Un racconto di Uriel Crua
Sciupato. Non proprio emaciato quindi, né magro,
né malandato in alcun modo. Ma sciupato, come diceva la nonna. Una parola
plastica, che stira le guance, che impallidisce e secca i contorni delle
labbra, che leva un paio di toni all'incarnato, che stanca lo sguardo.
Il bambino era sciupato.
Il cielo – grigio e fumoso, come d'ogni ottobre
padano – gli finiva in faccia, sui vestiti. Suo padre gli stava accanto, in
piedi; gli posava una mano sui capelli. Il palmo lo accarezzava. Le dita gli
passavano fra i ciuffi biondi. L'uomo cercava di star dritto, ma era evidente
una torsione, un dolore, una slogatura che invece voleva piegarlo. La sua
statura esalava un insistente conflitto tra una tensione all'avvolgimento e una
prova estenuante di contegno. Dal volto i toni della spossatezza, un ronzio di
disagio. Sotto la giacca spenta una camicia olivastra, pantaloni in velluto che
cadevano larghi sui mocassini marroni. La sua era l'aria di un professore, e in
effetti lo era stato.
Accarezzava il suo bambino. Che bravo bambino,
dicevano tutti. Quando andava a scuola, che bravo bambino.
Prima che il padre lo ritirasse dalla scuola
pubblica, che bravo bambino. Un bambino obbediente.
Anche il ventisei ottobre duemilaventuno, fisso in
una posa fotografica dal sapore novecentesco, davanti al supermercato di
quartiere, col padre accanto che si rimasticava le mascelle a esaminare
attentamente le porte scorrevoli automatiche aprirsi e chiudersi, e gli
avventori entrare e uscire dopo una breve sosta, che bravo bambino.
Gabriele sollevò lo sguardo e «Papà», disse.
«Abbiamo fatto?»
«Ancora no»
«Cosa dobbiamo fare?»
L'uomo non rispose. Si guardò intorno. Tirò un
respiro lento e profondo, tirò su l'aria nuova di una Torino d'autunno, tirò su
l'odore macero e rinfrancante del fogliame raffrescato dalle piogge. Tirò su le
note di ricordi radicati nello sterno, palpabili e veri come un livido, i
ricordi degli autunni passati a tenere la mano al suo bambino, a sbuffargli
nella pancia per fargli il solletico, a camminare dentro quegli stessi odori,
quegli stessi sapori, dentro la medesima luce, ma in un mondo diverso. Un mondo
più felice. Una dimensione che appariva tanto più dolorosamente lontana quanto
più all'apparenza vicina, identica. I sensi percepivano ogni cosa allo stesso
modo di prima, ma ad ogni istante ecco infiammarsi la delusione che le cose,
invece, erano diverse.
Le porte scorrevoli del supermercato continuavano
ad aprirsi e a chiudersi. Uno alla volta – con compostezza e indifferenza – i
clienti sostavano per qualche secondo, esibivano la tessera, il pass, ed
entravano. Li si vedeva uscire con le buste piene – ciuffi di sedano balzare
fuori, coni di pane – stretti nei loro abiti colorati, infossando il muso nelle
sciarpe avvolte al collo, chi spedito, chi lento, chi pensieroso. Il mondo
ugualmente e sempre macinava il suo tempo.
«Compriamo un gioco?» disse Gabriele, sagomando il
volto pasticciato in una posa divertita, sollevando le sopracciglia e
allargandosi in un sorriso smagliante che avrebbe voluto convincere l'uomo.
«Hai nove anni. A nove anni bisogna crescere»
rispose l'uomo con inutile durezza, continuando a esaminare gli avventori. Il
bambino abbassò gli occhi e si passò la lingua sulle labbra.
«Va bene», fece.
Il padre – come scosso fuori da una concentrazione
pesante – gli gettò lo sguardo addosso, stringendolo a sé dalla guancia sul
fianco.
«Scusami. Se lo troviamo lo prendiamo»
«Va bene»
Tirò su un'altra boccata, questa volta con la
bocca aperta – una fame d'aria giovane, una sete di risolutezza, un modo per
ingollare forza e volizione.
Intercettò un ragazzo che veniva da sinistra e che
aveva appena girato l'angolo. Camminava a passo veloce e teneva nel pugno una
busta della spesa in plastica forte, tutta ben piegata. Avrà avuto vent'anni.
Il volto pulito. L'abbigliamento anche era promettente: pantaloni chino grigio
fumo, una camicia nera e giacca di pelle color cammello, una sciarpa prugna.
L'uomo lasciò per un attimo suo figlio, dicendogli di restar lì dove stava, che
avrebbe fatto in fretta.
