L’ideologia
del lavoro sembra avere origine nella Bibbia, dove l'uomo è definito, sin dal
momento della creazione, dall'azione che esercita sulla natura: “Fruttificate, moltiplicatevi, riempite la
terra, sottomettetela”(Gen., 1, 28). Dio ha collocato l'uomo nel giardino
dell'Eden ut operatur, “perché lavori” (Gen., 2, 15). Questo brano precede il
racconto del peccato originale; il risultato di quel peccato non è quindi il
lavoro, come troppo spesso si dice, ma solamente la condizione più penosa in
cui esso dovrà da quel momento in poi essere svolto.
Dopo
il peccato, l'uomo si guadagnerà il pane “con il sudore della fronte”.
Con
la missione assegnata all'uomo di “sottomettere” la terra si inaugura già il
dispiegamento planetario e incondizionato dell'essenza della tecnica moderna,
come punto d'arrivo di una metafisica che instaura tra l'uomo e la natura un
rapporto puramente strumentale. L’uomo ha la vocazione al lavoro, e il lavoro ha la vocazione
a trasformare il mondo; esso rappresenta pertanto una rottura con l'essere, un
dominio su un mondo fatto oggetto della signoria umana. Come l'uomo è l'oggetto
di Dio, così la terra diventa l'oggetto dell'uomo, che la trasforma
assoggettandola alla ragione tecnica. Nel contempo, il lavoro assume un valore
eminentemente
morale. Dirà san Paolo: “Se
qualcuno non vuole assolutamente lavorare, non mangi”, frase originariamente
enunciata sotto forma di constatazione (“chi
non lavora non mangia”) ma che ben presto diventa una formula prescrittiva:
“Chi non lavora non ha il diritto di mangiare”.
Questa
visione del mondo, che oggi ci appare cosi familiare, è segnata da una rottura totale
con la concezione prevalente nella quasi totalità delle società tradizionali,
dove non solo la necessità non detta legge, ma l'ambito di ciò che è
specificamente umano si situa viceversa nel rifiuto di assoggettarsi al regno
della necessità materiale. Marshall Sahlins, ad esempio, ha mostrato in maniera
convincente che le società “primitive” sono società nelle quali non si lavora
mai più di tre o quattro ore al giorno, perché i bisogni vengono volontariamente
limitati e al “tempo libero”, viene assegnata la priorità rispetto
all'accumulazione dei beni.
Nell'Antichità
europea, il lavoro viene disprezzato proprio perché è considerato il luogo per
eccellenza dell'assoggettamento alla necessità. Questo disprezzo lo troviamo
tanto nei greci e nei romani quanto nei traci, nei lidii, nei persiani e negli
indiani. l’idea più comune è che, essendo per definizione deperibile tutto ciò
che l'economia produce, il lavoro, motore dell'economia, non è adatto a
rappresentare quel che va oltre la semplice naturalità dell'esistenza umana. In
Grecia, soprattutto, il lavoro è percepito come un'attività servile che, in
quanto tale, è in antagonismo con la libertà, e quindi anche con la
cittadinanza. “Un pastore ateniese”, nota a questo proposito Alain Caillé, “è un cittadino, a differenza dei ricchi
artigiani, non perché è un lavoratore, come penserebbero i moderni, ma al
contrario perché è un ozioso, perché dispone di quel tempo libero (skholè) che è la sola prerogativa in
grado di rendere gli uomini pienamente umani”. “Non è
possibile esercitare la virtù quando si fa la vita di un artigiano” scrive
Aristotele.
Sarebbe
sbagliato vedere in questa svalutazione del lavoro semplicemente il riflesso di
una visione gerarchica della società e la conseguenza della comodità,
rappresentata dall'esistenza di schiavi. Essa esprime in realtà un'idea molto
più importante: l'idea che la libertà (come del resto anche l'eguaglianza) non
può risiedere nella sfera della necessità, e che vi è autentica libertà solo
nell'affrancamento da tale sfera, Ovverosia nell'al di là dell'economico. (…)
Secondo
Aristotele, l'economia ha a che vedere con l'ambito “familiare”. Essa si
definisce, in senso proprio, come un insieme di regole di amministrazione
domestica (oikos-nomos), che Aristotele distingue del resto nettamente dalla
produzione di beni in vista di uno scambio mercantile, cioè dalla crematistica.
ln quanto tale, essa si contrappone alla sfera pubblica, ambito della libertà,
il cui godimento e la partecipazione alla quale presuppongono l' “oziosità”. La
libertà è una faccenda pubblica; non può essere ottenuta nel privato o
attraverso di esso.
