Ogni guerra non è mai giustificata, ripetono le solite voci mai esauste. Sarà poi vero?
Per
fare chiarezza, bisognerebbe innanzitutto interrogarsi sui rapporti che
intercorrono tra guerra e giustizia. Per dire che nessuna guerra è giusta o
giustificabile, dovremmo impegnarci innanzitutto a riconoscere il principio che
la violenza, a cui chi pronuncia questa espressione in genere riduce il
fenomeno guerra, non è mai equa. Principio evidentemente falso, o perlomeno
perpetuamente disatteso, visto che il sistema penale, il quale è sempre
espressione di violenza e coercizione, è parte integrante del modo in cui
amministriamo ordinariamente la giustizia. Ricordiamo inoltre che all'attacco si
risponde normalmente con la difesa, cosa che perlomeno rende giustificata la
guerra difensiva, a meno che non si ritenga doveroso il lasciarsi sopraffare da
qualsiasi prepotente. Ma se la difesa è giustificabile, è giustificabile,
almeno in linea di principio, anche la guerra che previene un realistico
rischio di offesa. Questo senza entrare nel merito di casi specifici, e con la
stessa generalità del principio che sopra si critica.
Si
potrebbe allora obbiettare che ingiusto non è difendersi, ma dare inizio a un
conflitto. Fermo restando che, come ricordato, la guerra che previene l'offesa
è una forma di difesa nonostante sia di fatto l'inizio delle ostilità, sembra
che qui si perda di vista l'essenziale, ossia che la guerra non è un fenomeno
irrelato o privo di un contesto che lo precede. La guerra non è mai l'inizio,
ma, secondo la tesi classica di Von Clausewitz, è il proseguimento della
politica con altri mezzi. Vorremmo ricordare che polemos, in greco, indica il
demone della guerra, in primis la guerra civile. La politica, pertanto, si
configura come la gestione di una dimensione originaria di conflitto – prima
che tra nazioni, tra singoli cittadini – che si attua attraverso la mediazione
di forze ed esigenze contrapposte. Quando tale mediazione ha successo, si
realizza quello stato di equilibrio che definiamo pace. Tuttavia, quando tale
mediazione non è possibile tramite un compromesso o il riconoscimento
dell'autorità che lo impone, laddove l'equilibrio si sia rotto e le forze in
contrasto siano divenute incompossibili, ecco che il demone polemos, evocato dal
fallimento della diplomazia, sorge per istituire una nuova forma d'ordine.
Da
questo deduciamo che la guerra non è mai l'origine del conflitto: il principio
è il fallimento o il rifiuto della politica. Dobbiamo inoltre tenere presente
che la pace non è la condizione originaria, né la norma storica, ma
un'eccezione frutto d'arte; un manufatto esposto al rischio di fatiscenza e
degrado. La guerra, dunque, è da sempre un tragico fattore di equilibrio; tragico,
appunto, nel suo tendere al sommo “bene”, la pace, mediante il sommo “male”, la
violenza. Essa è fulgida rivelazione del fondamento ostile della società; non
sorprende, pertanto, che in quanto manifestazione del vero, essa sia stata
riconosciuta, da epoche più realistiche della nostra, anche espressione di
bellezza. Chi nel '900, in modo ridicolo e inverosimile, immaginò la fine della
storia, dovette infatti spingersi a teorizzare l'estinguersi di ogni conflitto.
A dispetto di qualsiasi atteggiamento irenistico, moralisticheggiante e
sentimentale – quindi in definitiva antimetafisico – i nostri padri, che
combattevano con ethos e rispetto, prima che del nemico, del polemos stesso,
erano consapevoli che la guerra era inalienabile dalla vicenda umana, proprio
perché la pace ne rappresentava la risoluzione finale. Ogni provvisorio
accordo, erano consapevoli quegli uomini, non è che figura evanescente
dell'ultima e definitiva pace, che non è possibilità umana realizzare, ma
esclusivo appannaggio divino.