Gabriele lo vide muovere qualche passo in avanti,
lentamente. Lo vide ricomporre la statura claudicante, raddrizzare la schiena,
allargare le spalle. I suoi passi erano misurati, dignitosi. Lo vide fermare il
ragazzo e muovere gesti lenti, sorridere. Lo vide indicare l'ingresso del
supermercato, le porte scorrevoli. Vide gli occhi del ragazzo cambiare tono,
accigliarsi. Vide la testa del ragazzo prima chinarsi, poi scuotersi in segno
di diniego. Fare spallucce. Vide il padre posare una mano sulla schiena del
ragazzo, come a ringraziarlo ugualmente, e poi girarsi verso di lui, suo
figlio, sorridergli – ma con occhi slacciati, rossi di freddo – e allargare le
braccia.
Quando gli fu vicino, di nuovo gli pose la mano
sul capo e di nuovo prese ad accarezzargli i capelli.
«Quando andiamo a casa? Quando mi compri il
gioco?»
«Tra poco. Ci vuol pazienza nella vita, sai?»
«Va bene»
Che bravo bambino.
Le porte automatiche si aprirono con un rollio
frusciante. Una signora anziana ricurva ne uscì a passi lentissimi. Quando
incontrò la figura del padre e del bambino si fermò qualche istante a
osservarli. L'uomo cambiò direzione degli occhi, ma sentiva il suo sguardo
addosso. Prese Gabriele per mano e si avviò verso destra. Il bambino lo seguì
senza dire niente. Si fermarono davanti alla vetrina di un negozio di materassi.
La donna anziana riprese il passo e dopo qualche minuto scomparì dietro
l'angolo con tutte le sue ossa.
Tornarono al luogo iniziale. Gabriele sentì una
goccia d'acqua finirgli sul naso. Guardò il padre indicando la goccia che gli
colava dalla punta del naso, ridendo. L'uomo ricambiò il sorriso e gli
pasticciò la guancia con un buffetto.
«Sta per piovere» disse guardando il cielo, ora
completamente piatto. Doveva fare in fretta.
Un uomo sulla quarantina – evidentemente un
professionista, giacca bluette skinny fit e cravatta rossa, auricolare, passo
veloce – si stava avvicinando all'ingresso del supermercato. Era abbronzato.
Abbronzato in ottobre. I capelli gli si ingrigivano sulle tempie, per diventare
poi nerissimi e folti.
«Scusi» disse il padre sollevando il dito per
prendersi l'attenzione dell'uomo. «Deve fare la spesa?»
Quello prima si fermò di scatto con occhi
diffidenti, poi squadrò tutti e due alternando padre e figlio per un paio di
volte.
«Cosa le interessa se faccio la spesa?» domandò.
Aveva sbagliato uomo. Aveva avuto fretta.
Aveva decisamente sbagliato.
Ma continuò, continuò sperando in uno slancio di
solidarietà.
«Solo una gentilezza» e cavò fuori dalla tasca
della giacca un bigliettino scritto a matita. «Avrei queste cose da comprare,
se per gentilezza lei potesse, sa. Le do i soldi, sono qui» e mise mano al
portafogli.
«Perché non entra lei?» fece quello raddrizzando
la postura e incrociando le braccia. Sollevò il mento e insapidì gli occhi con
una feroce curiosità.
L'uomo comprese dove l'altro voleva andare a
parare. Sollevò il palmo e disse: «Lasci stare. Va bene così. Le chiedo scusa
per il disturbo». Riprese il figlio per mano e gli sorrise. Ma dentro alla
pancia uno spillo gli pungeva gli intestini.
Venne richiamato dalla voce dell'avventore, che
stava ancora lì a braccia conserte.
«Perché non rispondi? Di' un po': perché non entri
tu?». Ora gli dava del tu.
L'uomo si morse le labbra, tolse la mano dal capo
del figlio e prese un respiro forte. Profondo. Piantò gli occhi su quelli
crudeli dell'altro. Ce li tenne per molti secondi.
Le porte automatiche ronzavano e i clienti
entravano e uscivano. Ogni cosa aveva il proprio colore. Ogni cosa aveva il suo
odore. Ogni cosa prendeva la giusta luce.
«Ho detto che va bene così. Non importa. Vada pure
a fare la spesa». Lo disse piano, con voce scura. Mantenendo fermi gli occhi,
ora lucidi di collera.
Una coppia di mezza età – appena uscita dal
supermercato, vestita di giallo e marrone – guardava rallentando il passo. Il
grigio del cielo palmava i loro volti atoni.
«Questo non ha il Pass» disse l'uomo rivolgendosi
alla coppia. «Vuole che gli faccia la spesa»
I due si fermarono. Guardarono pietosamente il
bambino, che se ne stava lì fermo. Che bravo bambino.