Non
esiste d'altronde all'epoca nessuna parola generica per designare il lavoro. I
termini più correntemente utilizzati dai greci (ponos, ergon, poiesis) testimoniano un apprezzamento qualitativamente
differenziato delle attività umane, giudicate secondo la conformità alla natura
o in base al valore d'uso e alla qualità del prodotto.
“Nel contesto della tecnica e
dell'economia antica", sottolinea Jean-Pierre Vernant, "il lavoro
appare solo [...] nel suo aspetto concreto. Ogni compito viene definito in
funzione del prodotto che punta a fabbricare [...] Non si considera il lavoro
nella prospettiva del produttore, come espressione di un unico sforzo umano
creatore di valore sociale. Non troviamo quindi, nell'antica Grecia, una grande
funzione umana, il lavoro, che copre tutti i mestieri, bensì una pluralità di
mestieri diversi, ciascuno dei quali costituisce un tipo particolare di azione
che produce la propria opera”.
Lo
stesso stato d'animo vige a Roma. A proposito del lavoro manuale, Seneca dice
che è “privo d'onore e non potrebbe
rivestire neppure la semplice apparenza dell'onestà”. Cicerone aggiunge che
il salario è il prezzo di una servitù, che “niente di nobile potrà mai uscire
da un negozio”, che “il posto di un uomo libero non è in una fabbrica”. La
lingua latina distingue nettamente il labor,
che evoca il lavoro penoso ed
oppressivo, e l'opus, l'attività creativa. «Lavorare» (laborare) ha
spesso il significato di «soffrire»; laborare
ex capite, “soffrire di mal di testa”.
Viceversa, la parola otium non designa affatto la pigrizia o il fatto di “non
fare niente", bensì l'attività superiore orientata verso la creazione, di
cui il commercio rappresenta la negazione (negotium, "negozio")' Quanto alla parola moderna
francese "travail", essa viene, come è noto, da tripalium, che
in origine era uno strumento di tortura…
Sin
dai primi secoli della nostra era, il cristianesimo si è sforzato di lottare
contro il disprezzo del lavoro.
Gesù
e i suoi apostoli erano dei lavoratori manuali. In breve tempo non si conteranno
più i santi patroni dei diversi mestieri. Ciononostante, per Secoli
sopravviverà l’idea che l'uomo non è fondamentalmente fatto per lavorare, che
il lavoro non è altro i che una triste necessità e non qualcosa da nobilitare o
lodare, e che talune attività sono incompatibili con la qualità di uomo libero.
Per reagire a questa idea fortemente radicata, la borghesia, soprattutto a
partire dal XVII secolo, moltiplicherà le critiche contro il carattere
«improduttivo», e quindi «parassitario», del modo di vita aristocratico.
André
Gorz è uno di coloro che hanno colto meglio in che misura ciò che noi oggi
chiamiamo lavoro è, nella sua stessa generosità, un'invenzione della modernità.
“L’idea contemporanea del lavoro”, scrive, “appare in effetti solo con il
capitalismo manifatturiero. Sino a quel momento, cioè sino al XVIII secolo, il
termine «lavoro" (Iaboul; Arbeit, travai) designava la pena dei servi e dei giornalieri che producevano
beni di consumo o servizi necessari alla vita che dovevano essere rinnovati
giorno dopo giorno, senza che nulla potesse essere dato per acquisito. Gli
artigiani, invece, che fabbricavano oggetti durevoli, accumulabili, che gli
acquirenti di regola trasmettevano ai posteri, non "lavoravano",
"operavano", e nella loro "opera" potevano utilizzare i
"lavoro" di uomini di fatica chiamati a svolgere i compiti
grossolani, poco qualificati. Soltanto i giornalieri e i manovali erano pagati
per il loro "lavoro"; gli artigiani facevano pagare la propria
"opera" in base a un tariffario fissato da quei sindacati
professionali che erano le corporazioni e le gilde, le quali proibivano
severamente qualsiasi innovazione ed ogni forma di concorrenza. [...] La
"produzione materiale" non era dunque, nell'insieme, retta dalla
razionalità economica”.
