Movendo dalla premessa che un individuo
effettivamente colto può "anche" diventare letterato, Aristotele
poteva domandarsi se tra il saper leggere e scrivere e la cultura vi sia un
legame necessario oppure puramente accidentale. Il problema quasi non esiste
per noi che all'analfabetismo colleghiamo naturalmente l'ignoranza,
l'arretratezza, l'incapacità all'autogoverno: per noi, i popoli analfabeti sono
popoli incivili, e viceversa. Significativa in proposito è una recente fascetta
editoriale, dove si leggeva: "La maggior forza civilizzatrice è la
sapienza collettiva di un popolo alfabetizzato". Le ragioni che spiegano
questa mentalità hanno le loro radici nella distinzione tra popolo
("folk") e proletariato, cioè tra organismo sociale e formicaio
umano. Per il proletariato, l'alfabetismo è una necessità pratica e culturale.
Di passaggio possiamo notare che non sempre le cose che paiono necessarie sono
in se stesse un bene al di fuori di un dato contesto: come le stampelle, utili
sì ma soltanto a chi è zoppo. Comunque, l'alfabetismo è una necessità "per
noi", e ciò da un duplice punto di vista: in primo luogo, perché soltanto
coloro che posseggono una conoscenza almeno elementare delle "tre r" sono in grado di dirigere e gestire il nostro sistema industriale e di
trarne beneficio: in secondo luogo, perché quando non si sente più il bisogno
di congiungere la "saggezza" con le "capacità" (che oggi
una "economia dinamica" vuole rivolte a risparmiare tempo più che a
badare alla qualità del prodotto), la possibilità di acquisire una cultura dipende
quasi esclusivamente da un'accorta scelta dei libri più informativi. Ho detto "possibilità"
perché, mentre l'alfabetismo prodotto oggi dalla istruzione massificata e
obbligatoria spesso non produce altro, o poco più, che la capacità e la volontà
di leggere i giornali e la pubblicità stampata, in questa situazione sarà
realmente colto soltanto colui che avrà studiato molti libri in diverse lingue.
Ora, un tipo di istruzione come questo non può essere messo alla portata di
tutti con misure "coercitive" (anche supponendo che ogni nazione
abbia a disposizione un corpo di insegnanti adeguati in qualità e numero), né
può essere raggiunto da ognuno indistintamente, pur ambizioso. Ammettiamo pure
che l'alfabetismo sia necessario nelle società industriali, nelle quali si
presume che l'uomo è fatto per il commercio e dove tutti sono presuntivamente
istruiti non tanto per merito dell'ambiente ma nonostante l'ambiente. Ne segue
però immediatamente - anche tenendo presente che la miseria cerca sempre
compagnia - che se ci prefiggiamo di industrializzare il resto del mondo, noi
siamo tenuti a fornirgli almeno il primo bagaglio di vocaboli inglesi necessari
a tale scopo. (L'inglese-americano è ormai ridotto a lingua delle relazioni
esclusivamente esteriori, al inguaggio commerciale.) Altrimenti, come potranno
gli altri popoli essere effettivamente concorrenziali nei nostri confronti? La
concorrenza è la vita del commercio, e ogni gangster ha bisogno di un rivale.
Ma qui ci interessa un altro problema, cioè la presunzione che l'alfabetismo
sia "un bene assoluto e un presupposto inderogabile per la cultura", anche per le società non ancora industrializzate. La maggior parte della
popolazione del globo è ancora estranea all'industrializzazione e analfabeta,
così come esistono popoli non ancora "saccheggiati" (all'interno del
Borneo): ma non conoscendo altra forma di vita all'infuori della sua,
l'americano medio pensa che "analfabeta" significhi
"incolto", così che "per lui" - che giudica sul metro
esclusivo del suo ambiente - la maggioranza analfabeta della popolazione del
globo non è altro che una classe sottosviluppata. E' questa la ragione (assieme
ad altre di minore importanza, non estraneea "interessi
imperialistici") per cui, proponendoci non soltanto di sfruttare ma anche
di educare le "razze inferiori senza [la nostra] legge", noi
infliggiamo loro ferite profonde e spesso addirittura letali. E dico
"letali" invece di "fatali" perché si tratta proprio della
distruzione delle loro "memorie". Noi trascuriamo il fatto che l'
"educazione" non è mai un processo creativo ma piuttosto un'arma a
due tagli, comunque sempre distruttiva: ignoranza o conoscenza dipendono dalla
saggezza o dall'insipienza dell'educatore. Troppo spesso succede che i pazzi si
mettano a correre su terreni sui quali gli angeli hanno paura a muovere un solo
passo. Per combattere questo compiaciuto pregiudizio cercheremo di dimostrare
che:
1) non esiste alcun rapporto necessario tra alfabetismo e cultura;
2)
imporre la nostra istruzione (e la nostra "letteratura" contemporanea)
a popoli che pur avendo una loro cultura sono analfabeti, equivale a
distruggere, in nome della nostra, la loro cultura.
