Perchè destra e sinistra sono categorie divenute obsolete
L'idea che destra e sinistra siano categorie obsolete inizia a insinuarsi nel sentire comune. Il concetto è spesso evocato da movimenti e formazioni politiche che appartengono alla cosiddetta galassia "populista": essi ne deducono la necessità della ricerca di una risposta alle esigenze del tempo presente che non si areni presso schematismi inattuali, i quali non sarebbero più in grado di far fronte alle urgenze di una società difficilmente interpretabile alla luce delle precedenti griglie ideologiche. Spesso, tuttavia, il preteso oltrepassamento delle categorie di destra e sinistra si risolve nel tentativo di affastellare elementi delle vecchie dottrine senza ricorrere a dei principi e a una visione d'insieme capaci di ordinarli e integrarli, semplicemente abbinando al vecchio apparato ideologico, per puro opportunismo politico, un nuovo linguaggio e un rinnovato immaginario. Trattasi, in questi casi, di una reazione viscerale o di un puro espediente propagandistico che, non avvalendosi di una seria analisi preliminare che informi una coerente linea programmatica, non possono giungere a formulare sintesi soddisfacenti. Cercheremo pertanto, con le successive riflessioni, di suggerire un quadro di riferimento per orientarsi verso quella che a parer nostro è una corretta posizione del problema.
Secondo lo schema parlamentare classico,
consolidato e condiviso, per destra si intende l'insieme delle posizioni
definite come conservatrici e nazionaliste, le quali possono ampiamente
differenziarsi in merito alla visione economica e sociale. La sinistra, invece,
definisce l'insieme delle posizioni progressiste e egualitariste, le quali
possono essere diversamente declinate, anche in questo caso, in merito alle
specifiche preferenze in materia di economia e società. Schematizzando, e
sempre attenendosi a un modello generalmente condiviso, a destra avremo
l'istanza di una comunità che afferma la propria identità nazionale e
culturale, e che tendenzialmente custodisce gli equilibri consolidati per
preservare un ordine che si desidera differenziato e organico; a sinistra
avremo invece l'insieme delle spinte propulsive alla messa in discussione di
quegli equilibri, in vista di un ambiente che si vorrebbe rimodellato alla luce
di valori come l'uguaglianza, la solidarietà e le pari opportunità. Una zona
terza e mediana è rappresentata dal cosiddetto centro: in questo caso si
intendono posizioni moderate che perseguono essenzialmente la via riformista,
mentre dal punto di vista politico rappresentano versioni attenuate o sfumate
dei precedenti schieramenti, con una particolare predilezione per declinazioni
progressiste e liberali.
Sempre schematizzando, questa tripartizione
risponde a un modello di società stratificata, tipicamente moderno, in cui
esistono classi sociali caratteristiche e ben differenziate: al conservatorismo
corrisponderebbe l'interesse dei ceti abbienti o perlomeno benestanti,
desiderosi di mantenere lo status quo e conseguentemente i propri privilegi
storici; ad esso si contrappone il desiderio di cambiamento (sia esso
interpretato come radicale o progressivo) proprio dei ceti emergenti o della
classe lavoratrice, laddove i primi reclamerebbero uno spazio non ancora
conquistato, e i secondi l'affrancamento da una condizione costitutiva di
sfruttamento propria dell'ordine tradizionale. Tra queste due possibilità, il
centro costituisce un punto di equilibrio e mediazione che può, a seconda dei casi,
assumere sfumature diverse, non avendo una specifica collocazione ideologica
che lo definisca a priori. Questo ruolo del centro sarà cruciale, come vedremo,
nell'epoca del tramonto delle grandi ideologie.
Chi scrive è dell'idea che, prescindendo dalle questioni
di ordine economico e sociale, la contrapposizione storica tra destra e
sinistra corrisponda intimamente al contrapporsi di due diverse visioni della
realtà, a cui si è tentato storicamente di adeguare e approssimare differenti
modelli politici e sociali. Tali tentativi di adeguamento presiedettero alle
varie esperienze politiche che informarono la modernità e in particolare il
novecento, che infatti può essere definita come l'epoca dello scontro e della
conflagrazione delle grandi ideologie. Alla base dei bagni di sangue che
irrorarono la storia degli ultimi secoli non può essere individuato come
movente l'interesse materiale individuale, sia esso di una nazione o di singole
personalità: solo la competizione per una necessità vitale e fondamentale come
il senso, nel significato più ampio del termine, può giustificare la
determinazione, l'intensità della volontà e il dispiegamento di energie messi
in campo in tale epoca per la supremazia della propria visione del mondo. A
partire da questi presupposti - e senza entrare nel merito di tali prospettive,
la cui disamina richiederebbe uno spazio ben più ampio di quello di cui qui si
dispone - ciò che è importante sottolineare è che solo tenendo ferma l'idea che
dietro al confronto politico si celi in realtà lo scontro tra diverse visioni
del mondo, sia possibile spiegare il radicalismo raggiunto sovente da tale
competizione, anche laddove non vi sia piena comprensione della dimensione
metafisica che esso esprime.
