottenere tutto quanto è possibile avere, comporta l’esaurimento della natura, come accade per le sue risorse (questioni ambientali), per le dinamiche economiche (consumismo sfrenato), e per la sfera sociale e individuale, ne sono esempi la modificazione del corpo umano sia su scala genetica sia nell’ambito estetico-chirurgico. Tutte pratiche contro-natura che riflettono la mancata accettazione di sé.

I soggetti, non riconoscendosi più come elementi costitutivi di una realtà organica, di un creato coeso, ritengono sé stessi enti svincolati, individualizzati e singolarizzati, e considerano ciò che è al di fuori di loro come qualcosa di estraneo con cui entrare in rapporti sporadici e utilitari in caso di necessità. In questo senso, la natura è un laboratorio strumentale e gli altri soggetti agenti nel mondo diventano mezzi con cui raggiungere i propri scopi materiali. L’ottica strumentale e reificante del reale ha una storia secolare, che via via si è allargata ad ogni aspetto della realtà, manifestandosi ora in tutta la sua crudezza nel rito pandemico della distanza sociale e in tutti gli altri distanziamenti operati nella nostra società. Sono distanziamenti: il digitale, che sostituisce brutalmente la realtà vera con una finzionale; l’economia finanziaria, che ha anestetizzato l’economia reale con le transazioni virtuali e l’annullamento del valore reale della moneta; l’arte bellica, che non mette in campo una battaglia ma che si riduce ad una gara impersonale e vigliacca a chi possiede l’arma più letale; lo sconcertante scollamento tra masse e potere che fa della politica attuale la squallida e deleteria parodia della politica vera

Questa presa di distanza dai soggetti e dal mondo si ripercuote anche sul soggetto in sé, che sperimenta l’allontanamento ontologico dal proprio essere, cioè il distacco del soggetto da sé stesso. La paura e la volontà di controllo hanno reso gli uomini individui distanziati dalla loro stessa natura, incapaci di accettare e affrontare, seppur nella fatica, il proprio sé. Ridotti a voler evadere dalla loro stessa pelle, gli uomini tracotanti sognano la metamorfosi in entità ‘superiori’, transumane o postumane che siano, e sono disposti a strumentalizzare il proprio essere, agendo con lo stesso metodo adottato nei riguardi della natura, pur di vedersi diversi da come sono. Il corpo diviene ancora una prigione, come accadeva anticamente, ma non dell’anima questa volta (quella ormai è trasmigrata in forme di vita più intelligenti rispetto alla nostra) bensì del capriccio, del desiderio, dell’invidia e come tale il corpo dev’essere superato e mortificato, per intraprendere un gioco in cui ci si diverte ad essere altro da sé, un po’ Dio creatore, un po’ fluido, un po’ irreale. Andrebbe bene qualsiasi forma pur di scappare dalla dura realtà, della quale non si fa più lo sforzo di sopportarne la finitezza, la mortalità e la faticosità.
Anziché fare i conti con sé stessi si opta per compiere l’ultimo distanziamento, il più letale, che è quello da noi stessi e dalla naturalità del nostro essere in cambio di un’apparenza più facile o più bella.

Avvolti in questo velo di Maya, gli uomini pensano di aver dominato la realtà e invece perdono continuamente sé stessi, gli altri e il mondo.



I complotti di Weltanschauung Italia

Weltanschauung Italia è stato più volte accusato di essere un canale "complottista". La cosa più divertente, però, sono state le teorie del complotto che nel corso degli anni sono circolate intorno al canale stesso.

Di seguito le più note.

- dietro WI si celano i servizi segreti.

- WI è finanziato dall'estrema destra ed è espressione occulta di note organizzazioni extraparlamentari ultranazionaliste.

- gli autori di WI sono personalità note del giornalismo e della cultura che utilizzano l'anonimato per togliersi i proverbiali sassi nella scarpa senza compromettersi.

- WI è nato per destabilizzare la cultura di destra e nazionalista avvelenando i pozzi con il relativismo, il terzomondismo e l'ecumenismo religioso.

- WI è nato per destabilizzare la cultura di sinistra e rivoluzionaria, avvelenando i pozzi con il tradizionalismo, il revisionismo storico e il pensiero identitario.