Per non dilungarci troppo
diamo per scontato che il termine "cultura" implica una qualità
ideale e una perfezione di forme che possono essere realizzate da tutti gli
uomini indipendentemente dalle loro condizioni; e siccome intendiamo
specialmente la cultura quale si esprime nelle parole, identificheremo
"cultura" con "poesia"; dicendo "poesia" non
intendiamo quella specie di poesia che oggi sfringuella di prati verdi o che
semplicemente riflette il comportamento sociale o le nostre reazioni personali
di fronte agli eventi quotidiani; intendiamo invece tutto il complesso di
quella letteratura profetica in cui rientrano la Bibbia, i "Veda", la
"Edda", le grandi opere epiche e, in genere, i "migliori
libri" del mondo e i più filosofici, se vogliamo dar ragione a Platone quando dice
che "lo stupore è l'inizio della filosofia". Molti di questi
"libri" già esistevano prima ancora che venissero scritti, molti non
sono mai stati scritti, altri sono andati o andranno perduti. Qui sarà bene
citare alcune affermazioni di uomini la cui "cultura "non può essere
messa in discussione; mentre infatti coloro che sono semplicemente
"alfabetizzati" menano gran vanto della loro istruzione, quale che
sia, soltanto uomini che siano "non soltanto alfabetizzati ma anche
colti" ammettono ampiamente che le "lettere" sono al massimo un
mezzo in vista di un fine, mai un fine in se stesse; in altre parole, che
"la lettera uccide". Un autentico "letterato" - se mai vene
fu uno -, il professor G. L. Kittredge, scriveva : "Occorre uno sforzo
congiunto della ragione e dell'immaginazione per concepire un poeta come un
individuo che non sa scrivere, che canta o recita i suoi versi a un pubblico
che non sa leggere... La capacità della tradizione orale di trasmettere grandi
quantità di versi per centinaia di anni è dimostrata e ammessa... Questa che i
francesi chiamano letteratura orale non è amica dell' 'istruzione'. L'alfabetizzazione
la distrugge, talvolta con una rapidità che lascia sgomenti. "Quando una
nazione comincia a leggere, ciò che prima era possesso del popolo nel suo
insieme si riduce a eredità di coloro che sono analfabeti, e molto presto
scompare nel nulla, se non viene raccolto come oggetto di
antiquariato"". Si noti inoltre che questa letteratura orale una
volta "apparteneva a tutto il popolo..., alla comunità nella quale gli
interessi intellettuali sono identici, al vertice come alla base della
struttura sociale", mentre nella società alfabetizzata questa letteratura
orale è accessibile soltanto agli antiquari e non ha più alcun legame con la
vita di ogni giorno. Un altro punto importante è questo: alle letterature orali
tradizionali erano interessate non solo tutte le "classi" ma altresì
tutte le "età" della popolazione; oggi invece si scrivono libri
appositamente "per bambini", che nessuno spirito maturo riesce a
tollerare; oggi solo più i fumetti interessano nella stessa misura i ragazzi
(per i quali non si è trovato niente di meglio) e quegli "adulti" che
adulti non sono mai diventati. Con gli stessi criteri oggi viene raccolta la
musica; i canti popolari sono persi per il popolo dal momento stesso in cui
vengono raccolti e "archiviati"; quando si cerca di "preservare"
l'arte popolare chiudendola nei musei, si celebra il suo funerale:
l'imbalsamazione, infatti, si rende necessaria soltanto dopo che il paziente è
giàspirato. E non ci si illuda che il "canto della comunità" possa
sostituire i canti popolari: il suo livello non può essere più alto
dell'inglese elementare, necessario ai nostri studenti universitari per poter
capire il linguaggio dei loro manuali. In altre parole, "l'istruzione
universale obbligatoria, quale è stata introdotta alla fine del secolo scorso,
non ha formato cittadini più felici e più efficienti, come si sperava; al
contrario, ha fornito soltanto lettori per romanzi gialli e spettatori al
cinema" (Karl Otten). Un professore che era in grado non solo di leggere
il greco e il latino classico ma anche di "scriverlo" egregiamente,
osservava: "Non v'è dubbio che si è avuto un incremento quantitativo
dell'istruzione in genere, ma mentre tutti si compiacciono che qualcosa segni
una crescita, si evita di domandarsi se questo qualcosa è un profitto o una
perdita". Questo lo diceva nel corso di una discussione sui pessimi