Per
molto tempo infatti il lavoro, benché riabilitato, è rimasto in una certa misura
al riparo da considerazioni puramente utilitarie o mercantili. Nel Medioevo, in
particolare, il mestiere ha un valore li integrazione sociale. E innanzitutto
un modo di vita, una maniera di stare al mondo, e, in quanto tale, rimane
dipendente da un certo numero di atteggiamenti etici, che vanno al di là della
sfera della sola materialità ed impregnano nel suo insieme una società nella
quale si giustappongono e si incrociano modi di vita organica differenti. I
mestieri hanno le proprie regole, le proprie tradizioni. Alloro esercizio sono
associate abitudini festive e credenze popolari che contribuiscono a limitare
gli effetti della sola ragione economica.
Il
lavoro speso nella costruzione delle cattedrali è tutto salvo che un lavoro che
miri all'utilità, come ha rimarcato, in una pagina molto nota, Georges
Bataille:
“L’espressione dell'intimità nella chiesa
[...] risponde al vano consumo del lavoro: sin dall'inizio la destinazione
sottrae l'edificio all'utilità fisica, e questo primo
movimento si esprime in una
profusione di vani ornamenti. Perché la costruzione di una chiesa non è
l'impiego vantaggioso del lavoro disponibile, ma il suo consumo, la distruzione
della sua utilità. L’intimità è espressa in modo condizionato da una cosa: purché questa cosa
sia
in fondo il contrario di una cosa,
il
contrario di un prodotto, di una merce: un consumo e un sacrificio”.
È
a questa forma di lavoro che Péguy allude quando evoca la pietà dell'«opera ben
fatta», il tempo in cui si cantava mentre si lavorava e si dava nel lavoro il
meglio di sé perché in quel lavoro ne andava della realizzazione di se stessi: “Abbiamo
conosciuto operai che avevano voglia di lavorare [...] Lavorare era la gioia
stessa, la radice profonda del loro essere [...] Esisteva un onore incredibile
del lavoro [...] Bisognava che un bastone di sedia fosse ben fatto [...] Non
doveva essere fatto bene per il salario o a causa del salario [...] per il
padrone o per i conoscitori [...] Bisognava che fosse fatto bene in sé [...] E
lo stesso principio delle cattedrali...”. Péguy, tuttavia, respinge sia la
concezione calvinista, in cui la coazione al lavoro trova la propria
legittimità nell'ordine della fede (il lavoro come sottomissione necessaria
all'esigenza di salvezza), sia la concezione borghese, che considera lavoro
autentico solo quello che non procura alcun divertimento. Egli non fa del lavoro
lo scopo supremo dell'esistenza. Pone al di sopra dei compiti necessari alla
sussistenza le attività dello spirito che permettono alla personalità di
fiorire. Sa che i valori etici e culturali sono superiori alla semplice
produzione degli oggetti. Ed è il primo a convenire che il lavoro è
radicalmente cambiato da quando è governato solamente dalle leggi economiche
dell'offerta e della domanda, della produzione e del mercato.
Con
la Riforma, e poi con l'emergere delle teorie liberali, il “valore-lavoro” diventa
infatti nel contempo valore dominante e valore in sé. In Locke, ad esempio, la
proprietà si fonda sul lavoro e non più sui bisogni, atteggiamento che già
giustifica l'appropriazione illimitata (e che Louis Dumont giustamente
definisce
tipicamente
moderna). Nel contempo, la giustizia viene fondata su un diritto di proprietà
posto come assoluto, agli antipodi del pensiero tradizionale che rapporta la
giustizia all'equità e a relazioni ordinate all'interno di un
tutto.
La proprietà risalirebbe allo «stato di natura» e sarebbe il frutto del lavoro
individuale, cioè dell'appropriazione da parte dell'individuo di tutto ciò che
egli sottrae alla natura e prende alla terra. E la nascita di quello che
Macpherson chiama l'«individualismo Possessivo».
