In una situazione “pandemica” il punto di vista del personale medico operativo non è la migliore fonte di informazione per avere una visione d'insieme dei fenomeni.
Se chiedo informazioni a un soldato al centro di
uno scenario di guerra, durante la fase più dura della battaglia e magari dopo
giorni di presidio incessante, secondo voi il suo punto di vista sull'esito e
l'andamento della guerra sarà attendibile o compromesso dall'emotività del
momento, dalla stanchezza, dall'esasperazione? Aggiungiamo poi che a questa
situazione si sommano varie pressioni psicologiche dovute al senso di
responsabilità, aspettative dell'opinione pubblica, frustrazioni di vario
genere. Ricordiamo poi che lo scenario in cui si muove suggerisce un
persistente senso di mobilitazione e di precarietà, nonchè di pericolo, a cui
il soldato reagisce con risposte a cui è stato educato e condizionato, in uno
stato di pre-comprensione ideologica.
Ora, un infermiere che si trova nell'occhio del
ciclone ha esattamente questo punto di vista. La sua valutazione ci parla della
sua esperienza, che è limitata al luogo in cui opera e a una sua percezione che
passa attraverso numerosi filtri emotivi, compresi quelli della stessa
propaganda mediatica che "gli racconta" se stesso, il suo dramma, il
suo eroismo. Non è possibile estendere questa prospettiva a una valutazione
generale: la regola generale è che chi è più coinvolto è il meno indicato a
valutare alcunchè.
Una “pandemia” ha nella dimensione sanitaria solo
una delle sue dimensioni: una sua valutazione non può che passare attraverso un
approccio multidisciplinare (sociologico, economico, politico, geopolitico,
storico, antropologico) che medici e sanitari non sono tenuti ad avere.
Limitare la propria valutazione alla prospettiva sanitaria o dei sanitari, non
solo circoscrive la questione a una dimensione periferica, ma qualora questa
prospettiva venga assolutizzata, ne falsa completamente gli esiti.