effetti dell'istruzione forzata, e concludeva: "L'apprendimento e la
sapienza sono stati spesso divisi; forse il risultato più evidente della
moderna diffusione dell'istruzione è stato quello di mantenere e anzi
approfondire questa divisione" . Douglas Hyde fa notare che
"inutilmente visitatori disinteressati si sono meravigliati nel vedere
maestri di scuola che non conoscevano una parola di irlandese alle prese con scolari
che non conoscevano una parola di inglese... Ragazzi intelligenti,
dotati di un frasario corrente di circa tremila parole, entrano nelle scuole
statali e alla fine ne escono con questo risultato: la loro vivacità naturale è
scomparsa, la loro intelligenza è quasi del tutto distrutta dalle basi, la loro
meravigliosa padronanza della madrelingua è persa per sempre, sostituita con
cinque-seicento parole di inglese malamente pronunciate e barbaramente usate...
La storia, la poesia lirica, le canzoni, gli aforismi e i proverbi, in pratica
l'unica base dello spirito di chi parla irlandese è persa per sempre, "e
nulla la può sostituire"... Ai ragazzi si insegna, come minimo, a
vergognarsi dei genitori, della propria nazionalità, del proprio nome... E' un sistema
di 'educazione' veramente straordinario" . E' il sistema che gli americani civili e istruiti hanno inflitto ai loro amerindi e che tutte le razze
imperialistiche continuano a infliggere ai popoli che hanno assoggettato, e che
vorrebbero infliggere a quelli che sono loro alleati. Il problema investe sia
il linguaggio sia il suo contenuto. Per quanto riguarda il linguaggio, bisogna
anzitutto tener presente che non esiste un linguaggio "primitivo" nel
senso di una terminologia limitata, sufficiente soltanto a esprimere le
relazioni esteriori più semplici. Questa semmai è una degradazione cui tende
una lingua condizionata dalle filosofie della pura empiricità in determinate
circostanze; non è certo la sua condizione originaria; il novanta percento
dell'"istruzione" americana, per esempio, è compresa in due sillabe . Nel secolo diciassettesimo Robert Knox scriveva dei singalesi di Ceylon
che "i contadini e i braccianti parlano con eleganza e sono pieni di belle
maniere; non esiste differenza di talento e di linguaggio tra chi abita in
campagna e chi frequenta la corte". Testimonianze analoghe e di
analogo significato sono rintracciabili in ogni parte del mondo. Così, riguardo
al dialetto gaelico, J. F.Campbell scriveva: "Io sono incline a pensare che
il dialetto sia parlato nella sua forma migliore dalle popolazioni più
analfabete delle isole..., uomini con idee chiare e memoria meravigliosa,
generalmente molto poveri e anziani, che vivono in angoli nascosti diisole
remote, che parlano soltanto il gaelico" ; e cita Hector Maclean,
secondo il quale la perdita della loro letteratura orale è dovuta "in
parte alla lettura..., in parte al fanatismo religioso e in parte a grette
considerazioni utilitaristiche", che sono precisamente le tre forme nelle quali
la civiltà moderna si impone alle culture più antiche. Alexander Carmichael
diceva che "gli abitanti del l'isola di Lewis, come in genere tutti i
montanari del nord della Scozia e delle isole, hanno le Scritture nel loro
animo e le inseriscono nei loro discorsi... Forse nessun popolo aveva una
tradizione di canti e di racconti, di cerimonie civili e di riti religiosi...
più ricca di quella degli incompresi e cosiddetti analfabeti montanari della
Scozia". Saint Barbe Baker scrive che nell'Africa Centrale aveva come
"amico e compagno fidato un vecchio che non sapeva né leggere né scrivere,
benché fosse un esperto conoscitore di storie del passato... I vecchi capitribù
lo ascoltavano incantati... L'attuale sistema di educazione rischia seriamente
di disperdere molto di tutto questo" . W. G.Archer fa notare che
"diversamente dal sistema inglese, nel quale uno potrebbe addirittura
trascorrere tutta la vita senza venire mai a contatto con la poesia, il sistema
tribale degli Uraon utilizza la poesia come una appendice viva della danza,
degli sposalizi e della coltivazione della terra, funzioni cui partecipano
tutti, perché elementi costitutivi della loro vita in tribù"; e aggiunge:
"Chi volesse scoprire la causa del declino della cultura contadina in Inghilterra,
la rintraccerebbe nell'alfabetizzazione" .