(…)
Il modo in cui ai nostri giorni la parola “lavoro" viene indistintamente
applicata a qualunque forma di attività o di occupazione regolare, in diretta
contrapposizione con l'ideale ereditato dall'Antichità, riflette piuttosto bene le teorie di cui abbiamo or ora
sinteticamente accennato. Operai, dirigenti, artisti, ricercatori,
intellettuali, creatori: ormai tutti "lavorano". Anche i contadini si
sono trasformati in "produttori agricoli”, il che dimostra che i loro
compiti quotidiani non definiscono più un modo di vita incomparabile rispetto a
tutti gli altri.
Nondimeno,
questo onnipresente lavoro esige di essere colto e definito con precisione.
"Il "lavoro", nel senso contemporaneo", scrive André Gorz,
"non si confonde né con i bisogni, ripetuti giorno dopo giorno, che sono indispensabili
al mantenimento e alla riproduzione della vita di ciascuno; né con la fatica,
per quanto impegnativa possa essere, che un individuo fa per realizzare un
compito di cui lui stesso o i suoi sono i destinatari e i beneficiari; né con
quel che noi decidiamo di fare di testa nostra, senza tener conto del tempo e della
fatica, per uno scopo che ha importanza soltanto ai nostri occhi e che nessuno
potrebbe raggiungere al posto nostro. Se ci capita di parlare di
"lavoro" a proposito di queste attività del "lavoro
domestico", del "lavoro artistico” del “lavoro di autoproduzione”, lo
facciamo assegnando all'espressione un significato fondamentalmente diverso da
quello che ha il lavoro posto dalla metà alla base della propria esistenza, strumenti
cardinale e nel contempo obiettivo supremo. La caratteristica essenziale di
quel tipo di lavoro quello che noi "abbiamo", "cerchiamo",
"offriamo" consiste infatti nell'essere un'attività nella sfera pubblica, richiesta,
definita, riconosciuta utile da altri e, a questo titolo, da essi remunerata. Grazie
al lavoro remunerato (e più in particolare attraverso il lavoro salariato)
apparteniamo alla sfera pubblica, acquisiamo un'esistenza e un'identità sociali
(vale a dire una "professione»), siamo inseriti in una rete di relazioni e
di scambi nella quale ci misuriamo con gli altri e ci vediamo conferire dei
diritti su di loro in cambio dei nostri doveri verso di loro. La società
industriale viene intesa come "una società di lavoratori" e, a questo
titolo, si distingue da tutte quelle che l'hanno preceduta, perché il lavoro
socialmente remunerato e determinato è anche per quelle e quelli che ne
cercano, vi si preparano o ne mancano il fattore di gran lunga più importante
di socializzazione».
Perciò,
prosegue André Gorz, "la razionalizzazione economica del lavoro non è
consistita semplicemente nel rendere più metodiche e meglio adattate allo scopo
delle attività produttive preesistenti. Fu una rivoluzione, una sovversione del
modo di vita, dei valori, dei rapporti sociali e con la natura, l'invenzione nel
senso pieno del termine di qualcosa che non era ancora mai esistito. L’attività
produttiva veniva privata del suo senso, delle sue motivazioni e del suo
oggetto per diventare il semplice mezzo
per guadagnarsi un salario.
Smetteva di far parte della vita per diventare il mezzo per
"guadagnarsi da vivere". Il tempo di lavoro e il tempo di vivere venivano
staccati; il lavoro, i suoi strumenti, i suoi prodotti acquistavano una realtà
separata da quella del lavoratore e dipendevano da decisioni estranee. La
"soddisfazione di operare" in comune e il piacere di "fare"
venivano soppressi a vantaggio esclusivo delle soddisfazioni che il denaro può
acquistare [...] La razionalizzazione economica del lavoro avrà pertanto
ragione dell'antica idea di libertà e di autonomia esistenziale. Essa dà vita a
un individuo che, alienato nel lavoro, lo sarà anche, per forza, nei consumi
ed, infine, nei bisogni».
Alain
de Benoist