- WI è una organizzazione della galassia ultracattolica conservatrice.

- WI sono degli esoteristi, degli gnostici, forse dei satanisti o dei massoni.

- WI è nato per canalizzare il dissenso verso posizioni qualunquiste, populiste e astensioniste, e quindi neutralizzarlo.

- WI svolge capziosamente funzione di gatekeeper nei confronti dei movimenti di piazza e delle organizzazioni libertarie per conto dei poteri forti.

- WI ha interessi in Amazon e gode dell'amicizia di Jeff Bezos.

- gli autori di WI ci azzeccano perchè hanno informatori nei palazzi che contano (oppure, variante, frequentano direttamente i palazzi che contano). 

- WI cambia costantemente il proprio IP per sfuggire a qualsiasi tentativo di identificazione informatica.

- WI ha i propri server in Giamaica, in Siberia o forse su Marte.

- WI è un canale separatista che detesta il Sud Italia e i suoi abitanti.

E ne stiamo dimenticando tanti altri. 

Non ci facciamo mancare proprio niente.



La forza del silenzio di Robert Sarah

“La postmodernità è un’offesa e un’aggressione permanente contro il silenzio divino. Dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina il silenzio non ha più alcun diritto; il rumore vuole impedire a Dio stesso di parlare. In questo inferno di rumore l’uomo si disgrega e si perde; è frammentato in altrettante inquietudini, fantasmi, paure. Per uscire da questi tunnel depressivi l’uomo desidera disperatamente il rumore perché gli dia qualche consolazione. Il rumore è un ansiolitico ingannatore, dà assuefazione, è menzognero. Il dramma del nostro mondo non si potrà mai comprendere meglio che nel furore di un rumore vuoto di senso che odia ostinatamente il silenzio”

“La forza del silenzio” del Cardinal Robert Sarah può essere, a nostro avviso, già considerato un classico della spiritualità contemporanea.

Trattasi di un saggio profondo, che emana serenità da ogni pagina. Una lunga riflessione sull’importanza del silenzio, su come l’uomo postmoderno ne ha smarrito il senso, sia in ambito sociale che in ambito religioso.

La tecnica, il consumismo, l’edonismo, i social network, l’ossessione per il proprio aspetto fisico, il superfluo, hanno minato gli spazi del silenzio.

In un’epoca in cui, a causa della totale inettitudine dei rappresentanti occidentali del Sacro, le persone ricercano la spiritualità solo ad Oriente, ecco venire fuori un vero e proprio testo meditativo spirituale che fa letteralmente respirare l’anima, rientrare in se stessi, ritrovare autenticità e che ci fa sottrarre dalla “dittatura del rumore”.

Per Sarah il silenzio non è assenza, bensì manifestazione di una presenza intensa, soltanto in esso si può ritrovare una centratura interiore ed ottenere risposte alle vere domande della vita.

Il silenzio è indispensabile per l’ascolto del linguaggio divino: la preghiera nasce dal silenzio e senza sosta vi fa ritorno sempre più profondamente.

Sarah punta il dito contro la Chiesa Cattolica a cui appartiene.  La “dittatura del rumore” di cui parla il sottotitolo del libro, difatti non domina solo nel mondo, ma anche dentro le chiese odierne, sempre più simili a supermercati, bar o a stazioni ferroviarie in cui tutto è permesso tranne il raccoglimento e la predisposizione alla preghiera.  

“Le potenze mondane che cercano di plasmare l’uomo moderno rifuggono sistematicamente il silenzio. Non ho timore di affermare che i falsi sacerdoti della modernità, che dichiarano una specie di guerra al silenzio, hanno perduto la battaglia. Poiché possiamo retare silenziosi in mezzo alla più grande confusione, all’agitazione più abietta, in mezzo al chiasso e allo stridore di queste macchine infernali che spingono al funzionalismo, all’attivismo e che ci allontanano da ogni dimensione trascendente e da ogni forma di vita interiore”.

Il libro è un vero e proprio inno al silenzio, è un diario spirituale, leggendolo si vola in alto.

“La forza del silenzio” rappresenta dell’ottimo cibo spirituale per chi intende disintossicarsi della caotica vita postmoderna.