Nell'Inghilterra dei tempi andati - ci
ricordano i due autori Prior e Gardner - "anche gli analfabeti sapevano
decifrare il significato di sculture che oggi solo archeologi esperti riescono
a interpretare". L'antropologo Paul Radin fa notare: "La distorsione
di tutta la nostra vita psichica e di tutta la nostra appercezione della realtà
esteriore prodotta in noi dalla invenzione dell'alfabeto, la cui unica tendenza
è stata di elevare il pensiero e il pensare al rango di prova esclusiva di ogni
verità, non si è mai verificata fra i popoli primitivi"; e aggiunge:
"Bisogna ammettere esplicitamente che per temperamento e per capacità di
pensiero logico e simbolico l'uomo primitivo non è inferiore all'uomo civilizzato".
Quanto poi al "progresso", l'autore afferma che in etnologia non se
ne verificherà "finché gli studiosi non si libereranno una volta per tutte
della curiosa idea che ogni cosa abbia una storia evoluzionistica; finché non
si renderanno conto che alcune idee e alcuni concetti sono definitivi e
fondamentali per l'uomo" quanto la sua costituzione fisica: "Non
si può continuare a distinguere tra popoli allo stato di natura e popoli
civili". Fin qui abbiamo preso in considerazione esclusivamente le
affermazioni di alfabetizzati. La situazione e il punto di vista dell'autentico
"selvaggio" ci sono descritti da Tom Harrison, quando parla delle
Nuove Ebridi: "Il bambino si educa ascoltando e guardando... Senza la
scrittura, la memoria è perfetta, la tradizione è precisa. Man mano che il
ragazzo cresce gli si insegna tutto quanto si conosce... Le realtà intangibili
cooperano a ogni impresa, dal concepimento alla costruzione della canoa..., i
canti sono una forma del raccontare... L'estensione e il contenuto delle
migliaia di miti che ogni bambino impara (spesso a memoria, nonostante che
certe narrazioni durino parecchie ore) potrebbero formare un'intera
biblioteca... Gli uditori vengono come avviluppati da una fitta trama di
parole"; essi parlano tra loro "con una precisione e una bellezza
formale che noi non conosciamo più". E che cosa pensano di noi? "Dopo
l'incontro con il bianco, gli indigeni imparano facilmente a scrivere, ma ciò
rappresenta per essi soltanto una curiosità inutile. Essi dicono: 'L'uomo non
può ricordare e parlare?'" . Essi ci considerano "matti", e
forse non a torto. Quando noi ci prefiggiamo di "educare" gli
abitanti delle isole dei Mari del Sud, lo facciamo generalmente perché
diventino più utili a noi (ormai è ammesso da tutti che in India l'
"educazione inglese" iniziò sotto questa prospettiva), o per
"convertirli" al nostro modo di pensare; giacché nessuno ha mai avuto
in mente di introdurli a Platone. Ma se mai succedesse a noi o a loro di
incontrare Platone, resteremmo probabilmente meravigliati scoprendo che la loro
protesta ("L'uomo non può ricordare?") l'aveva già espressa lui:
"L'alfabeto ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi
cesseranno di esercitare la memoria perché fidandosi dello scritto
richiameranno le cose alla mente non più dall'interno di se stessi ma dal di
fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta
"per la memoria ma per richiamare alla mente". Né tu offri vera
sapienza ai tuoi scolari ma ne dai solo l'apparenza perché essi, potendo
leggere molte cose senza insegnamento, si crederanno dottissimi [in quello che
il professor E. K. Rand definiva il "sempre più del sempre meno"],
mentre saranno pressoché ignoranti e inguaribili dalla loro ignoranza, non
saggi ma saccenti". Platone continua affermando che esiste un altro
genere di "parole", che hanno un'origine più alta e sono più efficaci
delle parole scritte (noi diremmo stampate), e afferma che l'uomo sapiente
""che ha intenzioni serie" non scriverà mai con inchiostro"
parole morte che non sono ingrado di insegnare effettivamente il vero, ma
seminerà i semi della sapienza nelle anime che sono in grado di riceverli e di
"renderli in tal modo immortali". Questi pensieri di
Platone non hanno in sé nulla di strano o di insolito: con essi si troverebbe
