Che a parlare sia un medico, un giornalista o un
politico, ciò che colpisce in maniera particolare della retorica dell'era
pandemica è un costante appellarsi del loro linguaggio a categorie etiche e
morali che esorbitano ampiamente dagli ambiti in cui il rispettivo discorso era
di norma circoscritto. Certo, il medico fu in passato il miglior confessore del
paziente; il giornalista difese i buoni costumi del paese a cui si rivolgeva;
il politico espresse con il proprio governo il senso comune dello stato che
governava. Erano tuttavia altri tempi, in cui, lo si ritenga opportuno o meno,
la vita sociale era improntata a una visione e a un retaggio comuni, e il
relativismo era ancora appannaggio di una ristretta élite intellettuale, che lo
coltivava come manifesto ideologico nella penombra dei propri salotti. Ben
diversa era invece la situazione degli ultimi decenni, in cui la questione
etica era stata accantonata in un generale clima di laicizzazione e pensiero
debole, per essere relegata a competenza della mera sfera privata. La troviamo oggi
riaffiorare pubblicamente con forza, al di fuori di qualsiasi seria problematizzazione,
e già risolta in un apparato di formule banali e ricorsive, violentemente
affermate come patrimonio comune sottratto alla critica.
Vorremmo ricordare che, se per morale si intende il
complesso di norme che adeguano al bene il comportamento e il giudizio umani,
l'etica invece ne rappresenta la dimensione collettiva e pubblica.
Potremmo dire che l'etica è, in senso proprio, la
morale di un essere umano in quanto appartenente a un gruppo o ad una società.
Sembrerebbe dunque che il riproporre un linguaggio etico e morale nel discorso pubblico
indichi una diffusa e partecipata ricerca del bene. La nostra società è giunta
infine a oltrepassare le proprie incertezze e a riconoscere un fondamento
solido su cui poggiare i propri imperativi?
Non lasciamoci ingannare. A metterci in allerta sui propositi tutt'altro che benevoli del presente sono ad esempio fenomeni sociali divenuti endemici come la rabbia e la diffidenza verso il prossimo, fomentate dagli stessi promotori della nuova moralità. E' importante notare che non esiste nessun orizzonte comune che permetta di fondare nel presente un'idea del bene sufficientemente solida da reggere un sistema etico come, ad esempio, avveniva nell'eone cristiano. L'unica ideologia che oggi appare essere socialmente influente è quella scientista, che tuttavia in base ai suoi presupposti è avulsa a qualsiasi questione di ordine morale e metafisico. L'unico imperativo che lo scientismo è in grado di riconoscere è quello orizzontale dell'efficientamento. In quest'ottica, lo scientismo non chiede di essere buoni, ma di comportarsi bene, ossia assecondare ed omologarsi alle esigenze del sistema tecnico-produttivo.
Paradossalmente, se per comportarsi bene fosse
necessario compiere atti che il sentire comune ritiene malvagi, lo scientismo
non esiterebbe a prescriverli, non avendo come fine null'altro che la
preservazione e lo sviluppo del proprio ordine. Che la direzione imboccata sia
questa, si può notare quando ad esempio all'insegna della ritrovata eticità si
incoraggiano apertamente atti riprovevoli come la delazione e la discriminazione.
Diffidate dei nuovi moralizzatori. Parole come
responsabilità e dovere sono oggi utilizzate dal potere come dispositivi
ideologici necessari a confermare e cementare lo status quo. Disinnescarli
significa tornare a interrogarsi radicalmente sul bene, sul giusto e sul vero,
oltrepassando l'utile e l'efficace alla ricerca di nuovo del senso.