I paradigmi sociali stanno mutando sotto la pressione di una pedagogia autoritaria che traghetta l’Occidente, rapidamente e con decisione, verso forme di regime post-democratiche e post-comunitarie. Se dovessimo scegliere una caratteristica emblematica della società che il potere sta cercando di instaurare, non esiteremmo a indicare l’atomismo sociale come cifra del mondo che viene. Del resto, all’alba dell’era pandemica, una delle misure principali della profilassi simbolica che concorse alla neo-liturgia del controllo, via via consolidatasi nel modello di nuova normalità, fu appunto il cosiddetto distanziamento sociale. L’espressione è particolarmente significativa, perché tra le molte disponibili per indicare l’atto del mantenere una certa distanza dal prossimo, non si scelse, ad esempio, quella più propria di distanziamento individuale, ma appunto una formula che indicasse un comportamento da assumere come qualità dell’intero corpo sociale. Se un individuo può distanziarsi da un altro, proprio in quanto individuo, la società non può distanziarsi da sé stessa, in quanto le sua essenza è l’aggregazione. Il nuovo ordine iniziava così ad abituarci al suo caratteristico stile comunicativo, fatto di paradossi ed ossimori. Chi non ricorda la nauseante retorica dell’avvocato del popolo, quando pronunciò l’assurdo “se ami l’Italia, mantieni le distanze”? A tutti i non ancora assuefatti, quell’associazione di amore e separazione stridette in maniera sinistra e sospetta. Oggi possiamo comprendere, a ragion veduta, che non si trattava di maldestre formule d’occasione, ma piuttosto di ben ponderate tappe di un corso coatto di educazione civica al cambiamento imminente.
L’antico
adagio divide et impera assume nella società post-democratica una gamma inedita
di dimensioni e applicazioni, favorite in gran parte dalle più recenti
innovazioni tecnologiche. Tralasciamo di considerare le strategie classiche di
creazione di fronti avversi funzionali alla preservazione del sistema –
dicotomie alla pro-vax/no-vax, per intenderci – o la tattica di disgregazione
dei centri di potere intermedi, quali ad esempio famiglia o comunità;
concentriamoci invece su qualcosa di veramente peculiare.
Nel
nostro tempo, il potere sta letteralmente erigendo un diaframma tecnologico tra
l’individuo e la realtà, in cui intende incunearsi in quanto detentore
dell’infrastruttura preposta alla mediazione. In questa ottica vanno
interpretate tutte quelle misure che intendono progressivamente sostituire il
contatto e l’azione diretti, di qualsiasi genere, con il loro surrogato
virtuale. Pensiamo, a titolo di esempio, allo smart working, alla sostituzione
del contante, alla digitalizzazione burocratica, alle molteplici applicazioni
della realtà virtuale o dell’intelligenza artificiale. Ovunque la tecnologia
costituisca un accesso mediato alla realtà, il potere può insinuarsi ed
esercitare controllo e coercizione con un’autorità direttamente proporzionale
alla condizione di dipendenza dall’infrastruttura. Tale soggezione è tanto più
determinante quanto più l’individuo viene sradicato dalla genuina realtà di
contatto sociale, per essere inserito in un dispositivo tecnologico e virtuale
che funge da isolante, mediatore e controllore dell’accesso al reale. Ecco che
il distanziamento sociale, in questa prospettiva, è determinato non tanto dalla
mancanza di prossimità fisica all’altro, ma dall’invasività della tecnologia in
ogni ambito di relazione con l’esterno. Nel sogno tecnocratico, il paradosso di
una società dissociata diverrà realizzabile. Rimane da chiedersi come essa
potrà ancora dirsi umana.