Mentre l’Occidente attraversa una crisi senza precedenti che rischia di trasformarlo irrimediabilmente e radicalmente sotto il profilo sociale, economico e biopolitico, l’autoproclamatasi intellighenzia liberal-progressista trova comunque il tempo per dedicarsi, come suo solito, a questioni di lana caprina.
Questo clero del pensiero corretto, che sceglie di non vedere le file di poveri che si fanno ogni giorno sempre più lunghe e che liquida stancamente come facinorosi, fascisti ed evasori fiscali chiunque protesti in piazza per poter tornare semplicemente a lavorare, esibisce una tanto frenetica quanto sciocca vitalità nel sollevare questioni grottescamente avulse da ogni concretezza come ad esempio il cosiddetto “catcalling” (sic) e l’adozione da parte di un’amministrazione comunale del fonema scevà nelle comunicazioni, in quanto considerato più inclusivo del tradizionale plurale maschile universale.
Tutte queste recenti iniziative, caratterizzate da
un sostrato di piagnisteo vittimistico e dalla necessaria e complementare
ricerca di un carnefice, semplicisticamente identificato in una caricaturale
figura maschile monodimensionale, sempre relegata al ruolo di persecutore,
dominatore e sfruttatore, svelano componenti fondamentali della forma del pensiero
dei semicolti radical-progressisti che producono e si nutrono senza sosta di
simili polemiche culturali.
Il semicolto in questione, alla profondità di
sguardo e alle analisi complesse, preferisce la via agile dell’indignazione,
stato emotivo che annulla qualsiasi confronto, stabilendo a priori un confine
manicheo tra buoni e cattivi.
Alla effettiva dialettica tra classi dominanti
sovranazionali e ceti subalterni usciti perdenti dalla globalizzazione, egli
sostituisce quindi suddivisioni astratte e fomentanti la frammentazione sociale
quali, ad esempio, uomini-donne, giovani-vecchi, laureati-scarsamente
scolarizzati, città-provincia.
L’esempio dello scevà è poi paradigmatico della
superficialità alla base delle azioni messe in campo dai semicolti, ebbri di
perenne autocompiacimento derivante dalla convinzione di appartenere sempre e
comunque allo schieramento dei buoni e dei giusti.
Non solo infatti, come già detto, lo scevà non è
una lettera dell’alfabeto bensì un fonema, ma il suo utilizzo dimostra la
completa ignoranza delle più basilari conoscenze di funzionamento del cervello
umano il quale, quando in una scritta trova un carattere o un simbolo fuori
contesto, lo riconduce automaticamente al carattere o al simbolo più vicino per
coerenza al contesto stesso.
Così, come chiunque leggendo la scritta “c4ne” la
decodificherebbe come “cane”, allo stesso modo la parola “cittadinə”
viene letta dal nostro cervello come “cittadine”, vanificando di fatto
l’inclusività di questa mirabolante trovata e ricadendo nella stessa presunta
discriminazione contenuta nei plurali maschili universali, solo di matrice
opposta.
In definitiva il semicolto progressista è
assimilabile al bombo, quell’insetto che, secondo alcuni, non dovrebbe essere
in grado di volare per la sua conformazione fisica.
Allo stesso modo in cui il piccolo imenottero vola
comunque, a dispetto delle previsioni e delle evidenze, il semicolto
politicamente corretto, inconsapevole della propria ottusa stupidità e profonda
ignoranza, continua gongolante a pontificare e sentenziare.