La sapienza, dunque, che è la stessa uguaglianza dell’essere, è il verbo o la ragione delle cose. Essa è, per così dire, la forma intellettuale infinita; la forma dà alla cosa l’essere formato. Pertanto la forma infinita è l’attualità di tutte le forme formabili e l’uguaglianza precisissima di tutte. Come il cerchio infinito, se ci fosse, sarebbe l’esemplare vero di tutte le figure raffigurabili e l’uguaglianza d’essere di qualunque figura – sarebbe infatti triangolo, esagono, decagono e così via, e sarebbe di tutte misura adeguatissima, anche se è figura semplicissima – così la sapienza infinita è la semplicità che complica tutte le forme ed è la misura adeguatissima di tutte; ad esempio, nell’idea perfettissima dell’arte onnipotente ogni cosa formabile dall’arte, è l’arte stessa come forma semplicissima, così che se guardi la forma umana, trovi che la forma dell’arte divina [è] il suo esemplare precisissimo, come se essa non fosse nient’altro che l’esemplare della forma umana. Se guardi la forma del cielo e ti volgi alla forma dell’arte divina, non potrai affatto concepirla diversamente dall’esemplare di quella forma del cielo; e così [si dica] di tutte le forme formate o formabili, di modo che l’arte o la sapienza di Dio Padre è la forma semplicissima e, tuttavia, l’esemplare unico e assolutamente uguale delle infinite forme formabili per quanto varie esse siano.
Quanto ammirabile è quella forma, la cui infinità semplicissima non possono esplicare tutte le forme formabili! Solo chi s’eleva con sommo intelletto al di sopra d’ogni opposizione, riesce a intuire questa verità profondissima. E, se uno considerasse la forza naturale che è nell’unità, vedrebbe quella forza, se la concepisse in atto, come qualcosa di formale, visibile da lontano al solo intelletto. E poiché sarebbe la forza semplicissima dell’unità, sarebbe un’infinità semplicissima. Quindi, se questi considerasse la forma dei numeri, considerando la dualità o la decina, e tornasse, quindi, a considerare la forza attuale dell’unità, vedrebbe in questa forma, che si è ammesso essere la forza attuale dell’unità, l’esemplare precisissimo della dualità, della decina e d’ogni altro numero numerabile. Questo farebbe l’infinità della forma di ciò che abbiamo chiamato forza dell’unità: cioè che, mentre guardi la dualità, questa forma non può essere né maggiore né minore della forma della dualità di cui è l’esemplare precisissimo. Così vedi che la sapienza unica e semplicissima di Dio, in quanto infinita, è l’esemplare verissimo di tutte le forme formabili.
E questo è il suo modo di cogliere tutte le cose: per cui le attinge, le delimita e le ordina. È, infatti, in tutte le forme come la verità è nell’immagine, l’esemplare nell’esemplato, la forma nella figura e la precisione nell’assimilazione. E, sebbene [la sapienza] si comunichi a tutti con somma liberalità, essendo infinitamente buona, tuttavia, da nessuno può essere compresa come essa è. L’identità infinita non può essere ricevuta in altro, perché in altro sarebbe ricevuta secondo l’alterità. E benché non possa essere ricevuta in uno se non con alterità, essa è tuttavia ricevuta nel miglior modo possibile; ma l’infinità immoltiplicabile si esplica meglio nell’esser ricevuta in modo vario: la grande diversità, infatti, esprime meglio l’immoltiplicabilità. Ne consegue che la sapienza, ricevuta in modo diverso nelle diverse forme, fa sì che una forma qualunque chiamata all’identità nel modo che le è possibile, partecipi della sapienza, sicché alcune la partecipano in uno spirito molto distante dalla forma prima, il quale dà a esse a mala pena l’essere elementare; un’altra forma la partecipa in uno spirito più formato e le dà l’essere del minerale; un’altra in un grado ancor più nobile e le dà la vita vegetativa; un’altra in un grado ancor più alto e le dà la vita sensibile; e, quindi, vi sono le forme che [ricevono] la vita immaginativa; poi quelle che [ricevono] la vita razionale e, infine, quelle che hanno quella intellettuale.
Questo è il grado più alto: l’immagine più vicina della sapienza. Ed esso solo è il grado che ha l’attitudine a elevarsi al gusto della sapienza, perché nelle nature intellettuali l’immagine della sapienza è viva di vita intellettuale; la forza di questa vita sta nell’esprimere da sé il moto vitale che consiste nel tendere all’oggetto proprio che è la verità assoluta che è la sapienza eterna, grazie all’intendere. Questo tendere, essendo intendere, è anche gustare intellettualmente: apprendere con l’intelletto è cogliere la quiddità nel modo migliore con una degustazione graditissima. Come, infatti, con il gusto sensibile che non coglie la quiddità della cosa, si percepisce sensibilmente una gradevole soavità negli aspetti esterni della quiddità, così con l’intelletto si gusta nella quiddità una soavità intellettuale che è l’immagine della soavità della sapienza eterna che è la quiddità delle quiddità. E il paragone tra la soavità dell’una e dell’altra non è possibile.
Data la brevità di tempo, ti basti quanto abbiamo già detto, per sapere che la sapienza non sta nell’arte oratoria, né nei grandi volumi, bensì nel separarsi da queste cose sensibili, nel rivolgersi alla forma semplicissima e infinita, nel riceverla nel tempio puro da ogni vizio, nell’aderire a essa con amore ardente, al punto di poterla gustare e vedere quanto soave sia, essa che è ogni soavità. Quando l’avrai gustata, disprezzerai tutto quello che ora ti sembra grande e diventerai umile, in modo che nessuna traccia di superbia rimanga in te, né nessun altro vizio, perché con cuore castissimo e purissimo aderirai in modo indissolubile alla sapienza una volta che l’avrai gustata, preferendo abbandonare questo mondo e tutte le cose che non sono la sapienza, piuttosto che la sapienza stessa. Con indicibile letizia vivrai, morirai e riposerai in eterno, oltre alla morte, in essa, in un amorosissimo abbraccio; il che conceda a te e a me la sapienza sempre benedetta di Dio, Così sia.
Fonte: tratto da "La sapienza dell’idiota", Libro primo. Cfr. I dialoghi dell’idiota, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2003