Un sottile filo rosso
La sterilità degli intellettuali in epoca pandemica
L'idea di un uomo pericoloso per sé e per gli altri, se non medicalizzato, è non solo la chiave di tutta la narrazione pandemica, ma anche l'inizio di una nuova era dell'umanità, che vuole passare necessariamente sotto sorveglianza sanitaria, per poter vivere.
Il fatto che gli uomini, così come sono, 'muoiono e fanno morire', è è il dato scientifico per eccellenza, è la 'malattia'.
Il problema degli intellettuali è che non riescono a scalfire questo 'principio', perché non possono porsi contro la scienza. La loro affermazione della libertà e dei diritti 'inalienabili', la critica alla discriminazione, ha come unico esito il naufragio, perché se un uomo uccide respirando chi ha intorno, o chi verrà toccato a distanza dalla sua infezione che intanto si sarà propagata, parlare di 'libertà' e di 'diritti', per come sono stati tradizionalmente intesi, non ha più senso, perché si riferivano all'uomo, così com'era. Non solo all'uomo 'storicamente' inteso, ma all'uomo in quanto uomo. L'uomo medicalizzato, o l'uomo 'paziente', non può più rivendicare un proprio diritto a respirare e vivere, in autonomia. Per questo la Costituzione non ha più senso, perché si riferiva ad un essere umano portatore di diritti e garanzie, 'innocente', la cui presenza doveva essere 'difesa e tutelata'. Anche lo stesso concetto di dignità è da abbandonare, perché legato ad un uomo che aveva dei bisogni fondamentali, da potergli garantire (rispetto, sicurezza, etc...), così come, da abbandonare definitivamente, è la concezione kantiana di un uomo come fine per un altro, perché presuppone un'idea di valore assoluto dell'essere umano, in se stesso. Ma l'uomo che nasce, ed è un pericolo per gli altri, l'uomo-che-uccide, non può conservare, né diritti né dignità.
La sterilità degli intellettuali, nel non saper individuare il principio cardine del nuovo ordine mondiale, e quindi nel non saperlo smascherare in termini di 'costruzione politica' lasciandolo alla 'questione sanitaria', è l'impossibilità del loro incidere sugli attuali avvenimenti. L'impossibilità di affermare, con chiara decisione, che il 'contagioso asintomatico' è una costruzione politica, non un'affermazione scientifica di carattere sanitario.
E' lo stare ai bordi, nello spazio della discussione infinita, inutile, puramente mediatica, ammessa perché rivelatrice di un passaggio storico dell'umanità, su cui in realtà sono tutti d'accordo. Perché nell'era delle pandemie, libertà, scelta e individuo non ci sono più. E questo nessuno lo sta negando. Gli intellettuali, di fatto, con le loro critiche, non prendono di mira il governo o le scelte mondiali. Criticano 'il virus'. Proprio quello che devono 'presupporre', perché non possono essere antiscientifici né militanti negazionisti..
Se, dunque , si accetta che l'uomo 'muore e fa morire', non si può più parlare di libertà e diritti. Lo impone il virus.
Nietzsche e l'uomo covidista
Nel periodo "pandemico", abbiamo potuto osservare come la gente si sia siringata semplicemente per poter continuare a fare le cose di prima.
Senza il green pass, probabilmente solo una piccola percentuale della popolazione si sarebbe vaccinata.
Non ci siamo dunque trovati di fronte a un'umanità dedita alla scienza. Bensì al nichilismo puro. Non c'è stata nessuna fede nella scienza. C'è stato semplicemente il doversi siringare. Ed il bello è che questo siringarsi, per-poter-fare (lavorare, andare a un concerto, prendere un treno), è quel crepuscolo degli idoli di cui parlava un filosofo il secolo scorso. E', di fatto, la piena attuazione, della fine delle ideologie. Di ogni valore, finora conosciuto. E' l'abbattimento della coscienza, della libertà, della persona, della storia. E' la fine dell'uomo, come l'avevamo conosciuto.
E' chiaro che eravamo già pronti. Ma qualcosa
avrebbe ancora resistito. Grazie alla pandemia, abbiamo definitivamente
abbandonato tutto quel mondo. Ci siamo scoperti 'niente'. Cioè, oltre il
lavorare, andare a un concerto, andare a un museo, non siamo niente. Solo
fruitori, utenti, clienti. Più nessuna idea sulle cose e sul mondo. Sulla vita,
e sugli altri. Nessuna idea. Nessun pensiero. Nessuna visione. Nessun
desiderio. Nessun io. Nessuna prospettiva. Solo, la pura obbedienza. Obbedire,
per poter fare le cose di prima. Obbedire, perché altrimenti non era possibile
farle. Tutta la pandemia è stata indirizzata sul nulla dell'uomo, e nell'uomo.
