Black Metal, una tensione verso la trascendenza
Il signor Raab di Fassbinder, simbolo della postmodernità
Le pericolose ideologie di Kinsey e Money
Quando qualcuno dice “il gender non esiste”, in realtà mente sapendo di mentire. Ma, in qualche modo, esprime un fondo di verità perché non esiste un’ideologia gender caratterizzata da un libro sacro e dei punti di riferimento. Esiste più che altro una tendenza, che possiamo identificare come ideologia gender, una tendenza che nasce negli Stati Uniti a partire dalla rivoluzione sessuale degli anni 50 – 60 che afferma l'inesistenza di fatto della dicotomia sessuale maschio/femmina e l'esistenza invece, in realtà, di una sorta di ventaglio di possibilità che vanno dal maschile al femminile “etero” fino all'omosessualità, passando per un'infinita serie di passaggi intermedi, una sorta di ventaglio della sessualità.
Fluffer
A suscitare pena non sono tanto le celebrità che difendono e giustificano lo status quo, siano esse appartenenti al clero massmediatico dell’infotainment o alle schiere di virologi da salotto, all’esercito degli opinionisti onnipresenti, dei giornalisti totalmente asserviti al potere o delle stelline dell’industria pseudoculturale del divertimento di massa, quanto piuttosto i loro sostenitori o i loro follower, come usa dire oggi.
Quando si leggono i post di questi bramini fautori del politicamente corretto, della litania dei sacrifici inevitabili e dell’irreversibilità di certe scelte, cediamo spesso alla insalubre abitudine di scorrere i commenti sotto, un po’ per osservazione sociologica e un po’, ammetto, per macabra e morbosa curiosità.
Questi festanti e schiumanti adoratori, che fanno
quadrato attorno ai loro idoli difendendoli da ogni critica e ribadendo con
livore ogni loro posizione, ricordano la grottesca figura dei fluffer, quegli
uomini e quelle donne che, nell’industria pornografica antecedente all’avvento
dei farmaci per il vigore sessuale, dietro le quinte avevano il compito di
mantenere gli attori eccitati tra una una scena e l’altra o in attesa che il
regista trovasse l’inquadratura giusta.
Tuttavia, se almeno i fluffer, pur non godendo
ovviamente della fama, dei compensi o dell’orgasmo liberatorio degli attori,
ricevevano comunque una paga in cambio della loro peculiare attività, gli
odierni ed entusiasti seguaci dei social, non solo dal loro titillare e
conservare ben turgido ed eretto l’Ego di questi personaggi tramite messaggi di
consenso, incitamento e approvazione, non ricavano alcun vantaggio concreto e
materiale ma, addirittura, si fanno tragicamente complici, in un capolavoro di
masochismo digitale, sindrome di Stoccolma e identificazione proiettiva, della
perpetuazione ad libitum proprio del medesimo sistema che mutila ogni giorno
sempre più le loro esistenze.
La redenzione di Abel Ferrara attraverso Harvey Keitel
Lo specchio dei social network
I social, come qualsiasi altro strumento, non
hanno caratteristiche intrinseche che prescindano dall'uso che qualcuno ne fa.
Essendo dei contenitori, dipendono da come e con cosa uno li riempie. Certo,
chi li ha progettati poteva avere ben precisi e non sempre espliciti scopi,
diversi dall'interesse del fruitore ultimo; eppure anche in questo caso
rientriamo nell'orizzonte della strumentalità, laddove la strumentalizzazione
ne è una possibilità. In ogni caso, chi utilizza i social dovrebbe essere
consapevole che nel medesimo momento in cui sono strumento di informazione e
condivisione in direzione del mondo esterno, l'utilizzatore diviene visibile a
quel mondo che, grazie proprio a tale esposizione, ottiene un potere su di lui.
Non è comunque questa l'obiezione che più frequentemente viene mossa al mondo
dei social. In genere ci si lamenta del fatto che esprimano conformismo,
mediocrità e le tendenze più meschine, basse o riprovevoli del genere umano. A
questo si associa la critica che siano inadatti a trasmettere contenuti di tipo
culturale o a favorire un dialogo fecondo e costruttivo, privilegiando
costitutivamente gli aspetti più frivoli e commerciali dell'industria
dell'intrattenimento o lo sfoggio del peggior narcisismo auto-idolatrante.
