Una certa espressione del pensiero unico, quella più snob e sedicente colta, da una ventina d'anni sta cercando maldestramente, ma con determinazione e prepotenza, di assimilare autori o opere intellettuali assolutamente disomogenei al proprio orizzonte, in modo da rivendicare a sè tutto ciò che di buono lo spirito umano abbia prodotto nei secoli. Tale iniziativa sorge per rimediare, da una parte, a una radicata invidia causata dalla desolante miseria nel proprio repertorio culturale di esemplari di qualità, dall'altra perché alcuni autori o scritti sono realmente pericolosi in quanto capaci di portare critiche talmente fondate e radicali all'orizzonte condiviso da farne tremare le fondamenta.
Un esempio su tutti: le recenti vicende editoriali
che riguardano la nuova traduzione de "Il Signore degli Anelli" di
Tolkien, esigenza nata dichiaratamente per sottrarre l'opera del professore di
Oxford all'egemonia storica dell'ermeneutica di destra - fenomeno che si
ritiene tipicamente italiano - e, resa docile, portarla nel recinto domestico
dei buoni, bravi e frequentabili. Per i neoliberali è intollerabile che un
autore di tale portata e di una reputazione non oscurabile, possa essere pietra
di scandalo del proprio modello, e così lo si è sequestrato e ortopedicizzato,
con l'intenzione di premasticarlo e predigerirlo in modo da farne un
omogeneizzato privo di veleni (o di principi attivi) per le masse.
Recentemente tentativi analoghi si stanno facendo per "1984" di Orwell, il romanzo più citato nel ciclo pandemico, sebbene a parer nostro non il più pertinente. Più che per uno smascheramento del totalitarismo coatto in via di costituzione - a questo si presta decisamente meglio la descrizione dell'incubo tecnocratico di Huxley - "1984" è utile come guida/modello di resistenza etica ed eroica del singolo di fronte allo strapotere dell'apparato statale. Non conta che l'intento sia destinata a fallire: ciò che conta è il messaggio che si è uomini fintanto che vi è volontà di esserlo, e che si può combattere anche un nemico a cui si sa si soccomberà, solo perché è giusto farlo. Indica anche dei modi e dei tempi per farlo: amore e passione contro oppressione e controllo, riappropriazione del tempo dalla sua occupazione obbligata, esercizio costante di senso critico e libertà di pensiero, solidarietà e alleanza del simile con il simile.
" Il web disattiva l'hashtag 1984" si legge in questi giorni.
Ecco che anche Orwell è diventato un pericolo,
dopo che lo si è compreso come inassimilabile: non c'è modo di ridurre un'opera
che è sostanzialmente un inno all'anarchia morale e responsabile a un
coadiuvante di statalismo, tecnocrazia e propaganda. Se non si può assimilare,
lo si può espellere, tentare di far sì che la gente lo scordi, o non ne parli.
"L'ultimo uomo in Europa", così era in origine il titolo che Orwell
voleva dargli, è oggi un potenziale manifesto generazionale, a settant'anni da
quando fu scritto, proprio perché è ora che la possibilità della scomparsa
dell'uomo si sta manifestando, a fronte delle turbe dell'inumano. Ecco perché i
social, cani da guardia del sistema, dichiarano guerra ad Orwell. A tutti gli
Orwell. All'Orwell che abita dentro di noi.