In Italia, gli estremi parlamentari ed
extra-parlamentari incarnarono ideologie di tipo rivoluzionario, cioè
intenzionate a portare un cambiamento radicale nell'assetto politico e sociale
del paese, che ancora una volta ricorrendo a uno schematismo di comodo
definiremo con i nomi di due esperienze caratterizzanti il novecento, a cui
tali estremi sovente si richiamarono come ai propri modelli, ossia fascismo e
comunismo. Il clima in cui tale confronto avvenne nella seconda metà del
novecento fu essenzialmente quello della guerra fredda, a cui successivamente
al crollo del colosso sovietico seguì una nuova epoca non più informata al
bipolarismo, ma all'emergere di un nuovo ordine mondiale il cui disegno e
dispiegamento è tutt'ora in corso. Gli anni di piombo, in Italia, furono
soprattutto il riflesso dell'esacerbarsi della tensione tra i due estremi
parlamentari, favorita dal clima di pesante contrasto ideologico
internazionale, e dall'idea (fondata o meno, non ha importanza) che all'interno
di tale scontro fosse realmente possibile portare un cambiamento radicale negli
equilibri interni del paese. Alla fine della guerra fredda corrispose un
progressivo raffreddamento ideologico che si accompagnò anche a nuove
condizioni sociali, tali per cui i classici soggetti delle teorie
rivoluzionarie ne uscirono con un aspetto decisamente rinnovato se non
irriconoscibile, tanto da vanificare gran parte dell'apparato categoriale fino
ad allora utilizzato per pensare il cambiamento.
E' in questa cornice che soprattutto negli ultimi
vent'anni abbiamo assistito all'instaurarsi di condizioni inusitate e di un
rinnovato quadro d'insieme. Al progressivo raffreddamento ideologico è
corrisposta una sempre più totalizzante risoluzione della prassi politica in
quella amministrativa: ciò è essenzialmente conseguenza del fatto che l'istanza
relativa al senso è stata accantonata con il tramonto delle grandi ideologie.
Il centro ha pertanto fagocitato gli estremi parlamentari, espellendo
progressivamente i soggetti portatori di istanze rivoluzionarie, le quali sono
state dichiarate definitivamente accantonate con la fine della guerra fredda.
In pratica i vecchi schieramenti parlamentari sono stati ridotti a un ampio
centro (posizione che abbiamo visto essere costitutivamente trasformista), il
quale si colora al bisogno esclusivamente in vista, non della messa in
discussione o dell'affermazione di una particolare visione del mondo, ma della
modalità di intendere gli assetti economici e la distribuzione o il prelievo
dei beni. L'economia prevale sul politico perchè quest'ultimo, in assenza di
una reale competizione ideologica, risulta essersi già risolto nell'ordine
vigente. Ciò che oggi in parlamento sono chiamate destra e sinistra altro non
sono che l'espressione di un'unica visione del mondo che corrisponde a quella
che regge il presente: nessun cambiamento è possibile all'interno di tale
cornice, perchè ogni istanza reale di trasformazione è stata accantonata,
espulsa o dichiarata impraticabile. Quell'unica visione, sorta dal tramonto
delle grandi ideologie, indiscutibile e totalizzante, e che qui ci riserviamo
di non trattare per motivi di spazio, è ciò che chiameremo pensiero unico.