in perfetto accordo, per esempio, ogni indiano colto non ancora intaccato da
influssi europei. Sarà sufficiente citare quanto afferma il grande studioso di
lingue indiane George A. Grierson: "L'antico sistema indiano, nel quale la
letteratura viene registrata non sulla carta ma nella memoria e trasmessa di
generazione in generazione da maestri a scolari, è tuttora [1920] in uso nel
Kashmir. Le 'pagine di carne del cuore' sono spesso più degne di fiducia che
quelle di corteccia di betulla o dei manoscritti su carta. Nel trasmettere i
messaggi viene posta ogni possibile cura perché ogni singola parola sia esatta,
anche quando chi parla è un "pandit dotto", per cui il materiale
raccolto dalla viva voce dei cantastorie di professione è "sotto certi
aspetti più prezioso di qualsiasi manoscritto autografo" . Secondo la
mentalità indiana, un uomo "conosce" soltanto quanto conosce "a
memoria"; se per ricordare è costretto a ricorrere a un libro, le sue sono
nozioni di cui "ha sentito parlare". Si possono trovare a tutt'oggi
centinaia di migliaia di indiani che quotidianamente ripetono a memoria tutto o
gran parte della "Bhagavad Gita"; altri, più dotti, sono in grado di
recitare centinaia di migliaia di versi di altri testi più lunghi. Io stesso ho
sentito per la prima volta le odi del poeta persiano classico Jalalu'd-Din Rumi
da un cantastorie che andava di villaggio in villaggio. Fin dalle epoche più
remote, per gli indiani è dotto non chi ha letto molto ma colui al quale sono state
insegnate cose profonde. La sapienza si impara molto più da un maestro che da
un libro. Veniamo ora all'ultima parte del nostro problema, cioè alle diverse
caratteristiche della letteratura orale e scritta. Benché tra le due forme non
sia possibile tracciare una linea di demarcazione netta e definitiva, vi è
tuttavia una differenza di qualità e di tematiche tra letterature
originariamente orali e letterature create, per così dire, sulla carta.
"All'inizio era la PAROLA". La distinzione vale specialmente tra la
poesia e la prosa e tra il mito e l'evento. La letteratura orale è per sua
natura essenzialmente poetica, in quanto I suoi contenuti sono essenzialmente
mitici e i suoi interessi vertono specialmente sulle imprese spirituali degli
eroi; la letteratura nata scritta è invece per sua natura essenzialmente
prosaica, in quanto i suoi contenuti sono concreti e i suoi interessi si
rivolgono ad avvenimenti profani e ai particolari. Dicendo "poetico"
intendiamo includere il significato di "mantico", sottintendendo che
la "poeticità" è una "qualità" letteraria e non soltanto
uno scrivere in versi. La poesia contemporanea è essenzialmente e
inevitabilmente dello stesso livello della prosa moderna; entrambe sono
egualmente dogmatiche, ma il meglio che ognuna di esse ci può dare sono pochi
"pensieri felici", più che certezze. Una celebre glossa dice:
"L'incredulità è per la massa". Noi che sappiamo dire quando un'arte
è "significativa" senza sapere di che cosa, siamo anche orgogliosi di
"progredire", senza sapere in quale direzione. Platone dice che chi
ha intenzioni "serie" non scrive ma insegna, e che se un sapiente
scriverà mai qualcosa, lo farà esclusivamente per proprio piacere - le
cosiddette "belle lettere" - o per predisporre dei promemoria per sé,
per il tempo nel quale la vecchiaia gli indebolirà la memoria. Noi sappiamo
esattamente che cosa intende Platone per persona "seria": è la
persona sapiente che dimostra un reale interesse non per gli affari umani o per
le meschinità ma per le verità eterne, per la natura dell'essere reale e per
l'immortale che è in noi. La parte mortale di noi può sopravvivere "con il
solo pane", ma il nostro uomo interiore si nutre di mito; se ai miti
veritieri noi sostituiamo i miti propagandistici della "razza", dello
"sviluppo", del "progresso" e della
"missione civilizzatrice", l'uomo interiore muore di fame. Il testo
scritto, come dice Platone, può essere utile a coloro cui la tarda età ha
indebolito la memoria. Questo spiega come la senilità della nostra cultura ci