E la scienza, è stato il disperato tentativo, di far reggere un'ideologia che
ti chiedeva invece di sottomettere il tuo corpo per prendere un treno, o
mangiare una pizza al chiuso. Il nulla, quindi, se il discorso verte sul lato
'ideale'.
Nietzsche, senza dubbio, ha visto tutto. E credo
lo si capirà bene quando dei racconti di Zarathustra si saprà cogliere
l'aspetto conoscitivo, più che quello esortativo. Zarathustra, vede, e non
necessariamente vuole, quello che racconta. La sua partecipazione è una
finzione scenica. E' probabilmente l'umano troppo umano che c'è in lui, la sua
'malinconia'. La scena del siringaggio al mercato, tra la frutta e la verdura,
di una persona che non sa neppure quello che sta facendo, con una risata senza
senso, ricorda certe figure dello Zarathustra, nella sua forza dirompente,
nell'intensità distruttiva che emana.
L'uomo covidista è l'uomo privo di un qualunque
pensiero sul mondo, senza più una ragione, una comprensione di quello che ha
intorno. E' la risata ebete del pazzo, completamente staccato, da ogni universo
di valori e significati condivisi.
Comprendere la "cancel culture"
La terza parte di “1984” di Orwell contiene quella
che potremmo definire un'autentica ontologia del totalitarismo. “Chi controlla
il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il
passato”, sostiene O'Brien. Il tempo ha un valore eminentemente politico:
disancorato da un fondo stabile e garantito, diviene materia plastica ad uso e
consumo del potere. La chiave è dunque il passato, che secondo l'ingenuo
Winston esiste come deposito in quanto memoria, ma che scoprirà ben presto
essere invece il prodotto mutevole della pedagogia di regime, in quanto “la
realtà esiste nella mente degli uomini, e in nessun altro luogo”. Tale mente,
tuttavia, è sovraindividuale: è la mente collettiva e impersonale del Partito,
che esso plasma secondo volontà.
La chiave per comprendere la cancel culture risiede
appunto in questo nucleo teoretico. Chi del fenomeno percepisce esclusivamente
la paradossalità non si rende conto di rimanere ancorato a un'ontologia
obsoleta, che il potere cospira per abolire. Ancora una volta la battaglia
politica si gioca sul piano della cultura, intesa come visione del mondo
integrale. La cultura della cancellazione è prima di tutto una forma estrema di
volontarismo nichilista, giacché nega il fondamento dell'essere a favore della
volontà manipolatrice. Un autentico idealismo solipsista, laddove però la
solitudine qualitativa del soggetto assoluto è sostituita con il vuoto anonimo
della massa cementata dall'ideologia.
Nessuno deve ricordare se non ciò che è che si è
obbligati a ricordare. O'Brien assimila questa riprogrammazione a un processo
di guarigione. La salute è rappresentata dall'esercizio del pensiero fluido
secondo le direttive del potere. L'aspetto totalitario della cultura della
cancellazione è proprio questo: non basta l'obbedienza né la sottomissione. Ciò
che è realmente indispensabile è la ristrutturazione delle categorie di
pensiero e della volontà. “E' intollerabile per noi” dice il carnefice “che
anche un solo pensiero partecipe dell'errore possa esistere in qualche parte
del mondo, pur se nascosto e innocuo”.
A questo punto, affinché l'opera sia completa, è
necessario che la volontà, quando si esercita cancellando il passato, cancelli
anche il ricordo della sua azione. La volontà, paradossalmente, deve essere
inconsapevole di sé. Se serbasse consapevolezza, il soggetto che la esercita
non potrebbe essere veramente persuaso che la realtà artificiale sia autentica.
Dialetticamente, la volontà deve diventare negazione della negazione, quindi
piena affermazione della positività contraffatta che emerge dalla distruzione e
dalle macerie del passato oggettivo.
Quando la cancel culture nega se stessa affermando di non esistere, ci troviamo esattamente a questo stadio. E' una fase piuttosto avanzata dell'affermazione di un'ontologia di regime che non va sottovalutata né minimizzata, nonostante appaia grottesca agli occhi di chi ancora non è familiare al bispensiero. Finché non ci rendiamo conto che la distruzione degli emblemi del passato e la riscrittura della storia mediante forme di revisionismo sempre più radicali e gratuite non sono il fine, ma il sintomo di un fenomeno che avviene in luoghi della coscienza collettiva molto più profondi e invisibili, non saremmo mai in grado di elaborare strategie di resistenza culturale davvero efficaci per far fronte all'urgenza storica.