A cosa serve una cultura industriale che non sappia sopportare contraddizioni, esibire lo scandalo, mostrare ciò che nessuno mostra, suscitare quelle sensazioni ed evocare quei fantasmi che la cultura ufficiale rigetta?
Attenzione: non dico condividere, dico sopportare,
esibire, documentare, in senso extra-morale e fuori (per quanto umanamente
possibile) da qualsiasi forma di filtro, mediazione o opinione personale.
Spesso assistiamo a reazioni isteriche e scomposte
di molti "esponenti" di questo ambiente a qualsiasi discostamento da
una sensibilità media e condivisa. Più volte è capitato di vedere eventi
boicottati per la sola presenza di artisti "sgraditi". Ciò denota la
riduzione della musica industriale a puro fenomeno estetico a scapito della sua
portata culturale genuina, che è appunto essere strumento di rottura, e ripeto
contraddizione; in altre parole, soglia di rischio e criticità della
sensibilità canonica. È una deriva seria, perché quando le culture alternative
o antagoniste non sono più in grado di sopportare il pensiero "altro"
e la sua dimensione scandalosa, si risolvono in vuoto formalismo.
Nel secolo scorso, quando la musica industriale
era considerata cosa seria, forse perché ancora vicina alle origini e quindi
lungi dall'aver scaricato le pulsioni che avevano dato origine al movimento, certe
prese di posizione non si vedevano. Non perché ognuno aderisse
indiscriminatamente a qualsiasi idea, ma perché si riteneva che l'industrial
potesse recare al suo interno il seme della differenza, anche il più
fastidioso, senza doverne rendere conto a nessuno. Il suo ruolo era di essere
luogo di shock culturale, di provocazione, di decostruzione dei codici del
linguaggio, dell'informazione e del comportamento.
A che serve una cultura industriale educata, normalizzata, che richieda patentini ideologici per autorizzare l'agibilità artistica? Chi può arrogarsi, inoltre, il diritto di essere "padrone del discorso" laddove l'impegno è la messa in discussione dei pilastri del discorso stesso?