"Popolo" è la parola che per
Dostojevskij significa il compendio di ciò che nell'uomo è genuino, profondo,
sostanziale. Il popolo è sfera dell'umanità schietta e primitiva, profondamente
radicata nelle sue tradizioni, vigorosa ed augusta. Ma è popolo anche l'uomo
indifeso, perseguitato dal destino, sfruttato dagli abili e dai furbi, oppresso
dai prepotenti. Proprio per questa ragione esso è però, più di tutte le forme
dell'umano, vicino alle cose eterne, cinto dalla protezione dell'amore divino.
La parola "popolo" ha in Dostojevskij, come in tutti i grandi
romantici, un suono solenne e nostalgico che commuove e conforta.
Il popolo vive in intima unione con gli elementi
primordiali dell'esistenza. È cresciuto con la terra, sulla terra cammina,
lavora, da essa trae le sue possibilità di vita. Inserito nel grande ordine
della natura, nel ritmo alterno della luce e della vegetazione, sente, forse
senza saperlo esprimere, la vivente unità dell'universo.
Per quanto miserabile e peccatore, il popolo
rappresenta l'umanità autentica ed è sano e forte nonostante il suo avvilimento
perché è inserito nella stessa struttura fondamentale dell'esistenza, mentre
l'uomo colto, l' “occidentalista", che ha voluto emanciparsi, ha perso
ogni naturale appoggio, e vive in un clima artificioso e malato.
L'uomo del popolo vive invece nel gran circolo del
sangue, e come parte di una famiglia, di un gruppo, dell'umanità, è percorso
dalla corrente della vita collettiva. Egli è preso dal complesso degli
avvenimenti nei quali si compie il destino e non ha alcuna possibilità di
sottrarvisi, ma non sente, del resto, il bisogno di farlo. Così la sua vita è tutta
colmata dalle realtà fondamentali dell'esistenza, dalle cose di tutti i giorni,
da gioie e dolori semplici ma ricchi di ciò che è essenziale.
Il popolo è ancora l'uomo immediato, in cui
l'unità non si è spezzata. Non riflette; accetta l'esistenza come gli è data.
Non pensa e non sente in modo astratto, ma per immagini e avvenimenti. Non
segue una dottrina, parte dalla situazione concreta, lo hic et nunc. In lui
l'istinto è ancora infallibile, perciò sa orientarsi e distinguere. Le forze
dell'intuizione sono ancora intatte. Conosce il linguaggio simbolico delle cose
e in forma di visione può essergli ancora rivelato il senso dell'universo. È
saggio e veggente; gli sono maestre le tacite potenze creative.
Così il popolo, e l'uomo del popolo, vive l'integra
realtà dell'esistenza. Questo però fa sì ch'egli le sia completamente
abbandonato e ne debba sopportare tutto il peso.Tuttavia egli non si domanda se
questo peso sia giusto. La vita c'è, con tutta la sua gravezza, e l'uomo
semplice non conosce ancora i vari modi, le tecniche per sottrarvisi. La
sopporta semplicemente ed in questo è grande.
Il popolo è abbandonato, tribolato, oppresso. Sarà
anche astuto, ma non cesserà per questo di essere prigioniero della vita. C'è
anche molto male nel popolo:accanto ad un'allegria infantile e ad una bontà
delicatissima, ci sono passioni che si scatenano fulminee e possono crescere
sino ad un insensato furore. Cattiveria e violenza imprevedibile, furore
bestiale, crudeltà spietata, ubriachezza, insensibilità, corruzione, tutte le
potenze del male operano in lui e tuttavia, anzi persino in questo, il popolo è
"buono come un fanciullo".
In fondo Dostojevskij, come tutti i romantici, ne
fa un essere mitico. Il popolo di cui egli parla sono gli uomini che vediamo
tutti i giorni, ma dietro ad essi si entra, in un'altra sfera, in un ambito
originario ed essenziale e gli uomini reali sono "popolo" nella
misura in cui si rivelano la presenza di questa altra sfera.
(…)
Dostojevskij, infatti, fu senza dubbio uno dei più
grandi romantici. Ma il suo popolo non è una figurazione romantica in senso
superficiale. A parte il fatto che vi si manifestino alcuni aspetti essenziali
della concezione cristiana del mondo, questo popolo non è per nulla
idealizzato, ma visto in una luce molto realistica — ove non si intenda per
realismo una realtà nuda e spoglia, della quale Dostojevskij direbbe ch'essa è
povertà e aridità del poeta. Il popolo è visto da lui in tutta la sua sozzura,
nei suoi vizi, nella sua depravazione e ignoranza; torpido, avido, dedito
soprattutto in modo ripugnante al bere. Tuttavia è "popolo di Dio".
La sua esistenza non è giudicata santa per se
stessa — ove Dostojevskij sembra incline a crederlo, lì egli soggiace al suo
panslavismo metafisico — ma essa in ogni suo aspetto è aperta alla santità;
immediatamente di là dai suoi confini c'è Dio. Può accadere allora da un
momento all'altro che l'individuo più corrotto, standosene mezzo ubriaco in una
taverna, si metta a parlare di Dio e del senso dell'esistenza con tanta
profondità che non si può fare a meno di ascoltarlo.
Fonte: tratto da “Il mondo religioso di
Dostojevskij” di R.Guardini (ed.Morcelliana)