Secondo Aristotele siccome in psicologia
metafisica l’anima e la ragione comandano sul corpo
e sui sensi, così in politica devono governare gli
uomini in cui predominano l’anima e l’intelletto, mentre
quelli che vivono soprattutto secondo il corpo e i sensi o le passioni debbono
essere governati.
Per essere cittadino in una polis non
basta abitare in un villaggio ma occorre partecipare
al suo governo mediante il diritto e le leggi è per
questo che la democrazia o governo di tutti gli
uomini in vista del benessere temporale della massa è una
degenerazione della politìa, che è il governo di
una moltitudine capace di poter servire lo Stato nell’esercito e
nella magistratura, ossia la maggior parte di coloro
che partecipano alla vita pubblica mediante le leggi e il diritto
(magistrati e guerrieri) per il bene comune della Società e non di una sola
classe (massa/popolo).
Perciò la politìa per Aristotele non è il governo di tutti o della massa informe, ma del popolo inteso come la maggior parte dei cittadini (“i più/la moltitudine”), ossia la sanior pars civitatis. La democrazia è per Aristotele una degenerazione della politìa poichè non mira all’interesse comune, ma della massa e quindi è vera e propria tirannide della massa o demagogia (dal greco demagogòs capo-popolo, agogòs-dèmos, che si accattiva il favore della massa con promesse di beni difficilmente realizzabili), che rende ingovernabile la polis.
“L’errore in cui cade la democrazia è quello di ritenere che poichè tutti sono uguali nella libertà, tutti possano e debbano essere uguali anche in tutto il resto”.
Quanto alle classi che compongono
la polis Aristotele le divide così:
1) i coltivatori della terra e
gli allevatori del bestiame, che forniscono il cibo alla città;
2) gli artigiani, che
forniscono strumenti e manufatti ai cittadini;
3) i commercianti, che producono
ricchezza importando ciò che manca alla città
4) la polizia che difende
l’ordine interno alla città dai delinquenti e i guerrieri, che difendono la
città dai nemici esterni;
5) i giuristi, che stabiliscono per legge ciò che è giusto e ciò che è ingiusto per i cittadini, ossia i diritti e i doveri;
6) i filosofi che contemplano la verità e i sacerdoti, che rendono il culto alla Divinità.
Le prime tre classi (contadini, operai,
commercianti) non hanno le capacità e il tempo
per dedicarsi alla vita virtuosa, quindi non sono
veri cittadini ma servi di essi. Solo le altre tre classi
(esercito/polizia; giuristi/magistrati; filosofi/sacerdoti) sono veri
cittadini atti a governare la polis e a partecipare alla vita
politica scegliendo i governanti. Come si vede la sua non è affatto una
concezione democratica della politica in senso moderno.
Pur non avendo la concezione di un ordine
soprannaturale e di una Chiesa divinamente fondata Aristotele
concepisce il benessere comune temporale dello Stato subordinatamente a quello
spirituale o intellettualmente e praticamente virtuoso.
Infatti nell’Etica a Nicomaco e a
Eudemo aveva insegnato che i beni sono di due tipi: esterni o materiali
(del corpo) e interni o razionali (dell’anima). I primi sono semplici mezzi
ordinati ai secondi come al loro fine e
“ciò vale sia per l’individuo che per lo Stato. Quindi anche lo Stato deve
ricercare il bene comune temporale in maniera limitata o ordinata, ciò in
funzione dei beni spirituali, nei quali soltanto consiste la felicità
individuale e sociale. Di modo che la polis virtuosa è felice e fiorente. Non
può essere felice chi non vive virtuosamente e secondo ragione, sia individuo o
Stato. Quindi come il senno e la virtù rendono giusto, saggio e assennato il
privato cittadino, così è per la città".
Fonte: tratto da "Sintesi di filosofia politica", C.Nitoglia