Il padre lo prese di nuovo per mano e gli disse
che tornavano a casa, che dovevano andare, ma la donna della coppia aprì bocca:
«Parassita», disse. La sua voce era quella di una
tifosa, con punte stridule sulle vocali e le esse esageratamente marcate. Le
parole prendevano vita dalle palpitazioni violacee di grumi vascolari che le
sporgevano dalle meningi.
Il padre allora si fermò e si voltò verso i tre,
ormai glassati in una posa di rimprovero – una piccola squadra.
«Cosa ti fermi a fare? Vuoi dire qualcosa? Vuoi
ancora parlare?» si animò il professionista abbronzato in ottobre con fierezza,
spalleggiato dalla coppia.
Le porte automatiche si aprirono e subito oltre
apparì il ragazzo giovane con la giacca cammello che indicava l'uomo e il
bambino a una guardia dall'aspetto magrebino. La guardia era addetta al
controllo ingressi. Si avvicinò alla scena, e con accento forte domandò quale
fosse il problema. Il ragazzo, nel frattempo, osservava da dietro le vetrate,
allungando il collo, spillando gli occhi, nel tentativo di trarne il sugo di un
eroismo civico.
«Questo» disse il professionista skinny fit
allungando l'avambraccio a mano tesa verso il padre «mi ha chiesto di fargli la
spesa. Non ha il pass. Non può entrare»
«È vero?» domandò la guardia magrebina, infilando
uno sguardo rapido al bambino, poi di nuovo all'uomo.
«Andiamocene» disse prendendo questa volta per il
polso Gabriele e avviandosi verso la sua sinistra, verso casa, verso qualsiasi
altro luogo. Il cuore gli batteva nello stomaco. Una sensazione di nausea gli
drenò un sapore ferroso in bocca. Gli occhi vedevano sciogliersi i muri,
mareggiare il marciapiede grigio, sfocare il bambino. Avrebbe ucciso, se non
fosse stato per la presenza di suo figlio. Avrebbe ucciso.
Si sentì tirare dalla giacca, dietro il collo –
una sensazione di soffocamento in gola – poi venne letteralmente trascinato e
per poco non cadde, per poco non finì a terra, perché la guardia magrebina –
che lo aveva preso – gli si strinse dalla schiena e gli bloccò le braccia.
Nel frattempo altre persone s'erano aggrappolate
tutte attorno, tutte curiose, trattenendo nelle falangi grassocce le buste pesanti.
Alcuni le posarono in terra. Altri masticavano caramelle. Un ragazzino filmava
la scena con lo smartphone, e rideva.
Gabriele restò fisso a guardare il padre braccato,
fisso in una bolla afona, fisso con gli occhi rossi che gocciavano piano.
L'uomo cominciò a divincolarsi ma era debole, e il
dolore che gli tranciava le vertebre ora prese ad infiammarsi. Guardava gli
occhi di suo figlio, ma non potevano essere veri. Non poteva accadere davvero.
Non stava succedendo.
Era impossibile. Queste cose non potevano
succedere.
«Chiamate la polizia» ordinò qualcuno.
«La sto chiamando io» disse una donna, che si
coprì poi la bocca con le mani – un dolore orrendo vedere quell'uomo senza il
pass, e il suo bambino. Che bravo bambino. Povero bambino.
«Parassita!» ripeté la donna della coppia. Le sue
vene irradiavano un livore rossastro.
«Povero stronzo» ghignò il professionista.
«Davanti a tuo figlio. Non ti vergogni? Statevene a casa, sorci!». Mise le mani
in tasca e frugò. Ci cavò una monetina. Gliela lanciò addosso. Poi sputò per
terra.
«Papà!» gridò Gabriele. «Lasciatelo stare!»
La donna si coprì di nuovo la bocca, e si mise a
lacrimare. Povero bambino. Che bravo bambino.
Poi si ruppe in un grido disperato: «Non lo vede
cosa fa a suo figlio? Non lo vede?»
«Dovrebbero chiamare i servizi sociali. Dovrebbero
toglierli i figli a 'sta gente. Statevene a casa!»
L'uomo aveva smesso di dimenarsi. La guardia
continuava a tenerlo stretto in attesa che arrivassero quelli della polizia.
Stava non fermo, ma raffermo: gli occhi gonfi colavano lacrime lente. Una
cartaccia gli finì sullo zigomo.
«Basta papà!» gridava il bambino. «Non lo voglio
più il gioco. Andiamo a casa, papà! Andiamo a casa. Non lo voglio più il gioco.
Non lo voglio!»
Non lo voglio più il gioco.
Che bravo bambino. Proprio un bravo bambino.