The Grandmother: l'incomunicabilità domestica

Prima dell’indimenticabile capolavoro Eraserhead, David Lynch girò parecchi corto/mediometraggi di avanguardia, The Grandmother del 1968 ne rappresenta l’espressione più nitida.

I suoi primi passi nel cinema sono strettamente legati alla semantica della sua arte figurativa, ma a differenza dei primissimi lavori, che erano veri e propri quadri in movimento, con The Grandmother il cinema del regista americano comincia a “materializzarsi”, il film difatti si trova a metà strada tra l’ animazione in stop-motion in stile “The Alphabet” e riprese dal vero con attori in carne ed ossa.

Il mediometraggio (0.34min), girato proprio a casa di Lynch con la partecipazione di attori non professionisti, è uno dei più grandi esperimenti cinematografici mai fatti.

La (non)trama vede un uomo e una donna che camminano a quattro zampe, il loro figlio è invece in smoking. Surreale.

Una mattina Mike alzandosi dal suo letto trova le lenzuola macchiate, il padre appena se ne accorge comincia ad abbaiare ed emettere suoni gutturali scagliandosi con violenza verso il figlio, che dopo aver subito un’aggressione, decide di rifugiarsi in solaio, dove “crea” sua nonna.

Inutile soffermarsi ad interpretare razionalmente un film di David Lynch, anche perché se ci si sforza di decodificare, di cogliere simbologie o significati, si fa violenza alla natura stessa dell’opera, basata sulla percezione e sul depensamento.
Tuttavia ci si può soffermare su una “tematica” cara a David Lynch, ovvero la paura e l’ossessione per la normalità familiare (ripresa poi in Eraserhead).

Il nucleo famiglia viene distrutto irrazionalmente dipingendo genitori oppressivi, raffigurati come degli animali.

Tra toni cupi, atmosfere torbide, stanze nere e una rappresentazione macabra del quotidiano, emerge imponente dall’inconscio la percezione dell’incomunicabilità nelle famiglie moderne. Il padre di Mike è dispotico e bestiale, sua moglie invece ogni tanto mostra stralci di affetto materno finendo però sempre per schiantarsi contro il muro dell’incomprensione.

Non esiste una lingua tra Mike e i genitori, solamente versi e grida isteriche, il bambino riceve solo botte e per sfuggire dalla sua situazione si rifugia nella fantasia mescolando sogno e realtà, tra individui che escono dalla terra, nonne che nascono dal terriccio e umani che si trasformano in alberi.

The Grandmother è la messa in scena di pulsioni e turbamenti familiari, attraverso il delirio di forme e tramite la rappresentazione di squallide esistenze che fanno da soggetto all’orrore Lynchiano per il loculo domestico.

La macchina da presa varia spesso angolazione, il montaggio è rapidissimo, le musiche non sono allineate alla narrazione (cominciano e terminano fuori tempo rispetto alle scene), le ambientazioni sono composte da poche luci e tante ombre, gli sfondi si percepiscono ma sono informi e gli attori sono truccati di bianco assumendo un aspetto cadaverico.

In definitiva ci troviamo di fronte ad un mediometraggio ermetico che attraverso atmosfere caotiche e spettrali, dipinge ma non racconta, comunica ma non dice, avvolge ma non spiega.

Lo sguardo di Lynch è già quello maturo dei capolavori futuri, qui dentro c’è già tutto il suo cinema onirico, misterioso e ambivalente.  

Straordinaria poesia visiva.