Vi sveliamo un segreto. Se il paesaggio che i
social descrivono è orrido e desolante, è perché ci siamo circondati delle
persone sbagliate. Oppure, in alternativa, perché guardandoci allo specchio non
ci piacciamo. Vi è inoltre la possibilità che non si abbia nulla da dire, noi e
il prossimo che ci siamo scelti, e i social ce lo ricordino amplificando il
nostro vuoto pneumatico, che fa da contrappunto all'insaziabile ansia di dire
qualcosa per essere ascoltati, anche se si è privi di un messaggio. In
alternativa, ci si può risparmiare molte frustrazioni se si è consapevoli dei
limiti e delle potenzialità dello strumento che si utilizza. Non si abbatte una
montagna con un martello, ma con esso si pianta un chiodo. Se ci si limita a
piantare chiodi, se ne possono piantare di ottimi, al netto delle
strumentalizzazioni e del costante e inevitabile rumore di fondo che sempre ci
accompagna nella nostra quotidianità mediatica.
Perché diciamo questo? Perché le critiche del tipo
"facebook è uno strumento funzionale al sistema e proporre in una tale
piattaforma contenuti antisistema è paradossale", oppure "parlare di
filosofia, religione, e spirito sui social è fuoriluogo", o anche
"l'anticonformismo su facebook fa ridere", sono sostanzialmente
baggianate. I social siamo noi. Ci rivelano per quello che siamo, anche se ci
nascondiamo. Se abbiamo un messaggio, e sappiamo portarlo a chi è capace di
ascoltarlo - nei modi in cui è possibile comunicarlo mediante lo strumento che
ce ne offre la possibilità - quello che abbiamo da dire arriva: ne abbiamo
evidenza tutti i giorni. Può darsi, invece, che si scopra di non aver nulla da
dire, o che non siamo in grado di dirlo, e su questo i social sono impietosi,
così come lo sono nell'immagine dell'umanità di cui abbiamo scelto di
circondarci. Ma questo, di certo, non è colpa di nessuna piattaforma.
Julius Evola, uno studioso strumentalizzato
Il mio punto di vista, oggi, è quello di cui il mio ultimo libro, Cavalcare la tigre"
L'ansia postmoderna
La natura della musica industrial ed il politicamente corretto
A cosa serve una cultura industriale che non sappia sopportare contraddizioni, esibire lo scandalo, mostrare ciò che nessuno mostra, suscitare quelle sensazioni ed evocare quei fantasmi che la cultura ufficiale rigetta?
Attenzione: non dico condividere, dico sopportare,
esibire, documentare, in senso extra-morale e fuori (per quanto umanamente
possibile) da qualsiasi forma di filtro, mediazione o opinione personale.
Spesso assistiamo a reazioni isteriche e scomposte
di molti "esponenti" di questo ambiente a qualsiasi discostamento da
una sensibilità media e condivisa. Più volte è capitato di vedere eventi
boicottati per la sola presenza di artisti "sgraditi". Ciò denota la
riduzione della musica industriale a puro fenomeno estetico a scapito della sua
portata culturale genuina, che è appunto essere strumento di rottura, e ripeto
contraddizione; in altre parole, soglia di rischio e criticità della
sensibilità canonica. È una deriva seria, perché quando le culture alternative
o antagoniste non sono più in grado di sopportare il pensiero "altro"
e la sua dimensione scandalosa, si risolvono in vuoto formalismo.
Nel secolo scorso, quando la musica industriale
era considerata cosa seria, forse perché ancora vicina alle origini e quindi
lungi dall'aver scaricato le pulsioni che avevano dato origine al movimento, certe
prese di posizione non si vedevano. Non perché ognuno aderisse
indiscriminatamente a qualsiasi idea, ma perché si riteneva che l'industrial
potesse recare al suo interno il seme della differenza, anche il più
fastidioso, senza doverne rendere conto a nessuno. Il suo ruolo era di essere
luogo di shock culturale, di provocazione, di decostruzione dei codici del
linguaggio, dell'informazione e del comportamento.
A che serve una cultura industriale educata, normalizzata, che richieda patentini ideologici per autorizzare l'agibilità artistica? Chi può arrogarsi, inoltre, il diritto di essere "padrone del discorso" laddove l'impegno è la messa in discussione dei pilastri del discorso stesso?