Nel 2006 uscì per Settimo Sigillo uno stimolante
saggio di Luca Leonello Rimbotti dal titolo "Rock duro anti-sistema. Heavy
metal, tradizione e ribellione", il quale , seppur rivedibile dal punto di
vista documentale, è da segnalare soprattutto per la tesi sociologica che lo
sostiene, la quale getta una luce tutt'altro che scontata su un fenomeno
culturale di massa (e in particolare su alcune sue correnti meno popolari e più
controverse) che i più liquidano essenzialmente come espressione di
superficialità giovanile (o cronica immaturità, quando si protrae nel tempo),
mera contestazione stereotipata o semplice cattivo gusto.
Portiamo l'attenzione su questo testo perché
recentemente, con dei cari amici che come noi hanno trascorso l'adolescenza e la
tarda adolescenza all'interno di tale ambiente - stiamo parlando degli anni '90
-, ci si è interrogati sul senso di quella permanenza, e come a partire da tale
cultura, apparentemente così nichilista e dissacrante, sia stato possibile
giungere poi a cercare e riscoprire orizzonti di senso apparentemente antitetici,
come il recupero delle nostre radici europee, la nostra spiritualità, il senso
dell'identità e del sacro, la ricerca della trascendenza e delle fondamenta
permanenti dell'etica e del politico. Abbiamo constatato come, seppur non
scontato, tale percorso non fosse poi così raro, riguardando anche altre nostre
conoscenze, e che le risposte che nel tempo eravamo giunti a darci
indipendentemente convergevano essenzialmente con la tesi sostenuta nel libro.
Comune era anche il disagio che provavamo di fronte a tale passato, perché
nonostante ad entrambi il percorso apparisse lineare e assolutamente
consequenziale, percepivamo la difficoltà di trasmettere quell'esperienza di
senso - e di traslazione di senso - a coloro che non l'avessero vissuta
direttamente.
In particolare, ci eravamo orientati
verso le correnti più estreme del genere, soprattutto dal punto di vista
concettuale, che allora appartenevano ancora a una dimensione underground non
ancora addomesticata ed emersa. Gli anni '90 furono per l'extreme-metal un
grande laboratorio di estetiche e tematiche che essenzialmente le decadi
successive avrebbero compendiato ininterrottamente, spesso banalizzandone e
neutralizzandone la carica eversiva, paradossalmente canonizzando forme ed
espressioni nate invece con un genuino intento di rottura. Gli anni '90 furono
essenzialmente l'epoca del black metal nord-europeo, probabilmente l'ultima
grande sottocultura giovanile che abbia avuto un autentico impatto sociale, a
causa soprattutto delle attenzioni mediatiche ricevute grazie agli eventi di
cronaca nera che ne accompagnarono gli esordi, e che portarono molti tra
sociologi, religiosi e autorità a interrogarsi su come interpretare l'urgenza
che tale movimento esprimeva. Diamo per scontato che chiunque legga sappia cos'è il
black metal e abbia perlomeno un'idea delle sue origini e delle correnti
tematiche che lo caratterizzano. Per quanto riguarda il primo punto esiste
un'ampia letteratura che chiunque sia interessato a conoscere le origini del
fenomeno può facilmente reperire; per quanto riguarda il secondo punto, invece, ci limitiamo a dire molto sinteticamente e a rischio di un'eccessiva
semplificazione, che a partire da una cornice che potremmo definire come
"satanismo medievale", ossia un pittoresco immaginario fatto di demoni,
evocazioni diaboliche e sabba di streghe, con una decisa presa di posizione
dissacrante e anti-cristiana, il repertorio del black metal si è
progressivamente arricchito di suggestioni pagane e neo-pagane,
ultra-nichiliste o superoministe, fino ad accorpare anche elementi di natura
politica, segnatamente di ultra-destra o iper-reazionari. Una particolare
attenzione la ricevette sin dalle origini l'opera di Tolkien, seppure declinata
in direzione invertita e pertanto incompatibile con gli intenti dell'autore;
tale elemento, credo, non sia secondario ai fini della nostra riflessione,
visto che una analoga fascinazione è stata abbondantemente vissuta (e spesso
consumata) nel ventennio precedente dai movimenti con tendenze spirituali
all'interno dell'estrema destra, cosa questa che in qualche in modo denota
tensioni ideali comuni e non di rado esiti affini nelle vicende biografiche di
chi condivise quegli ambienti così distinti, i quali solo raramente - e spesso
in modo paradossale - finirono per incontrarsi e convergere.
Se pensiamo a quale visione del mondo la società in
cui vivevamo ci invitava ad aderire passivamente, comprendiamo senza difficoltà
perché istintivamente nell'adolescenza ci orientammo verso
alternative tanto chiassose. Di fatto, la cultura di massa che si basava
essenzialmente su una ricetta di distrazioni ed anestetici, propedeutici a una
partecipazione attiva/passiva alla società dei consumi, di fatto non poteva
appagare una certa inquietudine tipica di soggetti che l'indottrinamento
standard, il quale passava attraverso famiglia, scuola e varie associazioni del
tempo libero, non aveva mai persuaso in modo troppo efficace. Tali
soggetti, che non consideriamo necessariamente più intelligenti o lungimiranti del
giovane medio, ma che ci limiteremo a definire semplicemente
"cortocircuitati", non trovando appagamento nel repertorio di
autorappresentazioni che venivano loro suggerite nel catalogo della cultura
mainstream, venivano facilmente cooptati dai vari movimenti presenti nell'underground
delle culture giovanili, i quali supplivano a tale carenza con un ampia
gamma di surrogati. A indirizzare il giovane outsider nella propria scelta
identitaria erano fattori spesso contingenti, come frequentazioni comuni o
prossimità a particolari centri logistici, ma non di rado era una autentica
tensione ideale verso ciò che si riteneva meritevole del proprio tempo e della
propria attenzione.
