Dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che la figura dell'intellettuale appartiene al passato, e che essa è stata sostituita da un nuovo modello di uomo di sapere, solidale all'ordine della religione scientista e suo strumento di propaganda militante. Non che l'intellettuale di professione, figura tipicamente borghese e post-moderna, incarnasse chissà quale valore etico o fosse investito di una qualche missione sociale. Egli era tuttavia il residuo di un mondo in cui esistevano istanze che non potevano essere risolte ricorrendo esclusivamente a comitati tecnico scientifici o a modelli previsionali, ma che si riconosceva utile problematizzare anche alla luce della memoria storica, delle scienze umane e della coscienza critica. Dobbiamo riconoscere che quell'epoca, assieme all'ordine borghese, è ormai agonizzante, e che presto qualsiasi attività di pensiero che non sia esclusivamente la celebrazione o l'apologia dell'esistente, sarà relegata all'ambito dell'intrattenimento e tollerata in quanto innocuo diversivo al pensiero unico.
Se ciò è possibile, è essenzialmente perché i
principali centri di produzione e diffusione della conoscenza sono stati
infeudati a quelli del potere, grazie alla progressiva introduzione di logiche
di mercato laddove per definizione l'indipendenza dall'interesse doveva essere
garanzia di autonomia, oggettività e merito. Non addentriamoci ora nella penosa
storia della graduale compromissione degli istituti scolastici, universitari e
di ricerca; accontentiamoci di prendere atto del fatto che le strutture a cui
un tempo veniva demandata la formazione di cittadini, politici e uomini di
sapere, sono oggi i principali centri di irradiamento di legittimazione e
consenso incondizionati.
La recente levata di scudi, in larga misura
accademica, contro Cacciari e Agamben è la dimostrazione del fatto che
l'intellettuale e ciò che rappresenta gode di riconoscimento, autorità e
considerazione finché rimane nell'ambito ininfluente dell'editoria e non tange
minimamente la realtà. Quando pretende, invece, di incidere sul reale, facendo
valere la sua voce come pungolo critico, va riportato d'autorità nel proprio
recinto dai pastori del discorso, che poi altro non sono che esponenti
compiacenti di quei luoghi di asservimento da cui il ribelle ha preteso di
emanciparsi.
Nel mondo che si va configurando non esisteranno
più le condizioni per l'esercizio della filosofia, con buona pace di tutti gli
Agamben e i Cacciari che ancora esistono. Non in quanto i filosofi saranno zittiti
o censurati, ma perché la necessità di una domanda radicale sul senso e sul
fondamento non sarà più avvertita. Così come non sarà più avvertita l'urgenza
di una reale e disinteressata interrogazione storica, come ci informa la cancel
culture, quale fenomeno di superficie di una carsica e violenta insofferenza
verso lo “storicamente altro”. Allo stesso modo, etica e scienze umane, in
quanto antropocentriche, dovranno essere subordinate a orizzonti che si
considerano più inclusivi, come appunto quello scientista, laddove l'umano è
omogeneo all'inumano, e la misura della sua salvezza è la medesima di qualsiasi
altra entità biologica.
Siamo prossimi a una svolta cruciale: in un mondo in cui tutto è merce o mercato, il professionista della conoscenza, sia essa informazione, scienza o pensiero, avrà unicamente l'alternativa di essere o la cassa di risonanza dello status quo, o null'altro che un eccentrico ed innocuo produttore di divertissment. Se rifiuterà queste maschere sociali e rivendicherà fieramente la forza e l'efficacia del proprio pensiero, potrà scegliere, a seconda della sua caratura, se essere un folle emarginato o semplicemente un criminale. Tertium non datur.