Il primo riflesso dell’egualitarismo è questo grido: “Perché
io no?”.
Da quale stato d’animo scaturisce? Prendiamo un uomo
qualsiasi che invidia la sorte di un grande personaggio e che dice fra sé:
“Vorrei proprio essere al suo posto!”. Che
cosa invidia costui in quel destino superiore? Forse gli oneri, i rischi ed
anche l’austera gioia di servire (il più delle volte non ci pensa neppure),
oppure il prestigio, la fortuna e tutte le possibilità di piacere e di riposo,
che nella sua mente sono indissolubilmente unite con la situazione del personaggio
invidiato? La risposta è fin troppo facile... L’istinto egualitario ha le
stesse fonti dell’istinto edonistico, è il marchio della medesima decadenza.
L’edonismo infatti nasce da un processo di disgregazione
affettiva per il quale la sete di felicità naturale in tutti gli uomini, si
separa dalla sete di agire, di donarsi, di lottare, dallo slancio verso la virtù nel senso etimologico e
larghissimo del termine. Nell' uomo sano questi due istinti sono strettamente
legati l’uno all'altro: la felicità è il coronamento dello sforzo e del dono e
accresce in funzione della perfezione raggiunta. Il decadente, al contrario,
non associa l’idea di felicità a quella di perfezione e di ascesa; non conosce
altra perfezione che il godimento e la sicurezza: Dio per lui non à purezza ma
felicità e riposo. Cosi, per poco che la sua situazione sociale sia inferiore,
egli è spontaneamente egualitarista:
nell’ordine della felicità materiale e del rifiuto di servire, il solo
esistente per lui, di fronte a privilegi senza missione, a privilegi che
permettono la dimissione, l’ultimo degli uomini può legittimamente rivolgere la
propria ambizione ai posti più alti. Soprattutto di fronte al denaro: ciascuno
si sente degno di essere l’eletto di questa divinità anonima, ciascuno si sente
capace, al limite, di godere e di non far nulla! Non è d’altronde effetto del
caso se le epoche in cui il primato sociale è devoluto al denaro, sono anche
quelle in cui infierisce la peggiore febbre egualitarista. Ma quegli operai che
invidiano la vita facile di uno squallido cliente di grande albergo, quel
vecchio contadino che la necessità costringe ancora, per sua fortuna, a
chinarsi sulla terra e che la vuota oziosità del piccolo pensionato suo vicino
riempie di cupidigia, tutti i cuori contratti da un corrosivo “perché io no?”,
che cosa in realtà invidiano ai loro fratelli “privilegiati”? Per strano che
ciò possa sembrare, invidiano il loro nulla! Appuntata verso il privilegio
senza doveri, verso il peccato (giacché il rifiuto di servire è la definizione
stessa di peccato), la volontà di eguaglianza diventa una volontà di nulla, una
vertigine di autodegradazione e di morte. E in questo risiedono il segreto e la
logica del “comunismo”. Ci sono soltanto due cose assolutamente comuni a tutti
gli uomini: il loro nulla originale e il Dio che li ha creati. Se sono troppo
deboli o troppo peccatori per unirsi nel culto di questo Dio, tendono
invincibilmente a comunicare in quel nulla.
Ma non è al nulla puro e semplice che l’egualitarismo mette
capo: l’uomo e la società hanno la vita dura! Peccato capitale contro l’armonia
- la quale non è altro che un gioco di ineguaglianze fondate sulle funzioni e
sui doveri - , l’egualitarismo partorisce il caos; in altri termini, sostituisce
al gioco delle ineguaglianze organiche un groviglio di ineguaglianze assurde e divoranti,
frutto dell’intrigo e del caso di tutto ciò che di meno umano esiste nell’uomo.
E chiaro per esempio, secondo quanto dicono i testimoni più autorizzati, che il
“comunismo” sovietico, fondato in diritto sull’egualitarismo più rigido, ha
dato origine di fatto alle ineguaglianze più rivoltanti che la storia abbia mai
conosciuto.
Fonte: tratto da “Ritorno al reale” di G.Thibon (Ed.Effedieffe)