Ci chiediamo ora: come non essere anti-cristiani
quando l'unico volto del cristianesimo che si conosceva allora era quello
disfatto della sua deriva sociale, frutto putrido del Concilio, fatto di
perbenismo da parrocchia, centri estivi e cerimonie leziose a cui pure il prete
si annoiava? Non era ancora la stagione degli arcobaleni, ma i colori erano già
quelli, e nei nostri ricordi d'infanzia c'erano soprattutto cartelloni color
pastello, pieni di fiori e di scritte stucchevoli, con un Cristo di spalle che
camminava verso il tramonto tenendo bambini per mano. Ci chiediamo quanti si siano
persi in direzione di quel tramonto, perché la stretta non era abbastanza
forte.
Non si priva impunemente una generazione intera
della guerra, anche se si tenta di allevare eunuchi. Una buona porzione non
sarà accondiscendente, perché la necessità di combattere è insita nell'uomo. La
guerra esiste perché il mondo non è un paradiso; una buona ragione per
combattere la si troverà sempre. Se esiste un'etica, esiste il conflitto: per
cercare di inibire l'innato istinto che nell'uomo chiama a combattere per ciò
che egli ritiene giusto e desiderabile, si è dovuto prima di tutto rimuovere
l'idea di qualsiasi assoluto. Le generazioni precedenti alla nostra erano
ancora capaci di pensare il cambiamento in vista di valori che ritenevano
assoluti: a partire dalla nostra, invece, questo è di fatto divenuto
impossibile. La perdita della passione politica e della militanza che
contraddistinsero le nostra generazione e quelle successive è appunto dovuta
all'aver amaramente sperimentato il fallimento delle grandi ideologie e lo
scacco della politica che muove dalla base. Le generazioni precedenti alla nostra
surrogavano la guerra nella militanza politica: per la nostra, invece, la violenza
ideale è un grande rimosso, e il bisogno di militanza è stato surrogato in vari
modi, più o meno efficaci. Alcuni scelsero ad esempio lo stadio; altri, scelsero la musica.
Non a caso la metafora bellica è un luogo classico
della poetica extreme-metal. Anche l'idea di élite, di far parte di un gruppo
appartato e distinto che lotta per la propria difesa o supremazia, lo è. Ma lo
è pure l'idea anti-cristiana (di quel cristianesimo della banalità e della
debolezza di cui parlavamo sopra), a cui si contrappone una sorta di misticismo
senza oggetto, o di mistica invertita, che desidera, prega o invoca maschere e
fantasmi, tra mitologia e letteratura. Nessuno che abbia realmente vissuto
all'interno della cultura black metal negherà che esso fosse (per alcune sacche
di resistenza lo è ancora) una parodia, o un surrogato, di religione: un
termine frequentemente utilizzato per definirlo è appunto quello di
"culto", non raramente "fede". Altre due parole sono
frequentemente utilizzate per caratterizzarlo, termini che tradiscono un
profondo anelito alla trascendenza e al sacro: "puro" e
"vero". Crediamo ma sarebbe qui troppo lungo argomentarlo e ci limitiamo semplicemente a fornirne la suggestione, che il black metal, nella sua
forma genuina ed autentica, ossia quella coltivata nell'underground delle
origini, e custodita ancora al di fuori dell'industria musicale da pochi
fedeli, andrebbe studiato oltre che come fenomeno artistico, anche nella sua
valenza di movimento neo-spiritualista.
E veniamo così alla tesi di Luca Leonello
Rimbotti, a cui all'inizio abbiamo accennato. Riferendosi genericamente all'heavy
metal scrive:
"Questa musica veicola idee, disposizioni, attitudini,
simbolismi, ritualità, mitemi, tipologie, che, pur nella loro superficialità
scenica, spesso a sua volta inquinata da astuzie commerciali, vanno
incontestabilmente nella direzione di un recupero di sparsi ma consistenti brandelli
della Tradizione europea". E ancora: "In questa musica potente rivive
l'Eroe, rinasce la Saga, si rianima il Mito, si rivendicano l'Onore, la
Fedeltà, la Fede, si celebrano il Destino, il Mistero e il mondo Arcano della
Magia (...)".
Concordiamo pienamente con quanto scrive, e crediamo che
il black metal abbia massimizzato e incarnato queste istanze in maniera
esemplare. Siamo stati salvati da un appiattimento omologante proprio dall'aver rinvenuto
in quella cultura un orizzonte critico e una provocazione capaci di impedire la
rassegnazione a quella sconfitta della lotta per il senso a cui invece abbiamo visto
molti coetanei soccombere. Praticamente una generazione intera. Crediamo
inoltre che in noi abbia preparato il campo, con la corrosione di certi luoghi
comuni e assuefazioni ideologiche, a nuove prospettive intellettuali e
spirituali verso cui ci saremmo incamminati negli anni successivi. In tutta la
sua paradossalità, sono convinto che nella nostra formazione sia stata un
fenomeno positivo a cui dovere riconoscenza.
Crediamo tuttavia che come per alcuni fu medicina,
per altri fu veleno, secondo la tradizionale ambivalenza del termine greco
pharmakon. Come scrisse un saggio esoterista dei primi del '900: "Non è
raccomandabile confondere i simboli, perché in tal modo si confondono
facilmente anche le forze che stanno dietro di essi". Le vicende di sangue
che accompagnarono il periodo classico del genere lo testimoniano a monito perenne:
non si evocano impunemente certe forze, risiedano esse negli inferi o nel
subcosciente, se non si ha la certezza di poterle dominare. Beninteso, la sfida
non è per tutti.