abbia fatto sentire la necessità di "conservare" in musei i
capolavori dell'arte, di registrare in pagine scritte e quindi
"salvare" (anche solo per gli studiosi) tutto quanto può essere
"collezionato" delle letterature orali, che altrimenti andrebbe
irrimediabilmente perduto. Tutto questo, prima che sia "troppo
tardi". Non v'è studioso serio delle società umane che non concordi
nell'affermare che l'agricoltura e l'artigianato sono le basi essenziali di
ogni civiltà, intendendo per civiltà essenzialmente lo sforzo di costruirsi un
"luogo in cui abitare". Però, come ha fatto osservare Albert
Schweitzer, "noi ci siamo comportati come se agli inizi della civiltà ci
fossero non l'agricoltura e l'artigianato ma il leggere e lo scrivere"; e
"dalle scuole, che sono copie perfette delle scuole europee, essi [i
"nativi"] escono con la qualifica di 'istruiti', gente cioè che si
crede al di sopra del lavoro manuale, sensibili solo più ai richiami
commerciali e intellettuali... Coloro che concludono il loro ciclo scolastico sono
in gran parte persi per l'agricoltura e per l'artigianato" . La stessa
cosa era già stata rilevata da un grande missionario degli Zulù, Charles
Johnson: "L'idea centrale [delle scuole missionarie] era quella di
selezionare gli individui allontanandoli dalla massa della vita
nazionale". I nostri concetti letterari sono derivati dalle arti della
produzionee della costruzione: tali, per esempio, le nozioni di
"cultura" (che richiama l'agricoltura), "sapienza"
(originariamente "perizia") e "ascetismo" (originariamente
"lavoro faticoso"). San Bonaventura affermava: "Non v'è cosa
nella quale non si esprima una vera sapienza; per questo motivo la Sacra
Scrittura molto opportunamente fa uso di tali similitudini" . Nelle
società normali le necessarie attività della produzione e della costruzione non
sono semplici "lavori" ma anche riti, e la poesia e la musica che a
questi "lavori" sono associate diventano elementi di una liturgia. I
"piccoli misteri" delle arti e dei mestieri sono preparazione
naturale ai più grandi "misteri del regno dei cieli". Ma per noi -
che non possiamo più parlare di "giustizia" divina nello stesso senso
in cui ne parlava Platone, perché il suo aspetto sociale è diventato qualcosa
di professionale - che Cristo fosse falegname e figlio di falegname è un puro
caso storico; e quando leggiamo "legno" noi non comprendiamo più che
dietro questa materia primaria dobbiamo anche vedere Colui "dal quale
tutte le cose sono state fatte", come da un falegname. Al massimo, noi
interpretiamo certe forme classiche di pensiero non nella loro universalità ma
come metafore o figure retoriche create da singoli autori. Quando l'alfabetismo
si riduce a un semplice saper fare, "la sapienza collettiva di un popolo
alfabetizzato" rischia di essere soltanto ignoranza collettiva, mentre
"le comunità arretrate sono le biblioteche orali delle antiche culture
universali" . Le nostre attività educative all'estero indirizzano i
nostri allievi verso il nostro modo di pensare e di vivere. Non è facile per un
educatore all'estero dare ragione a Ruskin quando afferma che esiste una sola
maniera di aiutare gli altri: non educarli alla nostra maniera di vivere (per
quanto noi possiamo esserne fanatici), ma piuttosto cercare di scoprire che
cosa essi hanno tentato di realizzare e che cosa stessero realizzando prima del
nostro arrivo, e, se possibile, aiutarli a realizzarlo meglio. Mi consta che i
gesuiti mandano anche oggi alcuni missionari in sperduti villaggi della Cina
perché ne apprendano il sistema di vita, con l'obbligo di procurarsi da vivere
esercitando un mestiere fra quelli praticati dalla gente del luogo: dopo almeno
due anni di questo tirocinio si permette loro di insegnare. Alcune di queste condizioni
dovrebbero essere imposte a tutti gli educatori stranieri, sia nelle scuole
statali che in quelle missionarie. Non si può assolutamente dimenticare che noi
ci troviamo di fronte a popoli "i cui interessi intellettuali sono
identici dal vertice della struttura sociale alla base" e presso i quali