Fumo, alcool e droghe nell’uomo moderno – L.Tolstoj

La gente beve e fuma non «così», non «per noia», non «per stare allegri», non perché a loro «piace», bensì per soffocare la propria coscienza. Ma se è così, quanto spaventose debbono essere le conseguenze di ciò. E infatti basta pensare a come sarebbe un edificio che sia stato costruito non con una buona livella, per controllar che i muri venissero su diritti, e non con una squadra precisa, per controllare che gli angoli fossero retti, bensì con una livella molle, che si piegava tutta ad ogni irregolarità dei muri, e con una squadra che si adattava egualmente bene a tutti gli angoli, sia a quelli ottusi a che quelli acuti.
Ed è appunto questo che avviene nella vita di tutti i giorni, grazie al fatto che gli uomini si drogano. Non è la vita che si adegua alla coscienza; è la coscienza che si piega e si adatta alla vita. Ciò avviene nella vita di singoli individui, e avviene del pari nella vita di tutta quanta l’umanità, la quale si compone appunto della vita dei singoli individui.
Chi vuol comprendere tutto il significato di un simile offuscamento della consapevolezza, provi a rammentarsi bene qual era la sua condizione interiore in ciascun periodo della sua vita. E si accorgerà che in ogni periodo della sua vita egli ha avuto dinanzi a sé determinati problemi morali, che egli doveva risolvere e dalla soluzione dei quali dipendeva tutto il bene della sua vita. Per la soluzione di questi problemi occorre una gran tensione dell’attenzione. Questa tensione è un lavoro. E in ogni lavoro, e specialmente all’inizio, vi è un momento in cui il lavoro sembra faticoso, tormentoso, e la debolezza umana suggerisce il desiderio di abbandonarlo. Un lavoro fisico sembra tormentoso, quando si incomincia a farlo; e ancor più tormentoso sembra il lavoro intellettuale. Come dice Lessing, gli uomini hanno la caratteristica di smettere di pensare quando il pensare comincia a presentare delle difficoltà, e precisamente quando, aggiungerò io, il pensare comincia a produrre frutti. L’uomo si accorge che la soluzione dei problemi che ha dinanzi richiede una tensione, spesso tormentosa, e avrebbe voglia di sottrarsi a questa tensione. Se egli non disponesse di modi interiori di drogarsi, egli non potrebbe distogliere la propria attenzione dai problemi che ha dinanzi, e, che lo voglia o no, si vedrebbe costretto a risolverli. Ma ecco che l’uomo scopre un modo di scacciare questi problemi ogni volta che essi gli si presentano, e ricorre ad esso. Non appena i problemi che attendono soluzione cominciano a tormentarlo, l’uomo ricorre a questi modi, e si salva dall’inquietudine che suscitano in lui i problemi che lo preoccupano. La sua consapevolezza cessa di pretendere che essi vengano risolti, e i problemi irrisolti rimangono irrisolti fino al successivo schiarirsi della consapevolezza. Ma quando la consapevolezza è tornata chiara, si ripete la medesima cosa, e l’uomo continua per mesi, per anni, talvolta per tutta la vita a rimaner fermi dinanzi a quegli stessi problemi morali, senza muoversi d’un solo passo in direzione della loro soluzione. E tuttavia proprio nella soluzione dei problemi morali consiste tutto quanto il moto della vita.
Avviene dunque, in ciò, qualcosa di simile a quel che farebbe un uomo che dovesse riuscire a vedere il fondo d’una pozza d’acqua torbida per ritrovare una cosa preziosa cadutagli appunto lì, e che non volendo entrar nell’acqua, agitasse consapevolmente quell’acqua tutte le volte che essa comincia a depositarsi e a ridiventar trasparente. L’uomo che si droga rimane spesso immobile per tutta la vita entro una concezione del mondo oscura e contraddittoria, ch’egli ha assimilata una volta per tutte, e ogni volta che la sua consapevolezza comincia a rischiararsi, egli spinge sempre contro la stessa parete contro cui spingeva già dieci o vent’anni prima, e che egli non potrà sfondare in nessun modo, giacché ottunde continuamente, e consapevolmente, quella punta del suo pensiero che sola potrebbe sfondar la parete.
Provi ciascuno a rammentarsi com’era, prima d’aver incominciato a bere o a fumare, e verifichi anche in altre persone, e riscontrerà un tratto caratteristico costante, che distingue le persone dedite a una qualche droga, da coloro che son liberi dalla droga: quanto più un uomo si droga, tanto più egli è moralmente immobile.

Fonte: Tratto da: ‘Perché la gente si droga?’ di L.Tolstòj