In questa prospettiva il pensiero del cambiamento,
ciò che un tempo sarebbe stata definita l'istanza rivoluzionaria, non si
configura più come un confronto tra destra e sinistra, che abbiamo visto
essersi acclimatate all'interno di un orizzonte condiviso. Ammesso tuttavia che
le due posizioni possano essere recuperate in tale contesto, ciò che le rende
di fatto inattuali è il rinnovato assetto culturale e sociale che si è imposto
con sempre maggiore evidenza nel nuovo millennio. Per quanto riguarda la
sinistra, la classe operaia, soggetto rivoluzionario per eccellenza
dell'ideologia marxista, è stata assorbita nella nuova borghesia impoverita
dalla condizione permanente di precariato, attuale modello istituzionalizzato
del lavoro di massa. In questa nuova entità sociale, priva di storia e di
coscienza di classe, né ricca né affamata, priva di prospettive di cambiamento
quanto di ambizioni, scolarizzata per necessità di indottrinamento, ed educata
alla produzione e al consumo in quanto ingranaggio e terminale del processo
economico, rientra la maggior parte della popolazione. Ai due estremi della
forbice sociale, la cui ampiezza non conosce precedenti storici, vi sono da una
parte l'élite economica, detentrice di una ricchezza e di un'influenza un tempo
inimmaginabili, e dall'altra coloro che incarnano la povertà assoluta, questi
ultimi contenuti in un numero tale da non poter essere politicamente influenti
o statisticamente rilevanti. Per quanto riguarda la destra, invece, sono le
figure, le idee e le istituzioni tradizionali che sono venute progressivamente
a mancare come polo di riferimento e aggregazione per un ordinamento di tipo
verticale, identitatario e differenziato. La messa in discussione della difesa
ad oltranza di tali elementi, un tempo considerati non sacrificabili, sotto
pressante condanna dell'opinione pubblica, ha concorso progressivamente a
svuotare tale schieramento dalle proprie prerogative storiche. A ciò ha
concorso ovviamente una sempre maggiore secolarizzazione della società e il
conseguente riflusso relativista. Ciò che rimane della destra si è dunque
arroccato in posizioni di difesa, più che di una visione d'insieme organica, a
cui sembra aver da tempo rinunciato, di alcuni specifici elementi ideologici
che possiedono un valore residuale essenzialmente affettivo e simbolico.
Il confronto tra le parti, dunque, risulta essere
più apparente che reale, in quanto avviene tra soggetti neutralizzati nella
propria storica istanza rivoluzionaria, e all'interno di un orizzonte omogeneo
che lascia spazio solo per la messa in discussione delle singole applicazioni
di presupposti che sono da tutti ritenuti indiscutibili. L'apparenza di una
dialettica politica viva e accesa è tuttavia mantenuta e stimolata, in quanto
decisamente funzionale alla preservazione e all'equilibrio del sistema. Ciò
avviene essenzialmente per due motivi. Innanzitutto fornisce il simulacro di un
pluralismo che si erge a garante delle libertà su cui il sistema si impegna.
Tale pluralismo di facciata, tuttavia, non giunge mai, come già ricordato, ad
accogliere prospettive capaci di mettere in discussione il pensiero unico e la
sua espressione politica; esso pertanto risulta essere ininfluente dal punto di
vista di ciò che più conta, ossia una critica radicale capace di elaborare
autentiche alternative. Svuotato di ogni capacità critica, la dialettica
politica si risolve esclusivamente in una commedia i cui attori sono
intercambiabili, mentre i ruoli rimangono sempre gli stessi, in un paradossale
gioco di specchi e di riflessi in cui ogni parte presta all'altra linguaggi,
idee, stili e personalità. Lo scontro ideologico, inoltre, opportunamente
coltivato ed esarcebato alla necessità, fornisce un utile diversivo su cui
scaricare tensioni e frustrazioni sociali, senza che queste giungano mai a
intaccare il nocciolo duro del potere. In pratica, la simulazione del conflitto
cela la totale assenza di una autentica istanza critica e di genuini soggetti
politici che la incarnino, e il disagio sociale che tale situazione priva di
sbocchi genera, viene canalizzato, circoscritto e scatenato all'interno di
tempi e luoghi preposti, e pertanto perfettamente contenuto e monitorato. La
geografia del dissenso è mantenuta accuratamente tutta all'interno del
perimetro del consenso.
In questo quadro d'insieme, continuare a
considerare destra e sinistra come due schieramenti antagonisti e dotati di
una propria identità caratterizzante, significa essenzialmente preservare la
dinamica dei processi che reggono e preservano lo status quo, nonchè rinforzare
l'egemonia ideologica del pensiero unico. Se vi è la possibilità di recuperare
una capacità di visione e di pensiero in grado di concepire il cambiamento, ciò
che un tempo era definita l'istanza rivoluzionaria, essa non può che essere
custodita nell'oltrepassamento di tale inganno.