“Non è sufficiente tacere. Bisogna diventare silenzio”.



Il piacere di Gabriele D'annunzio

Estremamente raffinato, solenne, ricercato, "Il piacere" di Gabriele D'Annunzio, non è un semplice romanzo, ma un manifesto, vivo e pulsante, un reale inno alla vita, intesa come "opera d'arte".

Primo della trilogia dei così detti "romanzi della rosa" insieme a "L'innocente" ed a "Trionfo della morte", l'opera narra le vicende di Andrea Sperelli, nobile romano passionale, emotivo, figlio perfetto di una società aristocratica oziosa, che si divide tra teatri e duelli, concerti ed agi, avventure amorose e tradimenti. Il protagonista, che rappresenta in un certo qual modo l'alter ego del "vate", è un "Giano bifronte" tormentato, che ricerca la bellezza e la perfezione perdendosi talvolta in vizi e bassezze, incarnando senza dubbio alcuno, la vividezza della sua epoca, le pulsioni, gli istinti, gli amori, l'essenza più pura di un "dandy" della Roma decadente e corrotta di fine 800. Caratterizzato da una prosa indiscutibilmente affascinante, ricca e sontuosa, l'autore ci regala un vero e proprio dipinto, donandoci pennellate sapienti e corpose che descrivono, con dovizia di particolari, la città eterna con le sue piazze, le sue fontane ed i suoi sfarzosi palazzi, l'alternarsi delle stagioni, nonché i protagonisti, che sembrano quasi emergere, prepotenti, dall'inchiostro per materializzarsi in carne ed ossa dinnanzi al lettore, che può quasi udirne la voce, vederne le fattezze, percepirne la presenza.

" Il piacere", dunque, è un libro complesso, denso, elaborato, dal flusso narrativo impetuoso, che fa dell'estetica il suo vessillo, del contrasto interiore la sua forza, dell'estasi artistica ed amorosa un drappo sul quale ricamare un inno alla vita. Uno scritto da riscoprire, che tocca sapientemente le corde dell'anima di chi si cimenta nella sua non semplice lettura. Un "testamento" d'inestimabile valore, una perla di raro splendore, capace di travalicare, in groppa al destriero alato dell'eleganza, le sabbie mobili che caratterizzano la volgarità del nostro tempo.

"Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell'ebrezza. La regola dell'uomo d'intelletto, eccola: ― Habere, non haberi."



Canale Mussolini di Antonio Pennacchi

Corale, polifonico, mai banale, "Canale Mussolini" di Antonio Pennacchi rappresenta una ventata di freschezza nel panorama letterario italiano odierno. 

Il romanzo, ricco di riferimenti storici e tecnici dettagliati, narra l'epopea della famiglia Peruzzi che, ridotta in povertà, dal profondo nord si trasferisce nell'agro pontino, partecipando così all'ambiziosa opera di bonifica voluta e realizzata dal Duce. Le peculiarità caratteriali dei protagonisti, la loro maturazione durante i turbolenti tempi ivi raccontati, la forza espressa dagli stessi attraverso le loro idee e le loro passioni, l'uso del dialetto nelle conversazioni fra i protagonisti, ci donano un affresco suggestivo, ricco di emozioni, dove dramma e commedia si fondono e si completano, donando colore e potenza alla prosa dell'autore, sin dalle prime righe vivace e coinvolgente. Pennacchi ci consegna dunque un testo bullicante, dinamico, carico d' umanità, che si muove in un arco temporale denso, fitto di eventi, a cavallo tra le due guerre e la successiva "ricostruzione" democratica, cruciale per la storia italiana e mondiale. 

Un libro particolare, piacevolmente spurio, che affonda le sue radici nel sangue, nella battaglia per la vita, nella volontà di riscatto, nella lotta per la sopravvivenza, nella trasformazione, dolorosa ed al contempo affascinante, della società e del panorama politico nostrano. Un' opera letteraria che scava in profondità, prepotente, che alterna epica ed elegia, utile, oggi più che mai, per comprendere, nel bene e nel male, da dove veniamo ed analizzare, con lucidità e senza filtri, cosa siamo diventati oggi.