ancora non è nata la distinzione tra scuola religiosa e scuola laica, tra belle
arti e arti applicate, tra significato e uso. Dopo aver introdotto queste
distinzioni e dopo aver distinto tra classi "istruite" e classi
"analfabete", noi dovremo comunque rivolgerci a queste ultime quando
vorremo studiare il linguaggio, la poesia e la cultura di quelle popolazioni,
"prima che sia troppo tardi". Quando nel capitolo precedente ho
accennato alla "furia di proselitismo", intendevo riferirmi non solo
alle attività svolte daimissionari di professione ma anche, in generale,
all'attività di quelle persone che sono angosciate dall'assillo tipico
dell'uomo bianco, persone ansiose di elargire anche agli altri le
"benedizioni" della nostra civiltà. Che cosa si nasconde sotto questa
furia, della quale le nostre spedizioni punitive e le nostre "guerre di
pacificazione" non sono che le manifestazioni più appariscenti? Non credo
esagerato affermare che le nostre attività educative all'estero (e in queste
bisogna includere anche le riserve degli indiani d'America) sono tutte motivate
dall' "intenzione" di distruggere le culture preesistenti. E ciò,
secondo me, deriva non soltanto dalla convinzione della assoluta superiorità
della nostra "Kultur" e dal conseguente disprezzo e rifiuto di tutto
quello che noi non abbiamo capito (non riusciamo, per esempio, a capire che
qualcuno possa agire senza un movente economico), ma deriva da una inconscia e
profondamente radicata invidia di una serenità di vita che noi dobbiamo
limitarci a riconoscere nei popoli che abbiamo definiti "non ancora
saccheggiati". Noi ci sentiamo urtati nel constatare che questi altri, non
industrializzati come noi, non "democratici" come noi, sono tuttavia
"soddisfatti" del loro stato; noi perciò ci sentiamo in dovere di
renderli insoddisfatti, di rendere insoddisfatte specialmente le loro donne,
che da noi potrebbero imparare a lavorare nelle fabbriche e a far carriera. Ho
usato deliberatamente il termine "Kultur" perché in realtà vi è
pochissima differenza tra la volontà dei tedeschi di imporre la loro cultura
alle razze "arretrate" del resto dell'Europa e la nostra
determinazione di imporre la nostra al resto del mondo. Ovviamente, i metodi
possono anche non essere egualmente brutali, ma identica è la volontà che sta alla
base. Come ho già detto, "la miseria cerca compagnia", e qui sta
la vera e inconfessata spiegazione della nostra volontà di creare un
meraviglioso nuovo mondo fatto di meccanici tutti provvisti di una identica
patente di istruzione. Queste cose sono state di recente ripetute a un gruppo
di giovani lavoratori americani, uno dei quali concluse: "... E dire che
siamo dei poveri diavoli!". Il nostro orgoglio per "la sapienza
collettiva di un popolo alfabetizzato" ha tutta l'apparenza di un fischio
nel buio della notte, perché nessuno si prende la briga di controllare nella
realtà che cosa legge questo popolo "alfabetizzato". Tuttavia, qui
non intendo tanto sottolineare le deficienze e gli errori della moderna
educazione praticata in Occidente, quanto piuttosto attirare l'attenzione sullo
sbaglio di estendere ad altri popoli un'istruzione di questo genere. Quello che
mi preme mettere in risalto è l'errore insito nel fatto di attribuire un valore
assoluto all'alfabetismo, nonché le conseguenze veramente pericolose che
possono derivare dall'assumere l' "alfabetismo" come norma in base
alla quale misurare la cultura dei popoli analfabeti. La nostra cieca fede
nell'alfabetismo ci nasconde l'importanza di altre capacità, a tal punto da
renderci insensibili alle condizioni subumane nelle quali un individuo è talvolta costretto a vivere,
perché per noi ciò che conta è che egli sappia leggere, non importa cosa, nel
suo tempo libero; in più, tale fede diventa uno dei terreni più fertili su cui
germoglia il pregiudizio razziale, nonché una causa primaria dell'impoverimento
spirituale di tutti quei popoli "arretrati" che noi ci prefiggiamo di
"civilizzare".
Fonte: tratto da "Sapienza orientale e cultura occidentale", A.Coomaraswamy (Ed. Rusconi)